Vita Chiesa

Corpus Domini ad Arezzo, l’arcivescovo Fontana: “Creare la cultura della collaborazione”

1. Papa Urbano IV a Orvieto nel 1264 per il miracolo di Bolsena

            Il nostro Salvatore Gesù Cristo, nell’ultima cena, istituì il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue e perché rimanesse viva la memoria del suo amore che salva e della sua presenza in mezzo a noi, disse agli Apostoli: “Fate questo in memoria di me”.

            Il memoriale che stiamo celebrando rinnova la nostra gratitudine, ci allontana dal male, ci consolida nel bene, ci fa progredire nell’acquisto della virtù e della grazia. Siamo confortati dalla presenza corporea di nostro Signore, presente tra noi, in modo diverso, ma nella sua vera realtà, come ci aveva promesso il giorno prima dell’ascensione al Cielo: “Ecco io sono sempre con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.

            Siamo pieni di gioia al pensiero che è possibile essere liberati dal male; la vicinanza di Gesù alla sua Chiesa nobilita e sublima la dignità degli uomini, attraverso il ministero sacerdotale che ci è affidato. Il Salvatore si è dato come cibo: volle che, nello stesso modo in cui l’uomo era stato travolto dal cibo nel giardino di Eden, fosse recuperato tramite il “pane di vita”. La medicina arrivò dove la malattia aveva fatto danni: “chiunque mangia questo pane vivrà in eterno”. Questo cibo viene preso, ma non viene consumato; viene mangiato, ma non viene modificato, rende colui che lo riceve sempre più simile a Gesù.

            Il Giovedì Santo, nello stesso giorno in cui Cristo ha istituito questo Sacramento, la Chiesa universale è impegnata nella riconciliazione, perché in ciascuno prevalga la carità: verso Dio con un atto d’amore, verso i fratelli per rimediare le divisioni, verso il mondo intero per annunziare il Vangelo.           I fedeli, entrando in se stessi in questa Festa del Corpus Domini, con umiltà di spirito e purezza di coscienza, perfezionano ciò che avessero compiuto in modo imperfetto, partecipando insieme a questa Messa, che idealmente raccogliere tutta la nostra Chiesa diocesana. Così rafforziamo la grandezza della fede, perché esulti la carità con un rinnovato impegno di attenzione verso gli altri, soprattutto quelli più bisognosi. Questa è la ragione per cui usciamo dalle nostre chiese per prenderci cura degli altri, anche quelli poco avvezzi al progetto di Dio: attraverso la carità dei cristiani, abbiano modo, nel pane eucaristico che mostriamo a tutti, di comprendere quale sia la fonte dell’impegno che poniamo a combattere l’egoismo insito nella natura umana. Occorre rivolgerci con le opere ai bisogni degli altri, ridistribuendo del nostro a favore di chi ha meno, come ha fatto Gesù, che ha dato se stesso per tutti noi. Siamo molto lieti che i medici e tutto il personale sanitario, in questo lembo di terra “intra Tevero et Arno”, hanno dato buona prova di sé con generosità e impegno, che manifestano quanto il Vangelo sia reperito anche da quelli che, meno esplicitamente, si pongono in mezzo a noi. Questa è la ragione per cui, ancora nel bisogno, abbiamo aperto le nostre strutture ad Agazzi e siamo disponibili ad aiutare l’Ente Pubblico nel tempo necessario perché il nuovo Hospice presso l’Ospedale di San Donato possa essere approntato.

 

2. La riflessione sulla carità nell’insegnamento dei Padri

            Dall’epoca degli Apostoli in poi, ai cristiani fu sempre chiaro che il modello esemplare della carità è Gesù che dà la sua vita per noi. I Padri insegnano che esiste una profonda connessione tra la carità e il sacrificio. La carità costa a chi la compie. Ben altra cosa è il perbenismo di dar via quello che non ti serve.

