Associazioni e movimenti
Detenuti: “Rieduchiamo i carcerati curando le ferite”
La Comunità Papa Giovanni XXIII ha 10 strutture in Italia dove il metodo si basa sulla relazione, l’accompagnamento, il reinserimento. In questo modo la recidiva si abbatte al 12-15%. La testimonianza del responsabile Giorgio Pieri
Rieducare il detenuto, reinserirlo nella società e abbattere anche il tasso di recidiva. È l’esperienza delle Comunità educanti con i carcerati (Cec), progetto promosso dalla Comunità Papa Giovanni XXIII (Apg23) che ha portato nel tempo alla realizzazione di 10 strutture per l’accoglienza di carcerati che scontano la pena, dove i detenuti sono rieducati attraverso esperienze di servizio ai più deboli nelle cooperative dell’associazione. Per questo la Comunità, attraverso il presidente Matteo Fadda, ha salutato molto positivamente il decreto carcere, recentemente approvato dal Governo. Dell’esperienza Comunità educanti con i carcerati parliamo con Giorgio Pieri, biologo, erborista ed educatore professionale, responsabile del progetto per la Comunità Papa Giovanni XXIII.
Quando è nata la prima Casa? Dove si trovano le Cec?
Le Comunità sono dieci, la prima si chiama Casa “Madre del Perdono” e l’abbiamo aperta nel 2004 a Montefiore, nel Riminese, poi ne abbiamo aperto una seconda in Toscana: ora ne abbiamo tre nel Riminese, una a Forlì, una in Toscana, una a Cuneo, una a Termoli, due a Vasto e una a Piacenza.
Come funzionano le Cec?
Nella Comunità il metodo si basa sulla relazione. Quello che abbiamo capito è che queste persone, prima di fare del male, hanno ricevuto il male, sono persone ferite, fragili, e sul piano relazionale non hanno avuto esempi positivi o hanno passati di violenza e di estrema povertà materiale e culturale, deprivate sul piano educativo in tenera età. Il nostro impegno principale è lavorare sulla relazione e sulle ferite.Un po’ come l’altalena. Innanzitutto, guardiamo il passato della persona, guardiamo la ferita, cerchiamo di rendere consapevole di queste ferite. Ad esempio, c’era un ragazzo che picchiava la moglie, alla fine si è reso conto che sottovalutava il fatto che il padre a sua volta picchiasse la madre e bevesse: pur odiando il padre, alla fine l’unico linguaggio che conosceva era quello della violenza. È stata un’elaborazione non immediata e non facile. Il ragazzo diceva che era una fortuna l’essere entrato in Comunità perché covava solo odio verso la moglie che l’aveva denunciato, mentre in Comunità ha capito che il problema era lui e non la moglie. In Comunità ci sono regole e vengono fuori i pregi e i difetti delle persone. Noi dobbiamo scoprire i talenti dei “recuperandi”. Sui difetti si deve lavorare, bisogna anche aiutarli a rielaborare la rabbia che covano, saperla contenere, saperla indirizzare.
Si chiamano “Comunità educanti con i carcerati”: chi educa?
Le Comunità sono fatte da operatori come me, ma poi ci sono tanti volontari che vengono due o tre ore alla settimana. Il principio è che il territorio deve farsi carico di queste case. Diceva don Oreste Benzi: “Nello sbaglio di uno c’è lo sbaglio di tutti, per recuperare una persona c’è bisogno del coinvolgimento di tutti”. Ci siamo dati come punto di lavorare sul detenuto non solo noi operatori, ma anche i volontari che vengono a visitare queste case e che solitamente vivono un rapporto uno a uno: li accompagnano dall’inizio della pena sino alla fine. In colloqui che durano da una quarantina di minuti fino a un’ora i volontari cercano di scavare nel loro vissuto, quello che vivono in comunità, cosa sta facendo bene e cosa no, come questo è riferito anche a tutta l’esperienza passata. Il recuperando si sente accompagnato, sente che il suo futuro non è uguale al suo passato, che ha la possibilità di sperare in qualcosa di diverso, che ha persone che gli vogliono bene. Pian piano si calma e accetta di guardarsi dentro, questo è l’aspetto più bello della Comunità: la persona accetta di fare questo lavoro e si dà il tempo per farlo. Quando si è maturato questo percorso, come l’altalena si esce dalla Comunità per andare verso l’esterno: inviamo le persone al lavoro e le accompagniamo dando un appartamento, nel frattempo continuano la relazione con noi se vogliono.
