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CORTE UE: RICONOSCERE DIRITTO D’ASILO AI PERSEGUITATI PER MOTIVI RELIGIOSI

(Sir Europa – Bruxelles) – Occorre riconoscere lo status di rifugiato in Europa alle persone straniere che nel loro Paese di fatto non possono pienamente esercitare la propria religione, in privato o in pubblico. Lo attesta una sentenza della Corte di giustizia Ue a proposito di due pachistani della comunità musulmana Ahmadiyya, movimento riformatore dell’Islam. «In Pakistan – chiarisce la Corte di Lussemburgo – il codice penale dispone che i membri della comunità Ahmadiyya sono passibili di una pena fino a tre anni di reclusione se affermano di essere musulmani, se qualificano come Islam la propria fede, se pregano o propagano la propria religione». La Corte ricorda dunque: «Secondo la direttiva sullo status dei rifugiati, gli Stati dell’Ue devono riconoscere in linea di principio» lo status di rifugiato, concedendo l’asilo, «al cittadino di un paese non membro dell’Ue che tema di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale nel proprio Paese». «Un atto può essere considerato persecuzione se è sufficientemente grave» da rappresentare una violazione «dei diritti umani fondamentali». Il caso è giunto all’esame della Corte europea perché le autorità tedesche hanno respinto le domande di asilo dei due richiedenti pachistani, «considerando che le restrizioni della pratica della religione in pubblico imposte agli ahmadi non configuravano una persecuzione ai fini dell’asilo».

La Corte amministrativa federale di Germania ha dunque chiesto alla Corte di giustizia Ue di «precisare quali restrizioni alla pratica di una religione costituiscano una persecuzione che può comportare il riconoscimento dello status di rifugiato». Nella sentenza emessa oggi, la Corte dichiara, innanzitutto, che «solo talune forme di grave violazione del diritto alla libertà di religione, e non qualsiasi violazione di tale diritto, possono costituire un atto di persecuzione che obblighi le autorità competenti a concedere lo status di rifugiato». La Corte rileva però che «gli atti idonei a costituire una violazione grave comprendono atti gravi che colpiscono la libertà dell’interessato non solo di praticare il proprio credo privatamente, ma anche di viverlo pubblicamente. Pertanto, non è il carattere, pubblico o privato, oppure collettivo o individuale, della manifestazione e della pratica religiosa, bensì la gravità delle misure e delle sanzioni adottate o che potrebbero essere adottate nei confronti dell’interessato che determinerà se una violazione del diritto alla libertà di religione debba essere considerata una persecuzione». La Corte dichiara che una violazione del diritto di religione «può costituire una persecuzione qualora il richiedente asilo, a causa dell’esercizio di tale libertà nel suo Paese d’origine, corra un rischio effettivo» di «essere perseguitato o di essere sottoposto a trattamenti o a pene disumani o degradanti». (Sir)