Due brevi parole sull’argomento intercettazioni telefoniche. Ci sono prese di posizione che esprimono indignazione da parte di uomini politici alla pratica delle intercettazioni definita da qualcuno «barbara». C’è chi invoca la difesa della dignità dei cittadini. Tutto può essere. Ma non sarebbe l’ora di porre l’attenzione anche al contenuto di queste intercettazioni? Alla loro sostanza che lascia trasparire una situazione di grave degrado morale in vari strati della vita politica, amministrativa e affaristica? Se non ci fossero state le intercettazioni, forse, oggi, il dottor Fazio sarebbe ancora Governatore della Banca d’Italia, Fiorani sarebbe ancora ai vertici della BPI, Ricucci avrebbe completato le sue scalate, Moggi & co. detterebbero ancora legge sul calcio italiano.Si dice poi che certi fatti non sono penalmente rilevanti, ma sono pur sempre fatti disgustosi che «segnalano come ha giustamente rilevato l’on. Bindi il degrado di una classe dirigente che si riempie la bocca di valori più esibiti che praticati».Alberto EusepiDistinguiamo due piani: quello delle intercettazioni come strumento di indagine, e quello della loro divulgazione sulla stampa. Sul primo, pur rendendomi conto che in Italia la mole di intercettazioni raddoppia ogni anno e che siamo arrivati a 72 intercettati ogni 100 mila abitanti (e quindi qualche abuso c’è), credo che si debba andar cauti. Perché le intercettazioni forniscono uno strumento utilissimo di indagine, al quale sarebbe masochistico chiedere di rinunciare. Sul secondo aspetto del problema le cose mi sembrano più complesse. È vero che aiutano il cittadino a farsi un’idea di realtà complesse, a conoscenza fino a quel momento di un ristretto numero di persone. Però sono finite alla berlina sui giornali persone che non avevano fatto niente di illecito e che non hanno avuto modo di difendersi. Giustamente il Garante della Privacy Francesco Pizzetti ha emanato il 21 giugno scorso una «prescrizione» su questo tema, richiamando i giornalisti all’osservanza di quanto stabilito dal Codice di procedura penale (che consente, per dirla in poche parole, la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto, quando l’indagato ne sia a conoscenza) e dal Codice deontologico. Quest’ultimo, scrive Pizzetti, «garantisce al giornalista il diritto all’informazione su fatti di interesse pubblico, ma nel rispetto dell’essenzialità dell’informazione; considera quindi legittima la divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale solo quando l’informazione, anche dettagliata, sia indispensabile per l’originalità dei fatti, o per la qualificazione dei protagonisti o per la descrizione dei modi particolari in cui sono avvenuti; prescrive che si evitino riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti; esige il pieno rispetto della dignità della persona; tutela la sfera sessuale delle persone, impegnando il giornalista ad astenersi dal descrivere abitudini sessuali riferite a persone identificate o identificabili e, quando si tratta di persone che rivestono una posizione di particolare rilevanza sociale o pubblica, a rispettare comunque sia il principio dell’essenzialità dell’informazione, sia la dignità». Non si tratta quindi di mettere il bavaglio all’informazione e tantomeno alle indagini, quanto piuttosto di trovare un equilibrio tra esigenze informative e rispetto delle persone. C’è poi il difficile discorso sulle «fonti». Se un giornalista pubblica un’intercettazione ancora segreta è segno evidente che qualcuno gliel’ha passata, violando i propri doveri di pubblico ufficiale. Perché i responsabili non vengono mai perseguiti?Claudio Turrini