Ogni pellegrinaggio comporta due momenti consequenziali: l’andata e il ritorno. Mentre per l’andata prevale l’interesse di scoprire, visitare, curiosare e rendersi conto, il ritorno è più impegnativo o se volete più sofferto. «Cosa siete andati a vedere?», chiedeva già Gesù alla folla che cercava Giovanni il Battista: un profeta, un capo popolo, un riformatore dei costumi? Niente di tutto questo.La stessa cosa ce l’hanno chiesta i nostri amici al nostro rientro dal pellegrinaggio dei sacerdoti della diocesi ad Ars, sulle orme del Santo Curato, nell’Anno Sacerdotale voluto da Benedetto XVI. Cosa siete andati a vedere? La risposta non è tanto quello che abbiamo visto ma quello che abbiamo udito, perché i santi ci parlano ancora, trasmettono tutt’oggi un messaggio di modernità che il tempo non riesce a demolire. Innanzitutto la sua persona: non siamo andati a far visita ad una reliquia, a un corpo imbalsamato oppure incorrotto ma a una persona che si è identificata come prete con il suo popolo che gli era stato affidato. Molti non sanno neppur il nome di questo Santo Curato di campagna (Giovanni Maria Vianney) ma lo identificano con la sua parrocchia chiamandolo «Santo Curato d’Ars», come dire se un giorno qualcuno dei nostri sacerdoti si identificasse come il «Santo Priore di Vitiano».Cosa hanno riportato da questo pellegrinaggio 24 sacerdoti diocesani guidati dall’arcivescovo Riccardo Fontana? Innanzitutto una forte emozione, una gioia interiore, una riscoperta, se ce ne fosse stato bisogno, della propria identità sacerdotale. Essere preti è un dono grande di Dio. Non è per noi stessi ma un servizio per il suo popolo. Pastori di un gregge che devono condurre ai «pascoli eterni». Un prete non si salva da solo: in cielo ci va sempre accompagnato da quelli a cui dovrebbe essere maestro. Gli ha dato il potere di rimettere i peccati e lui stesso peccatore può dire ad un altro uomo: vai in pace, ti sono rimessi i tuoi peccati.Il Santo Curato d’Ars passava fino a diciotto ore in confessionale. Questo modesto mobile di legno si trova oggi come «reliquia» in una piccola cappella che congiunge la sacrestia. Il sacramento della Riconciliazione ci ha fatto apprezzare quello che con troppa facilità abbiamo messo in disparte. E poi l’Adorazione eucaristica, segno di amore e di riconciliazione; non c’è amore senza perdono. Lo ripetiamo senza farci troppo caso anche nella preghiera del Padre Nostro.Abbiamo vissuto insieme al nostro arcivescovo giornate di comunione, di intensa fraternità spirituale, una grazia di Dio che abbiamo cercato di estendere anche a quelli che non sono potuti venire al pellegrinaggio. Come i pellegrini ebrei quando andavano al tempio di Gerusalemme (Salmo 121) si ricordavano di quelli che avevano lasciato nelle loro dimore e cantavano: «Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: “Su di te sia pace!” Per la casa del Signore nostro Dio, chiederò per te il bene». Ed è quello che abbiamo fatto. Abbiamo pregato il Santo Curato perché anche il nostro presbiterio fosse santo e santificante.Un’altra visita che ci ha emozionato e fatto sentire la presenza quasi fisica di Gesù è stata quella alla cappella delle apparizioni a Santa Margherita Maria Alacoque. Questa santa con il suo messaggio ha valicato i confini del piccolo chiostro per estendere in tutto il mondo la devozione al Sacro Cuore di Gesù. Una devozione che trovò ad Arezzo rapida diffusione grazie all’azione pastorale di un grande vescovo dell’Ottocentro, Agostino Albergotti (1802-1825) che nelle sue visite pastorali alle parrocchie lasciava come dono una immagine del Sacro Cuore. «Quanto all’attività pastorale, l’Albergotti si distinse per una commovente devozione al Crocifisso, al Sacro Cuore di Gesù, alla Santissima Eucaristia, alla Madonna». È il vescovo che portò a compimento la cappella della Madonna del Conforto, come ricorda monsignor Angelo Tafi nel volume I vescovi di Arezzo.Che cosa resta di questo pellegrinaggio? La nostalgia di un tempo felice, di giorni immersi in una luce di grazia, il conforto di proseguire con forza nel nostro cammino anche se, come succede spesso, dovessimo camminare in «una valle oscura» ma con la consapevolezza che accanto a noi c’è il Buon Pastore e quindi non abbiamo a temere alcun male. Un doveroso ringraziamento a chi ha organizzato questo viaggio: don Gianfranco Cacioli e don Vannuccio Fabbri.di don Virgilio Annetti