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Dietro la crisi è sparito il motivo della crisi: l’Afghanistan

di Romanello CantiniDurante la crisi di governo provocata dal voto del senato sulla mozione di politica estera dell’esecutivo si è parlato di tutto – dai presunti colpevoli alle immaginarie alternative – eccetto che del problema per cui il governo è stato battuto.

Eppure ormai da mesi, soprattutto da parte delle forze più a sinistra della coalizione governativa, si minacciava di non volere votare il rifinanziamento della missione militare in Afghanistan. La parola chiave «discontinuità» sembrava la sola capace di dar pace ai ribelli. Si è detto e ripetuto infatti che sull’Afganistan non si poteva replicare semplicemente la scelta fatta dal precedente governo.

Ma la missione in Afghanistan non fu a suo tempo un capriccio privato dell’onorevole Berlusconi, ma una scelta collettiva di ben trentasette paesi. A differenza della malagurata guerra in Iraq la scelta non fu «unilaterale», ma «multilaterale», sulla base di una risoluzione dell’Onu e della condivisione dei paesi della Nato. A decidere l’intervento ci furono fra gli altri i governi socialisti di Jospin in Francia e di Schroder in Germania. E fra i paesi che decisero di parteciparvi in forma più o meno simbolica c’è un paese certamente non antislamico come la Turchia e perfino un paese come la Svizzera che da duecento anni non fa una guerra. Se quindi per «discontinuità» si intende il ritiro della nostra missione ciò significherebbe non solo distinguersi rispetto al passato, ma anche isolarci completamente rispetto al contesto internazionale in cui siamo inseriti.

Diverso è invece l’accento messo su una maggiore partecipazione alla ricostruzione civile del paese e a un minore impegno sul piano militare. Già fin d’ora del resto il caso ha voluto in qualche modo suggerirci questa vocazione. I nostri soldati per ora sono stati dispiegati, un po’ per fortuna e un po’ per scelta, fra Kabul ed Herat, cioè in due zone relativamente tranquille che hanno permesso ai nostri soldati di essere in guerra senza farla. E paradossalmente l’impegno delle nostre truppe sul piano civile è per una serie di circostanze finora notevole proprio perché svolto da soldati.

Per una maggiore libertà dal punto di vista burocratico, per non dovere preventivamente organizzare organismi ad hoc, per non dovere pagare il costo di una protezione, le nostre truppe, magari facendo finta di fare operazioni di genio militare, sono più efficaci degli interventi da parte dei civili. Come ha ricordato il ministro Parisi i nostri soldati hanno costruito fra l’altro 15 scuole e perforato centinaia di pozzi, mentre la cooperazione civile è riuscita a spendere appena la minima parte di quello che le era stato assegnato.

E tuttavia la proporzione di spesa che il governo sembra intenzionato a distribuire fra intervento civile e intervento militare nel rapporto di uno a dieci appare davvero inadeguato per un paese che in pratica è preda di una serie di guerre praticamente ininterrotte da quasi trent’anni e che tutto lascia prevedere che non sarà pacificato con la forza nemmeno prolungando all’infinito nel tempo l’intervento militare internazionale.

Ed è chiaro che anche una conferenza internazionale di pace può essere utile strumento per cercare di uscire da una impasse sempre più evidente attraverso un lavoro politico di mediazione e di ricomposizione. Con l’avvertenza però che la conferenza di pace resterebbe con tutta probabilità solo un gesto formale di buona volontà o uno zuccherino gettato là solo per cercare di ammansire i guastafeste della coalizione se essa fosse promossa come un gesto di protagonismo dal governo italiano e non come una iniziativa seria e globale organizzata dal consiglio di sicurezza dell’Onu.