Cultura & Società

Credere fa bene alla felicità

di Gigliola Alfaro

Esiste un’«Italian way to happiness»? Siamo un popolo felice o siamo tremendamente depressi? Alla domanda risponde Enrico Finzi, ricercatore sociale di origine ebraica, presidente di Astra Ricerche, che alla questione ha dedicato il libro Come siamo felici (Sperling & Kupfer, pagine 215, euro 17), nel quale evidenzia come la nostra sia «una felicità mediterranea e cristiana».

Finzi, nel nostro Paese la felicità risulta un fatto «privato», mentre il mondo appare «minaccioso»: come possiamo leggere questo dato?

«Effettivamente basta guardare i telegiornali che si ha un’immagine catastrofica del pianeta e dei destini dell’umanità e, in parte, anche del nostro Paese. Gli italiani hanno acquisito, nel corso dei secoli, un’esperienza significativa: costruirsi un ambito privato di soddisfazione esistenziale, prescindendo dall’andazzo complessivo del mondo. Una specie di difesa millenaria che gli italiani hanno assunto nei confronti di un contesto con cui non si identificano e da cui si sentono minacciati. Inoltre, la felicità degli italiani è, in larga misura, una felicità mediterranea e cristiana. Mediterranea per l’aspetto della cordialità, dell’estroversione, contrariamente a quanto accade nel mondo anglosassone. Cristiana perché moltissimi dei valori storico-sociali del cristianesimo, prescindiamo qui dai contenuti di fede, hanno informato la società e sono tuttora i più “felicitanti”. E cioè: la famiglia, soprattutto quella “baciata” da figli e nipoti; la casa, che è il territorio della famiglia; e poi il rapporto con le persone care, conoscenti, colleghi di lavoro, compagni di scuola, amici. Ancora, c’è il rapporto con la micro-comunità e la plurimillenaria cultura della carità. Molte ricerche dimostrano che davvero fare del bene fa bene, non solo a chi riceve il dono. Insomma, la felicità deriva anche dall’altruismo, dalla generosità, nel farsi prossimo. Nella nostra società sembrerebbe che si sia formata una crosta superficiale di modernizzazione e secolarizzazione, ma nelle cose essenziali della vita – come appunto l’esser felici – tutto questo americanismo, consumismo, iperproduttivismo, carrierismo nel lavoro, ha lasciato poche tracce. Magari ha a che fare con il mondo dei piaceri, ma non con l’appagamento esistenziale, cioè con quel poco o molto di felicità terrena che si può avere».

Nell’essere felici degli italiani, dunque, ha un ruolo importante la fede?

«Non è vero, come sostiene qualcuno, che ci sia stato un divorzio netto tra Italia secolarizzata e tradizione cristiana. La cultura cristiana continua ed essere il carattere dominante del nostro popolo. Credere fa bene alla felicità. L’intensità della fede è un fattore “felicitante”, l’avere un progetto forte di vita e dei riferimenti netti – il che non significa essere intolleranti – aiuta molto a sentirsi bene. Anche quando parliamo dell’aver cura degli altri, troviamo che lo fanno quegli italiani che si dichiarano felici. Il nichilismo e il relativismo, soprattutto la superficialità, fanno molto male alla felicità terrena. Fa bene, invece, avere una fede forte, aperta, dialogante. Insomma, allegra, positiva e non cupa o sacrificale. Sono anche importanti l’interiorità, la riflessione, l’approfondimento dei problemi. Il pensare è ai primi posti delle attività che fanno felicità insieme al chiacchierare e al fare del bene agli altri. Quella di una società in cui tutti sono diventati superficiali è un’immagine falsa. In realtà, ci sono decine di milioni persone che traggono piacere dal coltivare la propria interiorità, dal pregare, dal meditare, anche dal dubitare».