Com’è una giornata tipo in Comunità?
La sveglia alle 7- 7,30, poi la colazione, si prosegue con le pulizie, poi c’è un momento di spiritualità: noi essendo cristiani partiamo dalla lettura della Parola di Dio.Detenuti per reati gravi come l’omicidio o persone che hanno subito violenze di tutti i generi hanno una domanda di senso molto alta e questa componente spirituale è molto importante. Anche se ci sono molti musulmani – la metà delle persone che vengono da noi sono straniere e quindi sono di religioni diverse – il bisogno di spiritualità ci accomuna, non ci separa, questa è un’esperienza molto bella.Noi facciamo anche lavori in casa: assemblaggio oppure orto, allevamento di animali. Un appuntamento fisso la sera è il resoconto scritto di sentimenti ed emozioni che hanno dominato la giornata. Ci sono poi tre incontri a settimana tutti insieme con o senza gli operatori in cui ci si racconta come sta andando il percorso. L’aspetto bello è che diventiamo capaci di farci guardare e di guardare gli altri, cercando di rompere i meccanismi di omertà, gli errori che si ripetono. Questo lavoro è supportato anche, quando c’è bisogno, dalla presenza di psicologi e psichiatri, ma il lavoro vero è quello della Comunità, dove la convivenza stretta tira fuori il bello e il brutto che c’è dentro di noi su cui poter lavorare.Questo tipo di lavoro non si può fare in carcere, perché il sistema carcere è di per sé violento per cui la persona non potrà fare mai una vera revisione di vita in quanto si trova a doversi difendere.C’è gente che ha commesso un reato e dentro dovrebbe elaborare un senso di colpa e invece elabora un sentimento di vittimismo perché si deve difendere dal sistema che è fatto di violenza agita dagli altri detenuti, dalle guardie e anche da una buona dose di rabbia che nasce dalla propria storia. Quindi, non si riesce a fare questo lavoro di introspezione e di rielaborazione del proprio vissuto. Ma se non si fa questo non si può parlare di percorso educativo.
Ci sono dei principi che ispirano il vostro lavoro con i detenuti?
Innanzitutto, come dicevo prima, la presenza della comunità esterna, i volontari, che noi formiamo, facciamo un corso di formazione ogni due mesi, quindi in una casa di 15 persone ci sono 10 volontari formati. Poi mettiamo alcuni detenuti al massimo della responsabilità, cioè gestiscono le mansioni della casa ma anche la responsabilità sul piano educativo.Abbiamo un organo, il Consiglio della sincerità, della solidarietà e della sicurezza, con un gruppo di due o tre detenuti che collaborano con gli operatori nella gestione della casa.Un altro punto importante è la famiglia, di origine e quella attuale, che va coinvolta e diventa una risorsa nel percorso. Altro punto è il lavoro, che all’inizio non è remunerato. Noi siamo a costo zero per lo Stato al momento. Sono vent’anni che abbiamo aperto la prima casa e non abbiamo mai avuto finanziamenti se non una parentesi di tre anni come Casa Madre del perdono per 10 persone dalla regione Emilia Romagna. Il lavoro diventa un’occasione per insegnare l’atteggiamento che bisogna avere. Occorre creare le condizioni affinché anche il lavoro diventi un elemento educativo. Di per sé non lo è, ma lo diventa in un contesto educativo. Il lavoro va accompagnato fino all’autonomia. Non dobbiamo illuderci che un lavoro risolva il problema del detenuto. Il problema del detenuto è l’elaborazione del proprio vissuto; il lavoro per campare è necessario, ma viene dopo. La Comunità Papa Giovanni ha una grande forza: oltre alle Cec, abbiamo comunità per tossicodipendenti, per adulti, con disagio fisico, psichico, case famiglia, abbiamo oltre 500 strutture, quindi abbiamo una rete, per cui dopo la Cec possiamo mandare le persone in casa famiglia e poi da lì vanno a lavorare.
Chi sta in Comunità?
