Piccoli semi in un deserto chiamato Afghanistan. Piccole storie d’amore che crescono in una realtà segnata da guerre, povertà e continuo rischio di attentati. Tra tanti invisibili semi ce n’è uno che si chiama «Pbk» (Pro bambini di Kabul), l’iniziativa nata nel 2002 su invito di papa Giovanni Paolo II e portata avanti da ben 14 ordini religiosi, sette maschili e sette femminili, che negli anni si sono alternati nella permanenza a Kabul, a cui ha preso parte nel 2007 anche suor Michela Dainese delle Piccole Ancelle del Sacro Cuore di Arezzo, la congregazione fondata a Città di Castello il 9 agosto 1915 da beato Carlo Liviero.Si tratta di un piccolo segno di speranza per i bambini più sfortunati della capitale afghana. «Da quattro anni spiega suor Michela è nato nel cuore di Kabul un centro per bambini con difficoltà di apprendimento che, per i loro ritardi, non vengono accettati nelle sovraffollate classi della scuola pubblica, dove un’aula può arrivare a contenere anche sessanta bambini, a turni di sole due ore di lezione al giorno e dove chi ha un minimo difetto non viene accettato. Al momento la nostra comunità è composta da quattro religiose (un’italiana suor Michela due pakistane e un’indiana) e abbiamo ben trenta allievi, a cui cerchiamo di dare una nuova possibilità di inserimento. Lo scorso anno grazie al nostro lavoro sei alunni sono stati ammessi alla scuola pubblica. Il nostro impegno consiste anche nel dialogare con gli insegnanti per far accettare chi solitamente viene escluso. Il centro sta diventando un vero e proprio laboratorio di insegnamento, in cui i maestri della scuola statale vengono ad osservare i nostri metodi di lavoro».Una missione compiuta in silenzio. «Siamo costrette a non utilizzare i nostri abiti, per il rischio di ritorsioni. I cattolici in Afghanistan non esistono. L’unica chiesa presente in tutto il Paese è quella che si trova all’interno dell’ambasciata italiana. Spesso la gente ci chiede: “Ma chi siete voi che siete venute dall’estero e dedicate la vita a questi bambini?”. Noi cerchiamo di spiegare che siamo delle religiose cattoliche, ma gli afghani non hanno la minima idea di cosa sia la vita cristiana. E allora cerchiamo di portare loro il Vangelo non con le parole ma con i fatti».A rendere ancora più difficile la permanenza dei religiosi è il forte rischio di attentati. «Non sappiamo mai dove e quando potrà scoppiare la prossima bomba o il prossimo conflitto a fuoco. Ma nonostante tutto cerchiamo di condurre una esistenza normale». C’è poi la questione femminile che, nonostante la caduta del regime talebano, rimane sempre aperta. «La situazione delle donne afghane è ancora difficile. Permane una cultura diffusa in tutto il Paese che considera la figura femminile non alla stregua dell’uomo. La donna può solo prendersi cura della casa, del marito, dei figli e solo in rari casi può studiare o quantomeno imparare a leggere e scrivere». Un pregiudizio che si ripercuote spesso anche sul lavoro delle suore. «Le iniziative che cerchiamo di promuovere, per il semplice fatto di essere portate avanti da donne, hanno più difficoltà di essere prese in considerazione».Certo, qualcosa rispetto al passato si sta smuovendo. «Quando è stato aperto il nostro centro le donne non uscivano nemmeno per strada. Oggi, invece, è divenuta una normalità vederle accompagnare i loro bambini». Piccoli segni di speranza che crescono. «È un cammino appena cominciato. Ma sono fiduciosa che i semi piantati con pazienza daranno i loro frutti». di Lorenzo Canali