Toscana

Delitti e informazione/1: Quando il magistrato cede alle tentazioni

Ai tempi in cui era deputato al Parlamento italiano si fece promotore di una proposta di legge perché non fossero resi pubblici sulla stampa i nomi dei magistrati incaricati di indagini o di giudizi. La legge non solo non fu approvata, ma suscitò polemiche a non finire. Eppure, per dire come ancora oggi la pensa su vicende tipo quella di Cogne, Carlo Casini si affida a quella vecchia idea, che considera «un po’ la chiave di lettura di questi fenomeni».

L’ex deputato nazionale ed europeo, ora magistrato di Cassazione e presidente del Movimento per la vita, ribadisce che con quella legge voleva denunciare un male di cui sono responsabili al tempo stesso i magistrati e i giornalisti. «Il male dei magistrati – spiega Casini – è che avendo una carriera di tutto rispetto, ma essenzialmente legata all’anzianità, cercano altri sbocchi a questo livellamento e la notorietà è appunto uno di questi sbocchi». Il Consiglio superiore della magistratura il più delle volte affida gli incarichi senza conoscere direttamente le persone e allora la notorietà può giocare un ruolo importante. «Quindi la notorietà o la gratificazione – aggiunge Casini – rappresentano delle grandi tentazioni alle quali si potrebbe aggiungere la paura di essere criticati. Un conto è fare una critica pubblica nei confronti di una procura, un conto è fare i nomi di Tizio, Caio e Sempronio».

Per evitare il rischio di «parlare per gratificazione oppure per timore», il magistrato fiorentino ritiene necessaria una norma tipo quella che vieta di dire come hanno votato i giudici in camera di consiglio quando ci sono dei collegi, oppure quella che stabilisce di non fare il nome dei minorenni. «Regole del genere – a giudizio di Casini – purificherebbe un po’ la situazione: eviterebbero ai magistrati di essere tentati ed eviterebbero ai giornalisti di fare i furbi mettendo i magistrati alle corde con “ricatti” della serie: “Se non mi dice nulla sono costretto a dare delle notizie magari inesatte”».

Questo la dice lunga sull’idea di magistrato che ha in testa il presidente del Movimento per la vita. Infatti, non tarda a dire che dovrebbe essere «una specie di sacerdote della giustizia» e che «la stragrande maggioranza dei magistrati, quando giudica, lo fa con obiettività», ma senza negare «che ci sono dei meccanismi inconsapevoli della serie: “Ti faccio vedere io se avevo ragione!”».

Detto della categoria a cui appartiene, Casini non risparmia qualche frecciata ai «complici»: i giornalisti, che «troppo spesso considerano come loro principio etico fondamentale il dovere di far sapere. Ma il fatto stesso che i giornali dicano che uno è accusato, è molto peggio che un anno di reclusione. E qui non ci si può rifugiare dietro la foglia di fico del “presunto” o del condizionale».

Per spiegare il peso di quanto viene pubblicato, Casini ricorda che «la nostra legge prevede come pena accessoria la pubblicazione della sentenza penale di condanna» e questo, a suo giudizio, «significa che la notorietà dell’accusa e della condanna in questo caso è un elemento afflittivo: “Non solo ti mando in carcere o ti faccio la multa, ma faccio sapere a tutti quello che hai fatto, così impari!”».

Nella duplice veste di magistrato di Cassazione e di presidente del Movimento per la vita non possiamo non spingere Carlo Casini a qualche riflessione oltre il delitto di Cogne affrontando i numerosi casi di violenza sui minori in cui sono coinvolti, spesso ingiustamente, i familiari.

«Che esistano forme di violenza tra le mura domestiche – ammette l’ex parlamentare – è in parte vero, ma ho il sospetto e il timore che certe reclamizzazioni eccessive derivino dalla voglia di dimostrare che la famiglia non è più uno strumento privilegiato di umanizzazione, che non garantisce più lo sviluppo della persona umana, anzi…. Oso dire questo anche se andrebbe verificato meglio, ma mi sembra fuori discussione che sia in corso un attacco alla famiglia intesa in senso tradizionale. E quando capita qualche fatto in cui è coinvolta, o presuntamente coinvolta una famiglia tradizionale, il tamburo batte forte. Ed è proprio l’eventuale smentita a dimostrare che c’è stato un pregiudizio in partenza».

Un ragionamento simile potrebbe essere fatto per il caso di Cogne, con la mamma del piccolo Samuele come principale indiziata. «E questo non è giusto – sostiene Casini –. In questi casi, qualunque sia la verità, sarebbe meglio il silenzio. Infatti, se la madre fosse innocente e non si scoprisse il colpevole, questa donna, oltre all’immenso dolore per la perdita del figlio, resterebbe rovinata per tutta la vita. Chiedere il silenzio è però difficile perché qualcuno potrebbe ribattere che con il silenzio anche i regimi totalitari hanno garantito la propria impunità su tanti delitti. Allora, si potrebbe pubblicare solo quello che dice il giudice. Ma si tratta in ogni caso di problemi difficili da risolvere».

Ma perché questo caso suscita tanto interesse? «Forse, contrariamente a quanto si pensa, potrebbe esserci – dice Casini – anche un sentimento benevolo, ovvero il pensare che una madre possa uccidere un figlio di tre anni è una cosa così contraria al nostro senso di umanità che vorremmo in tutti i modi che non fosse così. Nessuno, perciò, si augura che sia la mamma. In certo senso è una paura verso noi stessi: se fosse potuto accadere a lei, può accadere a ciascuno di noi. Vorrebbe dire che siamo fragili, che camminiamo sulle sabbie mobili».A.F. IL COMMENTO:Delitti e informazione, quella ferita originaria – di Alberto MigoneGLI ALTRI SERVIZI:Delitti e informazione/2: Cronaca, anche la «nera» ha bisogno di regoleDelitti e informazione/3:Padri violenti e serial killer: la galleria degli erroriDelitti e informazione/4: E gli omicidi di Firenze valgono pur sempre un titoloDelitti e informazione/5:stampa e magistratura sul banco degli imputati