Opinioni & Commenti
Difficile venderla come una guerra di liberazione
Da una parte è vero che le forze impiegate oggi dagli Stati Uniti sono circa un terzo di quelle messe in campo allora. Ma è anche risaputo che l’esercito iracheno, dopo dodici anni di embargo e dopo un disarmo imposto, è appena l’ombra di quello che nel 1991 era considerato «il quarto esercito» del mondo.
È evidente che questa volta la resistenza irachena è più dura e determinata. Non si tratta ora per i soldati iracheni di puntare i piedi per conservare un Kuwait conquistato da appena sei mesi, ma di difendere la propria terra. Quale che sia il vero sentimento degli iracheni nei confronti di Saddam conta relativamente. Ci sono dei momenti in cui la patria conta più di un tiranno, l’indipendenza più della libertà. Questa obbedienza disperata e cieca, proprio per il furore con cui anche la tigre difende il proprio territorio, apparve anche nella Russia di Stalin nel 1941 e perfino nella Germania del 1945.
Ora non sappiamo più quanto questa guerra durerà ad onta degli ottimisti che, come una agenzia turistica, promettevano un safari fotografico di una settimana nel deserto. Se i tempi si allungano anche le opinioni pubbliche dei paesi coinvolti saranno spinte a cambiare, soprattutto se cresceranno le vittime. L’America non ha dimenticato la sua rabbia sempre più pacifista di fronte allo spettacolo dei body bags, i suoi morti che tornavano dal Vietnam in sacchi di plastica, ed è pronta a mettere sotto accusa chi le ha promesso, a prezzo di capitali enormi spesi negli armamenti più sofisticati, «una guerra senza morti», «un combattere senza morire». Ma soprattutto il futuro dell’Iraq diventa sempre più un enigma. Se non ci sarà a Baghdad un 8 settembre, se l’esercito non diserterà in massa, se la gente non correrà incontro agli americani come gli scugnizzi e le «signorine» di Napoli sessanta anni fa, l’idea della guerra all’Iraq come «guerra di liberazione» non potrà essere venduta né agli iracheni né al resto del mondo.