Toscana

Cristiani perseguitati dall’Iraq alla Terrasanta

di Romanello Cantini

Il rapimento e l’assassinio di monsignor Paulos Faray Rahho, arcivescovo caldeo di Mossul ha riportato in prima pagina le gravi condizioni in cui oggi si trovano queste antichissime isole di cristianità che in parte sono, in questo caso, le uniche che ancora parlano l’aramaico, la lingua di Gesù. In Iraq i cristiani erano un milione e mezzo nel 1950. Oggi forse sono 500 mila. Ancora meno, secondo alcune fonti della Caritas. L’emigrazione dei cristiani era già cominciata al tempo di Saddam Hussein che pure aveva un ministro degli esteri cristiano in Tareq Aziz. Come in tutto il mondo arabo finché è prevalso il nazionalismo, all’interno di questo movimento potevano convivere musulmani e cristiani. Quando ha cominciato a prevalere il fondamentalismo i cristiani sono stati spesso visti come estranei o come nemici anche se erano leali dal punto di vista patriottico. Saddam Hussein era visto, nonostante le sue atrocità, come il male minore se non addirittura come un protettore dai cristiani. «Abbiamo la fortuna di vivere in uno stato laico, non confessionale» diceva otto anni fa il patriarca della Chiesa caldea in Iraq, Raphael Bidadid. Per la verità nemmeno Saddam era così neutrale. Aveva fatto chiudere le scuole private cristiane e aveva imposto che i nomi cristiani fossero arabizzati. Non più Giuseppe ma Yusef, non più Maria ma Miriam. Anche lui sentiva soffiare il vento dell’estremismo e della intolleranza.

Nel mondo islamico, soprattutto se fondamentalista, non c’è distinzione fra potere politico e potere religioso. Questa identità viene applicata anche all’America e all’Europa. Perciò è quasi inutile ricordare che il Papa si è quasi sempre opposto a qualsiasi guerra contro l’Iraq e che le campagne militari dell’Occidente hanno semmai il sostegno di un mondo secolarizzato. Il vescovo caldeo Abuna Jshleman spiegava all’indomani della guerra del Golfo: «Il popolo non fa distinzione fra l’Occidente e la Cristianità. Non sa che i governi e le società occidentali sono laiche. Perciò le sofferenze patite a causa delle sanzioni vengono considerate semplicemente come una malvagità dei cristiani contro l’Islam».

In questa confusione una prima emigrazione di cristiani cominciò con la guerra per la liberazione del Kuwait e con le successive sanzioni. Nell’agosto del 2002 una suora di 70 anni, Cecilia Hammabi, fu sgozzata nel suo letto a Bagdad . La seconda domenica dello stesso anno le ragazze cristiane che uscivano da una chiesa di Mossul senza la gonna lunga furono assalite con pietre e coltelli. Nel dicembre 2004 fu preso d’assalto l’arcivescovado di Mossul. Il 17 gennaio 2005 fu rapito il vescovo sirocattolico di Mossul, Basile Georges Casmoussa, tenuto segregato per tre giorni e poi liberato all’improvviso dopo che gli era stata comunicata la sua esecuzione.

L’insicurezza dei cristiani in Iraq, oltre che dalla emarginazione, dagli atti di intimidazione e di ostilità, deriva anche dal profilarsi di un regime dominato dai musulmani sciiti giudicati a torto o a ragione più intolleranti del vecchio regime sunnita.

Peggio egli Ottomani Ma ormai l’estinzione dei cristiani e la fine della biodiversità religiosa si profila come una minaccia per tutto il Vicino Oriente. Contrariamente a quello che si può immaginare i cristiani furono molto più numerosi e protetti sotto il regno degli antichi sultani ottomani che non nel mondo arabo di oggi. Ormai dopo la diaspora ebraica si può di fatto parlare di una diaspora dei cristiani dalla loro culla.

La Chiesa di Gerusalemme e quella di Antiochia precedettero la Chiesa di Roma e il Medio Oriente fu cristiano quando l’Europa era ancora pagana. Ma oggi è in atto un esodo ininterrotto dei cristiani da quei luoghi che videro predicare Gesù e camminare gli apostoli.