Per la precarietà con cui abbiamo dovuto lavorare abbiamo molto valorizzato la disponibilità di ex carcerati che hanno deciso di dare la vita per questo progetto. Ogni casa è garantita dalla presenza alcuni membri della Comunità, poi ci sino alcuni ex detenuti di supporto che sono di grande valore. Se c’è la possibilità grazie al decreto carcere di avere fondi e di assumere educatori professionali, sarà la prima cosa che faremo. Da uno studio presentato al Senato nel 2014, ma ancora valido, emerge che se ci fosse una retta di 40 euro al giorno ci sarebbero disponibili 10mila posti in Comunità perché ci sarebbero educatori, figure professionali che pagate il giusto sarebbero disponibili a vivere questa esperienza che è bella e dura al tempo stesso, perché abbiamo sempre a che fare con il male. Eil male è un grande mistero e lavorare sul male e sulle ferite delle persone è sempre cosa delicata e nessuno può dire si fa così ed è certo così, è sempre una ricerca continua per fare bene, sempre meglio.
Prima diceva dell’importanza dei momenti di spiritualità…
È importante accendere e dare valore alla propria spiritualità. Ho chiesto a un ragazzo: “Cos’è la cosa più bella di te?”. Mi ha risposto: “La mia fragilità”. Questo è uno spacciatore che ha smerciato droga senza essere preso per 24 anni, non ne poteva più di quella vita e dice grazie a Dio di essere stato arrestato: da noi, dove ci sono anche disabili, si è trovato ad accudire un disabile giorno e notte e ha scoperto di avere una grande sensibilità alla fragilità degli altri. Questo talento che ha scoperto di avere nasce dalle sue fragilità, suo padre ad esempio beveva.Questa come le altre storie mi dicono che la strada è giusta, forse è l’unica strada.
Il presidente dell’Apg23 ha mostrato soddisfazione per il decreto carcere…
Siamo stati noi a proporre un Albo di Comunità al sottosegretario Andrea Ostellari in un incontro con lui e con Giovanni Russo, il capo del Dap e ci siamo sentiti dire una frase confortante: “Questa volta non siete voi a chiedere aiuto a noi, ma siamo noi a chiedere aiuto a voi”. Vuol dire che hanno riconosciuto che le Comunità possono diventare se non per tutti ma per tanti – io dico anche per oltre 20mila persone – luoghi di espiazione della pena alternativi al carcere.Io sogno che un giorno arriveremo a guardare le colate di cemento e ferro come qualcosa di preistorico perché saranno sostituite da qualcosa di molto più bello che sono le Comunità.
Quante persone avete accolto in questi anni? Con le Cec si abbassa la recidiva?
In tutti questi anni abbiamo accolto oltre 4mila persone, soltanto qui nel Riminese ci avviciniamo alle mille, attualmente ci sono 280/290 persone tra detenuti ed ex detenuti che dormono nelle nostre case.Da noi la recidiva si abbassa al 12-15%, rispetto al 70% dichiarato dallo Stato italiano, ma che in realtà è più alta, perché il 70% si riferisce solo a quelli che rientrano in carcere entro i cinque anni, ma ci sono anche quelli che commettono reati senza essere presi.
Fate incontrare vittime e autori di reati, secondo il paradigma della giustizia riparativa?
La nostra è “giustizia educativa”. Grazie alle Comunità passiamo da una giustizia retributiva che è quella delle carceri, vendicativa in alcuni casi, a una giustizia educativa. La giustizia riparativa credo, per come è stata concepita, è molto teorica e molto di élite, perché di fatto l’incontro vittima e carnefice non è sempre facile. Noi, ad esempio, facciamo venire la mamma di un tossicodipendente a parlare del proprio figlio e di quello che vive un genitore quando ha un figlio per strada oppure facciamo incontri con le comunità terapeutiche dove mettiamo a confronto spacciatori e consumatori, anche con qualche partita di calcio tra la squadra degli spacciatori contro quella dei tossicodipendenti. Credo che questi incontri vadano incentivati per dare valore alla vittima e far riconoscere al carnefice che, oltre ai suoi diritti, ci sono quelli della vittima perché il progetto Cec tiene conto dei diritti della vittima, il diritto di riscatto del reo e il diritto della società che aspira a una giustizia piena. Nel libro “Carcere. L’alternativa possibile” spiego bene tutto il mondo Cec, nato dall’esperienza brasiliana Apac, con le cosiddette “carceri senza guardie”.