Toscana

Dal Papa un percorso obbligato per i cattolici italiani

di Andrea Fagioli

I 2 mila 700 di Verona sono tornati a casa, nelle proprie diocesi, forse con un po’ di rimpianto per quei cinque giorni di Convegno ecclesiale nazionale in cui è sembrato di vivere l’essere Chiesa in modo pieno, condiviso. I 2 mila 700 si stavano abituando a quel ritrovarsi tutti i giorni, tutti insieme, nella grande aula assembleare o nei «loculi» dei sottogruppi di studio. E poi tutti a pranzo in massa, sul pullman, alla Messa…, a fare due chiacchiere sulle poche panchine del piazzale della Fiera di Verona dominato dai 400 quintali dei marmi della Barca della salvezza opera del nostro Massimo Lippi (che ha anche rincorso la papamobile pur di riuscire ad immortalare il Papa in qualche modo di fronte alla sua scultura).

Ritrovarsi a Verona è stato faticoso, ma bello. Anche per la pattuglia (più che altro un plotone) di giornalisti che ha vissuto gomito a gomito nell’attrezzatissima sala stampa l’evento decennale della Chiesa italiana. Di quei giorni, semmai, resta il rammarico di quanto successo allo stadio a proposito dell’ingresso e soprattutto dell’uscita di Prodi e Berlusconi: il secondo osannato, il primo fischiato. Non ci interessa l’appartenenza (quella con la a minuscola per dirla alla monsignor Simoni) dei due, ci interessa l’Appartenenza (quella con la A maiuscola per dirla ancora alla monsignor Simoni) dei fedeli presenti al Bentegodi per la Messa del Papa che avrebbero dovuto evitare un atteggiamento che non ha avuto niente a che vedere con quanto vissuto e ascoltato in quei giorni e ha finito per ripiantare steccati tra i cattolici per questioni partitiche, non certo politiche. Meglio soprassedere e pensare che da oggi, comunque, si guarda al dopo Verona, si guarda alla ricaduta nelle diocesi con la spinta data e la strada e indicata dal Papa. In una cornice di suoni e colori, di cori e di fazzoletti al vento, Benedetto XVI, giovedì 19 ottobre, ha fatto il suo ingresso allo stadio veronese accolto da un tifo, manco a dirlo, da stadio. Tutti in piedi i 40mila del Bentegodi. La papamobile ha percorso solo una parte dell’anello che circonda il campo di calcio. Il Papa è sceso dal lato della tribuna stampa, ha saluto alcuni malati e si è ritirato qualche minuto per indossare i paramenti sacri. È poi rientrato nello stadio, dietro alla processione di una parte dei vescovi concelebranti, attraversandolo verso il lato opposto dov’era stato innalzato l’altare e la trecentesca Croce della Chiesa di San Luca, simbolo della fedeltà della Chiesa veronese al Cristo morto e risorto, come ha sottolineato il vescovo Flavio Roberto Carraro nel saluto introduttivo. Tutta incentrata sulla testimonianza l’omelia pronunciata da Benedetto XVI. Punto di partenza gli apostoli testimoni della resurrezione. «Noi – ha detto il Papa – siamo gli eredi di quei testimoni vittoriosi! Ma proprio da questa costatazione nasce la domanda: che ne è della nostra fede? In che misura sappiamo oggi comunicarla?». Da qui l’augurio «che la Chiesa in Italia possa ripartire dal Convegno ecclesiale nazionale come sospinta dalla parola del Signore risorto che ripete a tutti e a ciascuno: siate nel mondo di oggi testimoni della mia passione e della mia resurrezione. In un mondo che cambia, il Vangelo non muta». Da qui l’invito ai «cristiani, cittadini del mondo» a «restare in Gerusalemme» che «non può che significare rimanere nella Chiesa, la città di Dio, dove attingere dai Sacramenti l’unzione dello Spirito Santo» e da qui ripartire per portare il lieto annuncio ai poveri, fasciare le piaghe dei cuori spezzati, proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, promulgare l’anno di misericordia del Signore, ricostruire le antiche rovine, rialzare gli antichi ruderi, restaurare le città desolate. «Sono tante – ha detto il Papa – le situazioni difficili che attendono un intervento risolutore! Portate nel mondo – ha concluso rivolgendosi soprattutto ai convegnisti – la speranza di Dio, che è Cristo Signore, il quale è risorto dai morti, e vive e regna nei secoli dei secoli».

Ma il grande giorno del Convegno ecclesiale nazionale, almeno per i delegati, era iniziato al mattino con il Papa che ha parlato loro, ha indicato alla Chiesa italiana un tragitto per i prossimi dieci anni e non solo: ha indicato una sorta di percorso obbligato ribadendo che «l’Italia di oggi si presenta a noi come un terreno profondamente bisognoso e al contempo molto favorevole per una tale testimonianza. Profondamente bisognoso, perché partecipa di quella cultura che predomina in Occidente e che vorrebbe porsi come universale e autosufficiente, generando un nuovo costume di vita. Ne deriva una nuova ondata di illuminismo e di laicismo».

«La Chiesa e i cattolici italiani – ha aggiunto Benedetto XVI – sono dunque chiamati a cogliere questa grande opportunità, e anzitutto ad esserne consapevoli. Il nostro atteggiamento non dovrà mai essere, pertanto, quello di un rinunciatario ripiegamento su noi stessi: occorre invece mantenere vivo e se possibile incrementare il nostro dinamismo».

Il Papa ha richiamato i cattolici innanzitutto ad un impegno sul piano culturale. Per lui, infatti, la fede (oltre che un dono di Dio) è qualcosa anche di razionale, è una forma di conoscenza (non a caso l’esplicito riferimento nel suo discorso alla matematica come «creazione della nostra intelligenza»). Benedetto XVI vuole così dare spessore culturale alla fede in un momento di vuoto assoluto dal punto di vista ideologico e culturale, appunto.

Sul piano dell’azione per così dire più politica, il Papa ha precisato che la Chiesa «non è e non intende essere un agente politico» per cui «il compito immediato di agire in ambito politico per costruire un giusto ordine nella società non è dunque della Chiesa come tale, ma dei fedeli laici, che operano come cittadini sotto propria responsabilità: si tratta di un compito della più grande importanza, al quale i cristiani laici italiani sono chiamati a dedicarsi con generosità e con coraggio, illuminati dalla fede e dal magistero della Chiesa e animati dalla carità di Cristo».

Anche perché occorre fronteggiare «il rischio di scelte politiche e legislative che contraddicono fondamentali valori e principi antropologici ed etici radicati nella natura dell’essere umano». Da qui la conferma dei «no» a «forme deboli e deviate di amore e alla contraffazioni della libertà, come anche alla riduzione della ragione soltanto a ciò che è calcolabile e manipolabile».

Il nostro «Diario» dal Convegno di Verona