Gerusalemme conta oggi solo 10 mila cristiani dei 50 mila che aveva nel 1948. Betlemme era quasi interamente cristiana alla metà del secolo scorso mentre oggi la popolazione cristiana è meno di un sesto. La prima ondata dei profughi palestinesi della guerra del 1948 sconvolse la demografia della Palestina cristiana. Poi è venuta la seconda Intifada che ha ridotto i pellegrini a Betlemme da 90 mila a 20 mila. I cristiani sono visti con sospetto dagli israeliani perché arabi e dai palestinesi musulmani perché cristiani come il mondo occidentale considerato ostile. Poi c’è l’epurazione silenziosa condotta dai più estremisti fatto di spinte perché i cristiani vendano le loro terre e le loro piccole imprese e di minacce e di violenze contro le donne perché non vestano all’occidentale. Oggi i cristiani palestinesi non sono forse molti di più di 60 mila in Cisgiordania. Solo l’aiuto esterno e la ripresa massiccia e organizzata dei pellegrinaggi può cercare di arrestare una emorragia che finora sembra senza fine.

Dei cinque grandi patriarcati cosiddetti apostolici (Gerusalemme, Antiochia, Alessandria, Costantinopoli, Roma) perché creazione diretta dei seguaci di Gesù pochi anni dopo la sua morte, solo Roma oggi conta i suoi fedeli a milioni. Gli altri orami li calcolano a migliaia anche mettendo nel conto le Chiese greche ed ortodosse. Il patriarcato di Gerusalemme ha qualche migliaio di fedeli, quello di Antiochia ha più fedeli nella diaspora in America che in tutta la sua antica giurisdizione in Siria, in Libano e in Iraq. Alessandria ha ormai appena quattordici diocesi. Costantinopoli che contava ancora 400 mila cristiani alla fine della prima guerra mondiale li vede oggi ridotti ad appena 3 mila e anche il suo patriarcato ha più fedeli fra gli emigrati in America, in Oceania e in Europa che in Turchia.

La fuga dei cristiani non è solo l’effetto delle guerre e delle loro conseguenze come il muro e i posti di blocco che fanno a pezzi il territorio palestinese. Anche laddove regna l’ordine e la sicurezza nazionale la rarefazione dei cristiani non viene meno.

I grandi concili dei primi cinque secoli della storia della Chiesa (Antiochia, Nicea, Costantinopoli, Efeso) sono stati celebrati quasi tutti in quella che oggi è la Turchia a dimostrazione della prevalenza dell’Oriente sull’Occidente nel primo cristianesimo. Oggi in Turchia è appena possibile rintracciare un cristiano su mille abitanti e uno stato che si dice laico impedisce ancora alle chiese di avere personalità giuridica, di poter possedere ed educare. Perfino in un paese che fa parte della Nato monta orami il fanatismo. Il 5 febbraio di due anni fa è stato assassinato a Trabzen don Andrea Santoro. Il 18 aprile dell’anno scorso sono stati sgozzati a Malatya impiegati di una casa editrice di Bibbie.

Dall’Egitto all’Algeria. Né il clima si rasserena se ci allontaniamo dai focolai dei conflitti in aree più periferiche. In Egitto alla elezioni di tre anni fa è stato concesso ai sei milioni di coopti di avere un solo rappresentante in parlamento contro gli ottantotto rappresentanti dei Fratelli Musulmani. In Algeria, dove sono caduti come martiri i monaci di Tiberine e monsignor Claverie, i cristiani sono diminuiti di due terzi dopo l’indipendenza. La difesa dei cristiani del Vicino Oriente e dell’Africa settentrionale non ha nulla a che vedere con un proselitismo che è orami fuori di ogni azione e intenzione dei pochi sopravvissuti che anzi si prodigano solo in opere di promozione umana per tutti. E tuttavia la libertà e il rispetto dei cristiani attiene oltre che ad un diritto umano all’avanguardia di quelle società multiculturali che, qualora riescano a convivere, sono l’unica scuola e l’unica assicurazione per la pace. Come tale la sorte dei cristiani, come quella di qualsiasi altro credente, dovrebbe premere ai laici come ai cattolici.

