di Damiano FedeliDal suo accento non traspare nessuna inflessione. Parla un italiano perfetto, se non per qualche toscanismo, qua e là. Il suo vocabolario è ricco e variato, sempre gentile il modo di parlare. Eppure c’è chi appena la vede per strada e, confida lei, sono i momenti più amari le bofonchia in faccia ad alta voce, sgrammaticato: «Ma perché questi cinesi ‘un tornano a casa sua?’». Luna Chen ha trent’anni, è nata a Shanghai, ma a nove anni era già in Italia. Rappresenta bene la «seconda generazione», quella dei figli di immigrati venuti qua, una generazione giovane ma dall’importanza chiave nel processo di integrazione. Ha studiato, Luna. Giurisprudenza a Firenze. E da circa un anno sta facendo la pratica nello studio pratese dell’avvocato Leonardo Pugi, che racconta: «Lei è interessata al civile, ma per superare l’esame da avvocato occorre sapere sia di penale sia di civile. Un anno di praticantato, dopo di che può avere il patrocinio, ovvero la possibilità di andare alle udienze da sola, per gestire cause di importanza minore». Questo, almeno in teoria. Già, perché al momento l’iter di Luna appare in sospeso. E proprio per un problema burocratico di non poco conto: lei ha la cittadinanza cinese e per avere il patrocinio (e a maggior ragione per sostenere il successivo esame per diventar avvocato) occorre essere cittadini italiani. Che cosa ne sarà di lei, allora? Rimarrà per sempre nel limbo dei praticanti?Luna non si rassegna. Non polemizza con nessuno, ma è comunque determinata a trovare una soluzione. «Prendere la cittadinanza? Ci vogliono molti requisiti, il reddito sufficiente, innanzitutto, negli ultimi tre anni, quello che un giovane uscito dall’università non può avere…», racconta Luna, che adesso ha un permesso di soggiorno a tempo indeterminato (la vecchia «carta di soggiorno»), «Sì, adesso non devo fare più le file davanti alla questura», sorride e comincia a raccontare la sua storia.«Ho trent’anni, sono nata a Shanghai. I miei genitori sono venuti qua quando ero una bambina. Mio padre era professore di italiano all’università di Shanghai ed è venuto in Italia per motivi di studio agli inizi degli anni Ottanta, principalmente a Firenze e a Perugia. Poi ha deciso con mia madre di rimanere qua. I primi anni li ho trascorsi fra Shanghai e Pechino. Quando sono venuta in Italia, avevo nove anni: sono stata prima a Firenze, poi a Prato».All’inizio dev’essere stata dura per tutti. Per suo padre, professore, costretto ad accettare lavori di cameriere o di commesso: «Anche se in Cina lavorava ad alto livello, la paga era davvero bassa, qualcosa come tre euro al mese. Arrivare al milione di lire, qui, anche con un lavoro umile, era un bel risultato». Ma anche per lei, ovviamente: «All’inizio volevo tornare in Cina, i problemi di lingua erano enormi. In Cina facevo la quarta elementare, qui ho dovuto ricominciare daccapo. Ero grande, insieme a bambini più piccoli nella scuola elementare, a Firenze, in viale Lavagnini. A quei tempi non c’erano tanti di stranieri, erano tutti un po’ spaesati dal vedermi. Ero sotto l’attenzione degli altri bambini e mi sentivo un po’ osservata».«Quando ci siamo trasferiti a Prato prosegue nella zona di Fontanelle, erano pochi i cinesi in città. A Prato ho fatto ragioneria al Dagomari e poi la laurea in Legge a Firenze. Adesso abito a Scandicci, col fidanzato italiano». Ma un’immigrata di seconda generazione, come si sente, italiana o cinese? «Avendo avuto la formazione qui mi sento, certo, più legata all’Italia. Mi sentirei, almeno Il mio problema è l’aspetto: subito mi bollano “Questa qua l’è cinese”. Un francese, un tedesco, un americano, si sentirebbero italiani con meno difficoltà. Io questo non lo posso dire, non perché non lo voglia io, ma per il mio aspetto di asiatica, con la gente che mi fa sentire strana. Ma io, lo ripeto, io mi sento italiana».«In Cina continua Luna non sarei né carne né pesce. Mi rendo conto che c’è una certa distanza nel modo di pensare, anche rispetto ai miei genitori: loro sono più legati alla Cina e la loro mentalità è differente. Il rapporto genitori-figli è molto complesso; faccio un esempio: per Natale ho ricevuto regali dai miei “suoceri”. In Cina sono i figli, invece, a dare i regali ai genitori nelle occasioni importanti…». Per la sua formazione, Luna dà grande importanza al fatto di aver studiato qua, insieme ai coetanei italiani. «A scuola vivi la cultura di un Paese in modo molto più diretto, anche di più che in un luogo di lavoro. Avendo fatto tutte le scuole in Italia, mi sono potuta inserire maggiormente».Adesso «il futuro lo vedo qui in Italia, la mia vita è qui. Anche se degli italiani mi fa arrabbiare la tensione che si crea con i cinesi che vivono qui. Prato è la città dove ho sempre vissuto: mi dispiace quando certi miei connazionali si sentono respinti».Luna si ritrova ogni venerdì a giocare a pallavolo a Bagno a Ripoli con ragazzi provenienti da tutto il mondo. Collabora con Associna, l’associazione dei giovani cinesi nati qua: «Un’idea per far conoscere dei cinesi una realtà diversa da quella che si immagina. Organizziamo attività culturali e scambi fra le due culture. Vogliamo far vedere che i cinesi non sono soltanto ‘distretto parallelo’. Ci sono tanti ragazzi che parlano correttamente l’italiano». Luna, da esperta di diritto, sa bene dei problemi che l’illegalità di alcuni suoi connazionali porta e non ha dubbi che il fenomeno vada contrastato. La sua idea complessiva sull’economia locale la sintetizza così: «Prato è sempre stata forte per il tessile, non nel prodotto finito. Agli inizi degli anni Novanta erano pochissime le ditte che facevano prodotto finito. È stato allora che i cinesi arrivati qua hanno dato un impulso a un settore che prima non c’era, quello del pronto moda. Se il distretto è in crisi, la colpa non è dei cinesi, di quelli di qua, almeno, ma è il prodotto tessile a essere in difficoltà».Il tempo per l’intervista è finito. È il momento per Luna di tornare tra i faldoni. «Ho delle udienze da preparare», dice congedandosi.