Toscana

Contro Arafat la tattica snervante dell’assedio e dell’umiliazione

dall’inviatoANDREA FAGIOLI

Arriviamo a Ramallah all’imbrunire. Troppo presto. L’appuntamento con Yasser Arafat è nel tardo pomeriggio. C’è voluto meno del previsto a percorrere i pochi chilometri che separano Gerusalemme dalla cittadina dov’è confinato il leader palestinese, ma soprattutto non c’è stato nessun problema al posto di blocco israeliano. E dei famigerati carrarmati nessuna traccia. Anche Ramallah, come tutte le città palestinesi, è sporca e degradata, ma anche viva e colorita.

In attesa dell’ora per avviarci al quartier generale del presidente, la polizia dell’Autorità nazionale palestinese ci scorta a prendere un tè in un albergo dove la singola si vende a 60 dollari, la doppia a 80 e la suite addirittura a 120. Viene da chiedersi chi possa venire da queste parti, in queste condizioni e spendere queste cifre. Il tè comunque è buono, anche se il servizio e l’igiene lasciano un po’ a desiderare.

È l’ora. Si riparte dietro ai lampeggianti azzurri delle auto militari. Non è la prima volta che questa «emozione» tocca ad un gruppo di toscani. Era già successo un anno fa, a Gaza, l’altra roccaforte di Arafat, ora bloccato qui a Ramallah.

Eccoli i carrarmati israeliani, così almeno ci dicono. È notte, non si vedono: sono oltre il muro di cinta della residenza presidenziale, ci garantisce anche padre Ibrahim Faltas, grande artefice di quest’incontro. Si dice fossero sedici quelli arrivati a metà della scorsa settimana.

Un medico racconta di sette bambini feriti dagli uomini dei «carri», racconta di non aver potuto raggiungere l’ospedale se non con l’aiuto della Croce Rossa. Parla di bombardamenti, distruzioni, quartieri divisi. «La situazione è molto grave – conferma il ministro per gli affari religiosi Emile Sarjoui, vecchia conoscenza della delegazione toscana –. I carrarmati sono qui alla porta dell’abitazione del presidente. Vi prego di portare la voce del popolo palestinese in tutto il mondo – implora Sarjoui – in modo che si possa fare qualcosa per salvarlo». E ricorda che quello appena passato è stato un Natale molto triste, perché Arafat non ha potuto partecipare alla Messa di Betlemme.

Il quartier generale dell’Autorità palestinese non ha particolari protezioni e anche i militari presenti ci sembrano pochi e scarsamente armati. Per i soldati israeliani entrare qui dentro sarebbe un gioco da ragazzi, ma preferiscono, forse, la tattica snervante dell’«assedio» e dell’umiliazione del leader palestinese, il quale, per tutta risposta, appare in condizioni fisiche decisamente migliori rispetto all’anno scorso: è sorridente e si lascia andare anche a gesti galanti baciando la mano alle signore presenti. Per tutti un saluto, una stretta di mano e, perché no?, una foto ricordo.

L’aria di festa che si respira nella modesta sala dei ricevimenti, il cui unico vezzo sono dei tendaggi nemmeno troppo di gusto, sembra far dimenticare che praticamente sotto le finestre in fondo alla sala ci sono i cingolati con la stella di David. «E se Sharon fa circondare questo palazzo – dice Saab Ercat, il capo dei negoziatori palestinesi, che per l’occasione abbandona ogni possibile prudenza diplomatica – significa che non vuole la pace. Ma cosa vuole, allora? E pensare che Arafat è stato il primo presidente della Palestina a riconoscere lo Stato d’Israele. Ma questo linguaggio Sharon non lo può capire – dice ancora il diplomatico palestinese –. Così facendo, il Medio Oriente si avvicina ad una guerra di tutti».

È la volta di Arafat: il presidente attribuisce all’incontro con la delegazione toscana «significati personali, politici e di popoli: non posso dimenticare – spiega – il rapporto storico con l’Italia; non posso dimenticare l’accoglienza ricevuta a Roma quando abbandonai Beirut, così come non posso dimenticare il primo incontro con il Papa». A questo proposito il leader palestinese ricorda che i dieci minuti previsti dal cerimoniale della Santa Sede si trasformarono in molti di più a causa di Giovanni Paolo II, che rimandava indietro tutti quelli che gli ricordavano il tempo scaduto. In quel primo colloquio ci fu spazio anche per una battuta: Arafat si presentò a Karol Wojtyla dicendo di essere «il secondo palestinese che viene a Roma». «E il primo chi è?», domandò il Papa. «San Pietro», rispose Arafat.

«Purtroppo in questa guerra hanno tagliato la metà dei nostri alberi – racconta l’anziano presidente –, ma noi e voi insieme possiamo seminarli di nuovo in questa terra, perché questa è la Terra Santa. Tramite voi chiamo l’Italia, chiamo l’Europa, chiamo tutto il mondo a salvare questa terra. Non potete immaginare quanto si soffre in una situazione del genere. Ma dovete anche sapere che qualunque cosa succeda qui influenza anche voi. Io però sono sicuro che aiuterete il popolo palestinese. Così torneranno ad innalzarsi i simboli della pace in queste terra della pace: la Terra Santa».

A nome della delegazione toscana, il vescovo Rodolfo Cetoloni ringrazia il presidente dell’Autorità nazionale palestinese ribadendo, con le parole del Papa, l’importanza della pace e della giustizia, ma anche del perdono, invitando a non sposare mai la causa violenta. Infine un augurio: «Come lei ci ha accolto nella sua casa – dice il vescovo di Montepulciano ad Arafat –, speriamo che anche noi possiamo accoglierla nella nostra: a Betlemme, a Gerusalemme, ma anche in Italia».

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