L’intervista:Nel 2007 ventuno martiri e tanti militi ignoti della fede

L’uccisione in Iraq del vescovo Paulos Faraj Rahho e dei tre che lo accompagnavano è solo l’ultima in ordine di tempo di una lunga scia di sangue versato ancora oggi per testimoniare il Vangelo. Secondo i dati dell’Agenzia Fides (www.fides.org), nel 2007 sono stati 21 (tra sacerdoti, religiosi e laici), i missionari uccisi, tra i quali anche l’italiano padre Mario Bianco, morto il 15 febbraio 2007 a Manizales (Colombia) in seguito alle conseguenze di un’aggressione subita il 4 febbraio. A questo elenco provvisorio, avverte comunque l’Agenzia Fides, deve poi essere aggiunta la lunga lista dei tanti «militi ignoti della fede» di cui forse non si avrà mai notizia, che in ogni angolo del pianeta soffrono e pagano anche con la vita la loro fede in Cristo. «Sono martiri – afferma Rocco Negri, segretario nazionale del Movimento giovanile missionario (PP.OO.MM.) – che hanno versato il sangue per noi e per tutti, trasformando la sofferenza in amore e la morte in vita». Ed è proprio a questi martiri per la fede che è dedicata la Giornata di preghiera e di digiuno in memoria dei missionari martiri del 24 marzo,(quest’anno lunedì dopo Pasqua. Promossa dal Movimento giovanile missionario delle Pontificie Opere Missionarie, e giunta alla XVI edizione, l’iniziativa si è estesa ormai nelle diocesi di diversi Paesi che, ogni anno, nella data dell’assassinio di mons. Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador (1980), ricordano tutti i missionari morti nel mondo al servizio del Vangelo. Ne parliamo con Rocco Negri.

Perché avete scelto come tema «… per voi e per tutti»?

«Il tema della XVI Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri ci invita a riflettere sul mistero che queste parole, che accompagnano quotidianamente la consegna del calice durate la Celebrazione eucaristica, portano in sé e sul nesso che sussiste tra queste parole di Gesù e il martirio di tanti suoi discepoli, inviati nel mondo a portare il suo Vangelo. Il “per voi” non dice solo l’atteggiamento passivo di coloro che accettano, ma esprime la partecipazione al dono del sangue di Cristo».

Quali spunti di riflessione offre la testimonianza dei missionari martiri?

«È ancora il tema della Giornata a guidarci nella riflessione. La testimonianza dei missionari martiri è “per noi”, perché non possiamo non ripensare alla nostra vita, al nostro essere cristiani, alla coerenza delle nostre scelte. I missionari martiri ci stimolano a vivere il Vangelo seriamente e integralmente negli ambienti in cui viviamo e operiamo, come testimoni di unità e di amore. Ed è “per tutti”, perché i missionari davvero offrono la vita per la salvezza dell’umanità e il loro martirio sollecita sicuramente anche gli atei e i non cristiani a chiedersi se dietro la figura di una donna o un uomo che, partiti dalla propria patria per servire la missione e uccisi per portarla avanti fedelmente, non ci sia Dio che è presente nella storia dell’umanità».

Nel 2007 sono stati 21 i missionari martiri. Ancora oggi si viene uccisi nel mondo per la propria fede…

«Purtroppo, è vero… Ma, di fronte alle tante sfide del mondo, il cristiano non può vivere abbassando la testa, bisogna essere dei rompiscatole, come diceva don Pino Puglisi. Il cristiano proprio perché deve essere immagine vivente di Cristo non può escludere la persecuzione nella sua vita di fede».

L’Iraq è il Paese dove, nel 2007, si è registrato il maggior numero di vittime: 4 (padre Raghiid Ganni e i tre diaconi Basman Yousef Daoud, Ghasan Bidawid e Wahid Hanna). Tutti uccisi a Mosul, dove pochi giorni fa è stato prima rapito e poi ucciso mons. Paulos Faraj Rahho.

«Diceva Tertulliano: “Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani”. Dalla testimonianza dei giovani cristiani iracheni, con i quali abbiamo contatti, siamo convinti che queste parole sono una certezza nella loro vita di fede. La loro voce si unisce a quella dei cristiani uccisi e al loro annuncio: la morte non è l’ultima parola».

Proprio all’Iraq è dedicato, quest’anno, il progetto di solidarietà che viene promosso durante la Giornata. Di cosa si tratta?

«È il finanziamento di un progetto già avviato a Baghdad dalla Chiesa caldea. Si tratta di un centro pastorale per giovani e adolescenti. Il progetto nello specifico contribuirà ad ultimare i lavori del centro e ad allestirlo con computer, arredamento, libri e tutto ciò che serve per la pastorale. Sul sito www.mgm.operemissionarie.it, è possibile trovare tutte le informazioni utili su come partecipare al progetto».

Il sangue dei missionari può essere speranza di pace per il mondo?

«Il martirio dei missionari è un dono, è un’espressione concreta del progetto d’amore che Dio ha per l’umanità. Per questo, anche se inspiegabile agli occhi del mondo, è certamente seme che farà rifiorire la pace».

Vincenzo Corrado