Italia
De Rita: «La politica dia risposte per fermare il declino»
Il professor Giuseppe De Rita, presidente e «padre» del Censis, potrebbe già anticiparci alcune linee del «Rapporto» (sarà il quarantasettesimo, dal 1967) che a dicembre consegnerà ai nostri governanti, a tutte le Istituzioni, agli analisti ed operatori delle varie categorie produttive, fotografando con la consueta precisione l’intensità dei fenomeni, dei processi, delle tensioni e dei bisogni sociali più significativi. Interpretazioni, ma non soluzioni . Ed infatti il più famoso sociologo italiano non si stanca di ripetere: «Noi del Censis raccontiamo il Paese, ma non possiamo elaborare anche le ricette politiche. A questo dovrebbero pensare i politici, che invece sono concentrati sulle mezze ore conquistate in tv». Sollecitato, non si sottrae però dall’indicare qualche priorità. Avanti tutto mette il lavoro, necessario come il pane. Ed ha condiviso l’impostazione di fondo data dalla Cei e in particolare alcune proposte, come quelle di «liberare il mercato dell’occupazione» e «diversificare il concetto di produttività», intesa come «capacità di esaltare la dimensione di organizzazione del singolo nell’impresa». Mettendo però in guardia contro gli eccessi di «glorificazione teorica» e di «molecolarizzazione del sistema». Una «identificazione», questa, «del singolo con il lavoro, e del lavoro con l’azienda», che, da una parte, «ha fatto grande l’Italia», ma dall’altra «è avvenuta in modo spietato», lasciando il lavoratore «solo e senza alcun tipo di accompagnamento». Temi toccati anche a Firenze, in un convegno sui problemi e le prospettive dell’Europa, promosso dal presidente della Fondazione Ente Cassa di Risparmio Giampiero Maracchi e dall’Associazione «Colloqui di Toscana» guidata da Lapo Mazzei. Occasione che ci ha consentito di intervistare il grande sociologo.
Professor De Rita, in questi anni ha visto l’Italia cambiare pelle. Si immaginava un simile «tonfo»?
«Non mi sono immaginato che cadessimo così rapidamente sull’orlo del baratro forse perché soffro di poca immaginazione, ma specialmente perché sento che la descrizione migliore è quella di essere in una trincea di sopravvivenza, dove c’è difesa dell’esistente ma anche voglia di andare oltre, di vivere “sopra la crisi”».
Ma dal tunnel di una crisi «angosciante e drammatica» (come l’ha definita il Presidente Napolitano), filtrerà un po’ di luce o continueremo a registrare solo la lievitazione degli indici di disagio e povertà?
«Nel tessuto sociale italiano credo ci siano tanti meccanismi di gestione (individuale e collettiva) della crisi da farmi sentire un po’ esagerato il troppo facile riferimento all’angoscia».
Come e quando ci risolleveremo? Dal suo osservatorio (l’autorevole Censis) che suggerimenti si sente di dare al governo Letta?
«Siamo al picco basso della curva di evoluzione del sistema, dovremmo fra poco ricominciare a salire. Ed al governo consiglierei di attivare un po’ di spirito di futuro, non la desolazione comunicativa di oggi».
L’Europa ci aiuterà? O dovremo fare da soli ulteriori sacrifici per favorire la crescita?
«L’Europa non ci aiuterà perché non esiste una politica europea capace di una cultura di sviluppo e di innovazione. Viviamo in un’Europa rattrappita e ciò aiuta per la discesa non per risalire la china».
Il «monaco delle cose», che nelle sue analisi spietate quanto originali ha spesso raccontato il sogno degli italiani, cosa si sente di dire ai milioni di laureati e diplomati senza lavoro e prospettive?
«Direi che l’esplosione della scolarizzazione di massa (anche nell’Università) ha prodotto livelli troppo bassi di cultura generale e di professionalità. I diplomati ed i laureati degli ultimi anni scontano questo errore, ma è un errore che non hanno fatto loro, se non quando hanno scelto percorsi formativi di facile presa e basso profilo».
In un suo intervento ha definito quella del lavoro una «crisi antropologica». Perché?
«Perché nella cultura collettiva italiana, più antropologica che socioeconomica, il lavoro ha perso l’antica centralità nel processo di formazione della personalità individuale. Valgono più i consumi, la finanza facile, la comunicazione di massa; e si vede».
Alcuni opinionisti sostengono che i giovani devono anche sapersi inventare o creare un’occupazione, un mestiere. Sono nel giusto?
«È profondamente giusto, perché la responsabilizzazione individuale in materia di occupazione e di lavoro è fattore fondamentale. Ma non è ancora diventato un atteggiamento di massa. Anche perché nella attuale cultura giovanile non è frequentissima la capacità di inventare e creare».
Quali Maestri l’hanno portata ad essere forse l’unico sociologo in cui gli italiani credono? Come stile di scrittura, armoniosa e seducente, a chi si sente più vicino?