            Bisogna stare attenti a non confondere la carità cristiana con le forme della buona educazione e l’atteggiamento, purtroppo abbastanza clericale, di evitare di compromettersi, di lasciar correre, di non praticare la correzione fraterna, che è il compito della Chiesa di fronte al mondo, ma anche al proprio interno, come atto di altissima carità.

            “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Sant’Agostino commenta che con questa norma evangelica si aiutano gli altri, “perché ripongano in Dio la loro speranza”.

            Ci è chiesto di convertirci al bene comune. La carità non è una vicenda piccola o grande nella sua fattualità, ma farsi carico della responsabilità che ti è affidata. Ancora sant’Agostino insegna: “Tu dunque amerai il sommo Bene e ad esso volgerai l’affetto del tuo cuore. In tal caso posso affidarti il prossimo. Vedo infatti dove tendi e dove vuoi risiedere. Conducilo da lui! E in effetti non potrai condurre da altri colui che ami come te stesso… Conduci là il tuo prossimo, attrailo, rapiscilo insistendo in ogni maniera accettabile (Cfr. 2 Tm 4, 2.)”.

            Sarebbe come nel linguaggio del nostro tempo la vicenda che ha ricordato Papa Francesco, a proposito dell’atteggiamento tenuto dall’allenatore della squadra sconfitta nell’ultima finale di Champions League

            La via della carità praticata è il contributo che i cristiani possono dare come reazione alla pandemia. Ci sono state tante sofferenze, ora però è tempo di ricostruire. Quel che conta è andare avanti. Dalla presenza reale del Signore nel Santissimo Sacramento, dobbiamo ritrovare la forza e dare il nostro apporto, perché si costruisca una civiltà nuova. Non basta rimettere in piedi quanto esisteva prima. Occorre trovare il modo di fare entrare anche nel sistema economico un atteggiamento diverso da quelle filosofie di origine britannica, che dal Settecento dominano l’organizzazione produttiva dell’Occidente.

            Nella grande crisi dopo la Seconda Guerra Mondiale, dalla nostra Diocesi, nelle Settimane di Camaldoli fu inventato quel nuovo che portò il Paese dall’essere fruitrice del piano Marshall, come le nazioni in via di sviluppo, fino a diventare la settimana potenza economica del mondo. Questo i cristiani intendono per carità praticata. Così ci hanno insegnato i Papi dal Concilio Ecumenico Vaticano II fino a oggi.

 

3. Il senso della Benedizione

            Al termine di questa Eucarestia, uscirò sul sagrato del Duomo come per affermare, almeno in modo simbolico, la nostra volontà di essere dentro la società aretina.

            Vuole essere un segno per richiamare i cristiani a raccolta. Si trovi il modo di non dimenticare nessuno, di escogitare i mezzi e i modi perché nell’Eucarestia si rinnovi il coraggio di lavorare insieme.

            Non giova per niente far resuscitare le ideologie che i commentatori avevano dato per defunte. Già in dottrina, i cristiani avevano messo in guardia dai pericoli che compromettono il bene comune.

            Le ragioni della carità portano certamente frutto per sovvenire chi si trova nell’emergenza.

            Questa Chiesa ha fatto un significativo passo con la Pastorale creativa di alcuni nostri sacerdoti che allestirono mense, predisposero dormitori e moltiplicarono i centri di ascolto per aiutare concretamente la nostra gente in difficoltà nelle varie parti del territorio.

            Ora tocca creare la cultura della collaborazione, che appartenne al popolo aretino fin dal Medioevo, con le due Fraternite e le trentaquattro Misericordie che ancora sono presenti sul nostro vasto contesto ecclesiale. Lo spazio nuovo che si è recuperato nell’intesa tra Comune e Diocesi, nel centro storico di questa città, con la valorizzazione della desueta Caserma Piave, vuole essere un luogo di dialogo e di solidarietà caritativa, dove ci sia accoglienza per tutti e soprattutto progettualità condivisa.

            La motivazione della carità legata all’Eucaristia, cioè all’essenza stessa della Chiesa, è il principio che fa diventare concreti i nostri propositi.