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Dalle urne un campanello d’allarme per l’Unione

di Claudio TurriniChi ha vinto queste elezioni europee che costituivano la più grande consultazione mai realizzata nel vecchio continente? Difficile a dirsi perché ad analizzare il voto nei 25 Paesi non è possibile trovare un denominatore comune, un trend che in filigrana accomuni i diversi risultati. Vince forse il Partito popolare europeo, che vede aumentare il proprio peso (276 seggi), ma sulla cui coesione si accendono troppi interrogativi, così come sulle necessarie alleanze che dovrà stringere per governare il nuovo Parlamento. Quello che invece appare chiaro è chi ha perso. Dalle urne esce un campanello d’allarme per l’Unione che appena un mese e mezzo fa aveva festeggiato l’allargamento ad Est. L’hanno suonato i 160 milioni di europei che hanno disertato le urne con punte impressionanti (fino all’83,4% di astensioni in Slovacchia) nei nuovi dieci Paesi dell’Unione (media del 25,4%). Ma l’hanno suonato anche quei 190 milioni di cittadini europei che a votare ci sono andati, per punire severamente, in almeno una ventina di casi su venticinque, i partiti al governo nei loro paesi e che, seppure a pelle di leopardo, hanno dato credito a movimenti euroscettici quando non apertamente antieuropei, che si pongono l’obiettivo di paralizzare l’europarlamento. Sintomo di un disagio profondo, che mette insieme gli effetti della crisi economica con il malumore per la guerra in Iraq e le paure della minaccia terroristica, ma che significa soprattutto sfiducia nell’Unione, nella sua burocrazia, nella sua capacità di avere una voce unica in politica estera o di incidere positivamente sul tenore di vita dei cittadini.

L’aver fatto fallire (si spera non definitivamente) il progetto di Costituzione europea è una grave responsabilità che pesa sui governanti europei e in primis, sul nostro presidente del Consiglio che ha gestito male un semestre delicato e decisivo. Pesano anche le modalità di ingresso dei dieci nuovi Paesi dell’Unione, costretti a grossi sacrifici economici per mettere i conti in regola, ma tenuti ancora alla porta come dei paria per quanto riguarda molti dei benefici (come la libera circolazione dei lavoratori).

Di tutto questo si è sentito parlare ben poco nel profluvio di dibattiti nostrani prematuramente dilagati – come al solito – in assenza di dati veri. E forse era inevitabile perché tutte le forze politiche – e non solo in Italia – avevano impostato la campagna elettorale guardando solo al loro paese. Uno strabismo che penalizza l’Unione, ma che non aiuta neanche a leggere correttamente i dati, perché di fronte a questo tipo di consultazioni l’elettore si sente più «libero» nelle scelte. Per l’Italia, poi, c’è la diversità di sistema elettorale – il proporzionale puro – che rende poco attendibili i confronti con le politiche.

Eppure, anche per l’improvvida scelta di Berlusconi di candidarsi in tutte le circoscrizioni e di invitare ad una sorta di referendum su di sè, qualche indicazioni emerge anche per casa nostra. Il premier esce ridimensionato da questo voto, ma la sua coalizione tiene. Il paese si mostra spaccato in due aree del tutto equivalenti. E i due poli vedono nel rimescolamento di forze interno alle coalizioni motivi di apprensione per il futuro. A destra si apre una difficile verifica dopo un anno di quasi «paralisi» nell’azione di governo. A sinistra la lista unita va benino ma non abbastanza da imporsi ad alleati riottosi e che anzi si trovano rafforzati nel loro potere di interdizione. Tutto il contrario di quella stabilità di cui il paese avrebbe bisogno e che ci potrebbe permettere di pensare un po’ anche al futuro dell’Europa.

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