«Io ho avuto sul lavoro un solo maestro, si chiamava Giorgio Sebregondi; mi assunse alla Svimez e mi insegnò a lavorare. Aveva una particolare determinazione a far coincidere cultura e realtà (accentava la “e” per dare maggior forza alla frase). Il “monaco delle cose” nasce lì e resta lì, anche a 55 anni dalla scomparsa del “maestro”».
Più volte ha descritto la Toscana dei distretti: la vocazione culturale e turistica, la creatività degli artigiani e degli imprenditori del tessile e dell’oro. Cosa più la colpisce – in positivo ed in negativo – della Toscana di oggi?
«Nella Toscana di oggi mi colpisce la crescita di una società “combinatoria” che non giuoca più su una sola carta (il manifatturiero in particolare, fosse oro o tessile) ma su un insieme di opportunità e di impegni e in un intreccio molto lucido fra industria e terziario, fra turismo e agricoltura d’eccellenza, fra messa a reddito del patrimonio e innovazione continuata dei processi produttivi, ecc..»
L’eclissi della borghesia, tema di alcuni suoi saggi, in che modo ha segnato le province toscane?
«Io preferisco parlare di crisi della cetomedizzazione, il più importante processo sociale degli ultimi decenni. Ma in Toscana l’esplosione del ceto medio non ha avuto effetti dirompenti come in altre regioni; in Toscana la antica articolazione sociale ha tenuto meglio e quel che era borghese prima è ancora borghese oggi. Magari al netto della crescita del ceto impiegatizio, che pure è avvenuta anche in Toscana».
La crisi di Siena: pure il mito della Città-Banca è crollato. Tutta colpa dell’invadenza, della scarsa lungimiranza e prudenza della politica? Secondo lei perché quel modello è fallito?
«Perché il “local” ha voluto restare profondamente localistico e provinciale, volutamente non accettando le sfide global che caratterizzano la vita finanziaria attuale. Tutto qui, e non vedo in giro adeguati ripensamenti culturali e politici».
A proposito di politica: in un editoriale del «Corriere della Sera» l’ha definita «piatta e vuota». Una volta piaceva, perché sapeva trasmettere un messaggio di crescita sociale. Ora è solo disprezzata: perché è così lontana dai cittadini? Per la mancanza di sobrietà di certi suoi attori?
«La sobrietà nella crisi della politica c’entra poco se non per le folkloristiche vicende di qualche politico ubriaco di potere e/o di soldi. La crisi della politica è nel suo venir meno al compito “alto” di orientare e motivare i cittadini a crescere come individui, come collettività, come sistema».
Si parla di riforme. Sono urgenti, ma non credo sia così convinto che i partiti della maggioranza delle «larghe intese» sappiano attuarle, se ha definito il loro comportamento «incoscienza collettiva di casta» o addirittura «voyeurismo», nell’accezione di pratica deviante, come una persona che gode nel vedere situazioni di sofferenza o la sfortuna degli altri. Con una battuta pungente, ha rimarcato: «Sembra di essere sempre a “Ballarò”, dove tutti sono spettatori»…
«Mi permetto di dire che ormai da qualche anno sono convinto che le riforme e il riformismo non servono. La dinamica sociale va capita e gestita in tempo reale, in continuità. Attendere un momento magico di riforma (di qualsiasi settore si tratti) è puro alibi».
L’irrompere sulla scena di Grillo, oltre a rappresentare la protesta anti-sistema, cosa ha portato in Parlamento? Molti che hanno votato il M5S forse si sono già pentiti, come si è visto alle ultime amministrative di Roma e in altri sedici capoluoghi di provincia, nelle quali si è affermato il partito del «non voto»…
«Se non si son pentiti si pentiranno. Il fascino del grande leader vigorosamente indignato è destinato a non durare perché non si riesce, con lui ed attorno a lui, a costruire appartenenze serie e solide strutture, cioè i motori del consenso».
Una nuova legge elettorale basterebbe a risolvere il problema dell’eccessiva frammentazione e disaffezione dai partiti, a riportare i cittadini più delusi dagli scandali alle urne ed a rendere il Paese finalmente governabile?
«Credo proprio di sì. Ma bisogna vedere quale sia la legge elettorale che uscirà fuori dall’attuale dialettica politica. Io sono un proporzionalista incallito, ma sento in giro aria di accentuazione di quella verticalizzazione del consenso e del potere che secondo me ha finora prodotto solo guai, e non solo politici».
Papa Francesco e i Vescovi italiani non si stancano di richiamare all’etica nella politica, nella vita pubblica e nell’economia. Convinceranno le forze politiche a tornare tra i cittadini per capirne fino in fondo i bisogni e risolvere i problemi del Paese?
