Opinioni & Commenti
«Curare» la politica per battere i populismi. E i cittadini facciano un passo avanti
Di sicuro non mancano studi e contributi che aiutano a far luce sui termini «sovranismo» e «populismo», che da tempo segnano il vocabolario politico in Italia e in Europa. Queste due tendenze cultural-politiche (che secondo varie voci si sovrappongono e si completano a vicenda) trarrebbero linfa dai timori alimentati negli ultimi 20/25 anni con l’imporsi della globalizzazione, cui si sommano le ricadute della pesante recessione economica giunta in Europa nel 2008, dei flussi migratori, del terrorismo. La capillare diffusione – e l’uso spregiudicato – dei social completerebbe il quadro, moltiplicando all’infinito paure reali o irrazionali, approssimazioni politiche, vere e proprie fake news, vuote parole d’ordine, discorsi d’odio («hate speech»), egoismi sociali, chiusure localistiche o nazionali.
Sovranismi (o più esplicitamente «nazionalismi») e populismi di varia marca e bandiera hanno così messo le radici nelle dinamiche politiche europee, sbarcando in tutti i Paesi del continente, pur con «pesi» elettorali differenti.
Nel Regno Unito si fanno i conti col Brexit – e le sue già ora evidenti conseguenze -, generalmente indicato come un emblematico successo populista: dal referendum del 2016 il Paese è in affanno, la politica sprofonda di giorno in giorno ai livelli più bassi della storia del Paese che ha inventato la democrazia parlamentare. La società britannica è lacerata, la politica paralizzata, la nazione divisa (e si allargano le distanze tra inglesi, scozzesi, gallesi, irlandesi). Le famiglie si spaccano al loro interno: le dimissioni da ministro di Jo Johnson, fratello del premier Boris, la dice lunga in questo senso…
L’Italia, fino a pochi giorni fa indicata, a torto o a ragione, nelle sedi europee come il top del populismo assurto a guida di un grande Paese (lo Stivale veniva accostato all’Ungheria di Orban), non può certo esimersi dal riflettere su quanto sia cambiata – pochi sostengono in meglio – la politica tricolore dagli anni Novanta ad oggi. Ugualmente Francia e Germania (basti rileggere gli esiti del recente voto in Sassonia e Brandeburgo) misurano i pur parziali successi di partiti indicati come nazionalisti o populisti, con i rispettivi «casi» di Rassemblement national e Alternative für Deutschland.
Le imminenti elezioni in Polonia del 13 ottobre, e il probabile ritorno alle urne della Spagna (si voterà in autunno se il socialista Sanchez non riuscisse a dar vita a un nuovo esecutivo entro il 23 settembre) costituiranno nuove prove per partiti considerati populisti: Diritto e giustizia (Pis) attualmente al governo a Varsavia, e Vox, destra estrema nella penisola iberica.
Se i fenomeni targati come populisti e/o sovranisti – diffusisi in tutti i Paesi occidentali, fra cui Stati Uniti e Russia – saranno passeggeri o meno, lo diranno sul piano istituzionale le urne, e il successivo giudizio della storia. Di certo occorre riconoscere sin da ora che stanno segnando nel profondo le cosiddette democrazie liberali, sollecitando necessarie revisioni e innovazioni laddove i «palazzi» della politica erano divenuti «fortezze» chiuse e sorde alle attese dei cittadini, incapaci di produrre quei risultati che la gente comune si attende dalla stessa politica.
Possibili risposte e auspicabili inversioni di tendenza – imposte dagli stessi populismi – potrebbero derivare da una seria riforma della politica che, fra l’altro, richiede: anzitutto il rispetto della democrazia sostanziale e delle sue regole costituzionali; in secondo luogo la necessità di ridare centralità ai processi istituzionali (il voto mediante la piattaforma Rousseau ne è una lampante negazione); terzo, il rilancio della forma partito – trait d’union tra cittadini e istituzioni – così come configurata dall’articolo 49 della Costituzione italiana; quarto punto, un «palazzo» che si ponga in ascolto dei cittadini e dei corpi sociali, per guidare il Paese secondo le più profonde esigenze espresse dal «popolo sovrano»; quinto, la capacità di definire un programma di riforme e di azioni per aiutare ciascun Paese a rinnovarsi stando al passo coi tempi che cambiano; sesto, la paziente costruzione di una classe dirigente all’altezza delle sfide imposte a ogni nazione. Settimo ingrediente, un uso prudente dei media e, soprattutto, dei social da parte degli stessi esponenti politici (siano essi sindaci, consiglieri comunali o regionali, parlamentari, ministri…).
Ottavo: la definizione di una politica estera volta alla costruzione di una comunità internazionale pacificata, aperta a reciproche collaborazioni, pronta a sostenere i Paesi più poveri perché possano anch’essi sperimentare pace e sviluppo e offrire una vita dignitosa ai propri popoli (tutto ciò anche in chiave di prevenzione delle migrazioni forzate).
Non dovrebbe nemmeno mancare – come fattore prioritario e centrale – un rinnovato protagonismo politico degli stessi cittadini, basato sull’informazione e sulla formazione di una vera coscienza democratica volta alla costruzione del bene comune, che è ben più della somma di interessi personali o particolari che attraversano ciascun Paese. Italia compresa.