I media possono avere un ruolo nella costruzione della felicità? Tante volte ci offrono modelli irraggiungibili, che creano false speranze…

«La televisione non dà la felicità, tranne che per qualche eccezione. I media sono contemporaneamente troppo superficiali e troppo aggressivi e violenti, quindi ansiogeni. Non si tratta di presentare la realtà edulcorandola. La gente ama sicuramente la drammatizzazione, che si traduce nella lotta tra bene e male. Non è possibile che mostriamo solo il male, dobbiamo fornire anche elementi positivi, storie di riscatto. I mezzi di comunicazione di massa perdono, così, consenso, ascolti e valgono meno anche dal punto di vista pubblicitario. Insomma, i media non devono dare la felicità, ma cercare di rendere la gente un po’ meno infelice, ma per far questo dovrebbe esserci un’etica delle comunicazioni di massa, che è stata oggetto di riflessioni profonde nel Concilio Vaticano II e in documenti pontifici successivi. Anche la stampa cattolica può dare un contributo positivo all’insegna di un certo rinnovamento, non fermandosi agli stereotipi superficiali. Occorre promuovere un messaggio di speranza concreta, non solo nella vita ultraterrena, ma qui e ora».

Cosa può facilitare il superamento della visione dualista tra «felicità privata» e pessimismo con cui guardiamo il mondo esterno?

«Da un lato, è un problema di formazione e educazione. Dobbiamo tornare a formare noi stessi, non solo i giovani, ad un senso della responsabilità collettiva oggi molto carente. Dall’altro lato, dobbiamo riconoscere i guai notevoli del mondo intorno a noi e dare un contributo fattivo e personale per il miglioramento della situazione. Aiutare gli altri dando dei soldi è importantissimo, ma quello che veramente conta è l’impegno personale e diretto per una cultura dell’eguaglianza dei diritti, della tutela della persona umana, di una certa dolcezza nei rapporti personali. Gli italiani lamentano fortemente una sorta di micro imbarbarimento che si vede nella maleducazione nel fare la coda, nella scortesia nell’accoglienza, nella mancanza di sorriso. Ognuno di noi si deve sentire co-protagonista di questo sforzo collettivo per un miglioramento. Noi soffriamo troppo di delega, invece abbiamo bisogno di riprenderci l’impegno personale e diretto senza avere la garanzia del successo. Su questi aspetti culture diverse possono trovare convergenze».

Qual è il rapporto tra la domanda di sicurezza che cresce anche in Italia e la ricerca della felicità?

«La domanda di sicurezza è spesso del tutto scoordinata dal problema della sicurezza, nel senso che ci sono aree ad altissima insicurezza dove non c’è allarme sociale perché la gente è abituata, invece in altre aree dove la criminalità è bassa la gente la vive come molto più grave. Insomma, c’è un problema di percezione della sicurezza. Comunque, non è vero che se ti senti più sicuro sei più felice. Si è visto che la felicità aumenta se si previene piuttosto che se si colpisce il crimine. Il vero modo per abbattere la paura è perseguire allo stesso modo tutti i criminali. Non dobbiamo negare che c’è una forte criminalità importata: quando una popolazione viene sradicata e vive in una condizione di miseria e poca cultura delinque di più. Rispetto agli immigrati, però, dobbiamo ammettere che noi abbiamo bisogno di loro e viceversa. Come possiamo farli integrare, in modo tale che superino i tassi di criminalità dei nuovi arrivati? Sviluppando la cultura dell’accoglienza non solo perché è giusto verso gli altri, ma per noi stessi. Per creare sicurezza occorre includere le persone, offrendo una vita dignitosa, una casa, un lavoro, possibilità di avere una famiglia. Più rapidamente si fa questo e più saremo sicuri, essendo felici nel frattempo. Se guardi l’altro come un nemico lo rendi tale, se lo consideri un figlio di Dio, un appartenente alla comune umanità, proprio perché gli sorridi, puoi avere dei gesti bellissimi, come quello del barbone che ha salvato una ragazza da uno stupro, vicino alla stazione di Milano».