«La più o meno esplicita propensione del Papa e della Cei a privilegiare la scelta religiosa, la religiosità individuale, la qualità della vita di relazione, mi fanno pensare che faranno sempre meno politica, magari concedendosi ogni tanto un testo o un discorso sulla crisi etica della politica».
Il laicato cattolico può essere ancora protagonista e dare un contributo con una nuova «classe dirigente» alla ricostruzione, come ai tempi della Costituente e della Prima Repubblica?
«La mia risposta è purtroppo negativa, non vedo in giro nel laicato cattolico (spesso troppo attirato dalla politica partitica) personaggi “costituenti” capaci cioè di creare una cultura collettiva di sviluppo. E non faccio riferimento ai grandi (De Gasperi e La Pira) ma a gente apparentemente modesta ma piena di visione: per fare un esempio, penso a Sergio Paronetto, il motorino del Codice di Camaldoli».
La scheda
Il suo libro preferito è ancora Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen; mentre il film che più lo ha colpito è Un uomo tranquillo, di John Ford, superbamente interpretato nel 1952 da John Wayne e Maureen O’Hara. Nato a Roma ma di origini molisane (il padre era bancario), è alla soglia degli 81 anni: li compirà il 27 luglio, ma ne dimostra venti di meno grazie ad una lucidità e capacità di lavoro disarmanti. Si compiace di aver creato una famiglia numerosa, essendo padre di otto figli. Come (e ancor prima) del presidente della Bce Mario Draghi, il fondatore del Censis Giuseppe Giuseppe De Rita è stato un allievo dell’Istituto «Massimo» di Roma. Non solo perché è un cattolico praticante, ma per evidenziare una sicura solidità negli studi, nelle interviste sottolinea spesso con orgoglio la sua formazione scolastica dai Gesuiti, che gli ha sicuramente facilitato il conseguimento della laurea in Giurisprudenza. «Lì ci hanno insegnato il senso di responsabilità come principio perinde ac cadaver, da perseguire fino in fondo». Una locuzione latina, un motto ferreo, come le regole che si è dato quando nel 1964, insieme ad un gruppo di ricercatori fuoriusciti dallo Svimez di Pasquale Saraceno – concentrato su un’ottica esclusivamente meridionalistica – dette vita appunto al Centro Studi Investimenti Sociali (Censis). Una scelta che gli ha cambiato la vita. A Villa Stella, nella «casa del Censis» circondata da due giardini alberati nei pressi della Salaria, gli esperti e tanti giovani studiosi guidati dal suo più stretto collaboratore, il direttore professor Giuseppe Roma, fanno affluire dati ed analisi sui mutamenti economico-sociali, di mentalità e di costume, che poi danno vita all’annuale «Rapporto» sui cambiamenti della società italiana e agli studi settoriali o tematici commissionati da enti pubblici e privati.
Presidente del Cnel dal 1989 al 2000 e della casa editrice «Le Monnier», il professor De Rita è così diventato un punto di riferimento unico ed ha acquisito sempre più prestigio, tanto da essere corteggiato dal mondo della politica: «Mi hanno offerto tre volte di fare il sindaco di Roma – ha confessato recentemente in un’intervista a Vittorio Zincone del settimanale Sette – L’ultimo a propormi di fare il ministro, invece, è stato Giuliano Amato. Nel ’92. Disse che avrebbe istituito apposta per me un “ministero Saraceno”, e cioè la fusione di quello del Bilancio, delle Partecipazioni Statali e del Mezzogiorno. Rifiutai». Il suo nome però è ancora una volta circolato nelle ultime candidature per il Quirinale.
Editorialista del «Corriere della Sera», ha scritto numerosi libri. Tra le opere ricordiamo: «La Chiesa galassia e l’ultimo Concordato» (1983); «Le professioni del sociale» (1991); «Intervista sulla borghesia in Italia» (1997); «Manifesto per lo sviluppo locale. Teoria e pratica dei patti territoriali» (scritto insieme ad Aldo Bonomi» (1998); «Capolinea a nordovest» (in collaborazione con Antonio Galdo, 2001); «Il regno inerme: società e crisi delle istituzioni» (2002); «Che fine ha fatto la borghesia? Dialogo sulla nuova classe dirigente in Italia», scritto nel 2004 con Massimo Cacciari e Bonomi, ed infine «L’eclissi della borghesia» (2011, firmato sempre con Antonio Galdo). Da molti anni è presente, come relatore, ai più importanti convegni e dibattiti sulle condizioni e le linee di sviluppo della società italiana. In questi mesi la sua lettura della crisi è chiara. Il suo pensiero, a cascata, parte spesso dall’enciclica di Paolo VI («tutto quello che l’uomo fa per i suoi fratelli è la creazione del soprannaturale, c’è una forza spirituale nel mondo che si impegna»), abbraccia la Chiesa e la laicità dei sindacati, il movimento dei grillini e la crisi dell’imprenditorialità. Il senso sta nell’orizzontalità di un modello che ora deve trovare «vigore» e diventare verticale.