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Dall’Iraq una buona notizia, ma la situazione resta critica

di Romanello CantiniDopo troppi esempi di orrore e di barbarie la liberazione di Simona Pari e di Simona Torretta è stata una esplosione di sollievo e di gioia per tutti. Ma probabilmente questo fulmineo lieto fine di una angoscia per tre settimane sfruttata e perfino iniettata con falsi certificati di morte segna anche una svolta nel terrorismo iracheno. Siamo davanti a nuovi attori, meno ideologi e più politici, forse inquinati anche dai metodi della delinquenza comune se, come si dice da diverse parti, si è imposto anche un riscatto.Questa volta la nostra intelligence ha lavorato bene per affrontare un sequestro che fin dall’inizio appariva atipico.

Ma soprattutto in questa vicenda è uscito allo scoperto il mondo musulmano, italiano e no, che ha manifestato e agito in tante direzioni perché le «due Simone» fossero rilasciate. Questo sequestro, come del resto quello dei due giornalisti francesi, è stato forse il sasso intorno a cui ha cominciato ad avvolgersi quella valanga del cosiddetto mondo islamico moderato che di fronte a questi episodi, è uscito allo scoperto per dire un «no» a tutto tondo al terrorismo e in numero massiccio. Se si considera il ruolo che nella liberazione delle due ragazze sembra abbiano avuto paesi come la Giordania e il Kuwait si può incominciare ad intravedere meglio un ruolo attivo di mediazione di una costellazione di stati arabi propensi al dialogo e fino ad oggi ignorati o disprezzati dai teorici del «muro contro muro».

Se di intenzioni di pacificazione vera si tratta, mai come in questo momento ce n’è bisogno. Con il tempo in Iraq la normalità non arriva, ma se ne va. Le operazioni di guerriglia si intensificano anziché placarsi. A detta dei meno pessimisti le forze di occupazione controllano poco più della metà del territorio iracheno. Le forze di sicurezza del governo Allawi non raggiungono nemmeno i 50 mila uomini quando le forze di occupazione, tre volte superiori di numero, non riescono a riportare ordine. In questo quadro desolante ci vuole molta fantasia tinta di rosa per immaginare le elezioni che dovrebbero tenersi fra tre mesi come premessa al disimpegno delle forze di occupazione. Già Donald Rumsfeld, il segretario alla Difesa americana, mette le mani avanti e inventa la strana teoria per cui le elezioni sono valide anche se svolte in tre quarti di un Paese. Colin Powell ammette che la situazione si sta aggravando e che ci vorranno addirittura nuove truppe.

Ma in realtà anche l’obiettivo di esportare una democrazia in Iraq appare sempre più impraticabile, poco importa se per la mancanza di una cultura congeniale o per il rigetto di un sistema imposto dall’esterno con la violenza. D’altra parte molti cominciano a preoccuparsi del fatto che perfino da eventuali elezioni possano emergere come vincenti le posizioni più estremiste.

Uno sbocco ad una situazione oggi senza alternativa fra la resa al caos e la guerra eterna può essere la conferenza internazionale di cui si sta parlando in questi giorni. In questo caso il disimpegno americano dovrebbe essere compensato da quegli stati arabi che, pur esitando oggi ad intervenire, hanno detto per bocca di Mubarak e del re Abdallah di Giordania che l’Iraq da solo va verso la catastrofe.

E per quanto riguarda il sistema interno forse per il momento bisogna contentarsi di qualcosa di simile a quell’assemblea di capitribù che due anni fa diede inizio alla ricomposizione dell’Afghanistan o di quell’accordo di clan che proprio in questi giorni ha riportato la calma in Somalia dopo dieci anni di guerra civile. «In Iraq abbiamo scambiato la dittatura con l’anarchia» ha detto il candidato democratico John Kerry. Fra i due estremi c’è ancora qualcosa di mezzo anche se non sarà la copia della Camera dei Lord e della Camera dei Comuni.

«La fede ci ha aiutate»

Le due Simone sono libere