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Dieci anni fa il genocidio in Rwanda

Sarebbero almeno 937.000 le vittime accertate del genocidio rwandese tra l’aprile e il giugno del 1994. Lo riferisce l’Irin, il network d’informazione regionale integrato che fa capo all’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli aiuti umanitari, che riporta le parole di Robert Bayigamba, ministro rwandese per la cultura, la gioventù e lo sport. A questa cifra, ha detto Bayigamba, ammonterebbero «le persone morte durante i 100 giorni del 1994 delle quali siamo riusciti a risalire ai nomi, alle età e ai luoghi di nascita». Il numero delle vittime, in realtà, potrebbe aumentare ulteriormente, secondo quanto detto dal ministro di Kigali, non appena i tribunali «gacaca» potranno diventare operativi in tutto il Paese e raccogliere le testimonianze di molti responsabili del genocidio, che da dieci anni aspettano in carcere di essere processati.I «gacaca» (parola che significa «erba», per il fatto che nelle tradizionali assemblee di villaggio gli anziani sedevano per terra), ufficialmente attivi a partire dallo scorso 20 giugno, sono delle assemblee pubbliche locali che hanno l’obiettivo di alleggerire il lavoro dei tribunali ruandesi chiamati a giudicare le migliaia di sospettati per crimini connessi al genocidio del 1994. Esiste un simile tribunale in ciascuna delle 106 municipalità rwandesi.Tutto cominciò il 6 aprile 1994 quando un missile terra-aria abbatteva, nel cielo di Kigali, l’aereo su cui viaggiavano il presidente del Rwanda Juvénal Habyarimana e quello burundese Cyprien Ntaryamira.

Secondo Christophe Hakizabera, ex esponente di spicco del Fpr, la decisione di uccidere Habyarimana fu presa a Bobo Dioulasso in Burkina Faso nel marzo 1994, alla presenza di Kagame. Il piano fu prontamente notificato ai tutsi residenti in Rwanda, i quali misero in guardia Kagame sulle sue disastrose conseguenze, prevedendo un costo elevatissimo in vite umane. In una lettera alla Commissione dell’Onu incaricata di condurre un’inchiesta sulle responsabilità delle Nazioni Unite nel dramma ruandese, Hakizabera affermò che Kagame contava su una vittoria militare lampo, prevedendo la presa di Kigali in tre giorni e la limitazione delle perdite in vite umane a 500. Sempre secondo la stessa fonte «per il Fpr contavano solo i tutsi della diaspora, mentre gran parte dei tutsi dell’interno del Paese erano ritenuti tra quelli coinvolti dalla corruzione del regime di Habyarimana. (…) Kagame si è servito delle loro disgrazie per far legittimare il proprio colpo di Stato dalle forze straniere e dall’Onu stessa». Non è un dato irrilevante il siluramento del procuratore Carla del Ponte, del Tribunale penale internazionale per il Rwanda, avvenuto lo scorso anno. Il giudice elvetico, secondo un principio di equità, intendeva far luce anche sulle responsabilità nel genocidio dell’attuale classe dirigente ruandese. Ma Kagame ha ottenuto la sua rimozione, grazie soprattutto all’appoggio del Dipartimento di Stato Usa.

Una cosa è certa: il genocidio ha rappresentato una sconfitta per l’intero popolo ruandese: hutu e tutsi. Ma anche per la Chiesa Cattolica e i suoi missionari. Molte uccisioni furono perpetrate in edifici sacri, morirono quattro vescovi, sacerdoti, religiosi e laici impegnati, per non parlare dello scandalo di chi partecipò ai massacri passando dalla parte di Caino.