Prato

Consultori, vedi alla voce “passacarte”

di Giacomo CocchiIl consultorio familiare? Non è altro che un ambulatorio ginecologico. Lo rivela in tutta la sua crudezza una ginecologa pratese che lavora in uno dei nove consultori presenti nella provincia di Prato. La dottoressa, che preferisce restare anonima, ci dice senza giri di parole: «Al consultorio tutto parte e si esaurisce nella nostra attività ostetrico-ginecologica, l’assistenza sociale e psicologica prevista dalla legge 194 a sostegno delle donne che vogliono abortire, di fatto non esiste».

Eppure la lettera della legge sull’interruzione di gravidanza e quella della norma istitutiva dei consultori, datata 1975, parlano chiaro: nei consultori dovrebbe essere presente del personale in grado di fornire assistenza e consulenza in discipline mediche, psicologiche, pedagogiche e di assistenza sociale. Serve allora anche un medico dell’anima, non solo del corpo, qualcuno che possa aiutare la donna in stato di gravidanza, non solo dal punto di vista medico: uno specialista che sia in grado di offrire consigli e sostegno, con il dovere di contribuire «a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza», come esplicitamente dice la legge 194 del 1978, all’art. 2.

Purtroppo non esiste un lavoro «d’equipe», non c’è nessun raccordo tra l’attività dei medici, e quella dello psicologo e dell’assistente sociale. Su questo punto a Prato la 194 è lettera morta? Parrebbe di sì. Purtroppo la situazione attuale non è una novità, ne sa qualcosa il dottor Paolo Niccoli, che per vent’anni ha fatto il ginecologo nei consultori: «Quando nacquero i consultori – era il 1975 – vennero usati prevalentemente per le richieste ginecologiche normali, piuttosto che per finalità “consultoriali”». E l’assistenza per un’aiuto alla gestione consapevole della propria gravidanza? «Veniva fatta certo, ma solo da noi medici obiettori – dice ancora Niccoli -, ed eravamo considerati per questo, dai colleghi “progressisti al passo coi tempi”, come dei biechi retrogradi».

Oggi come ieri, una volta giunta al consultorio, la domanda della donna ha più o meno questo tenore: «vorrei abortire, mi dica come posso fare», e quasi sempre, come ci conferma il dottor Niccoli, l’interruzione di gravidanza, era una soluzione come un’altra, anzi chi arrivava al consultorio chiedendo di abortire aveva una corsia preferenziale. Come in un normale ufficio burocratico alla richiesta seguiva il certificato: «Ho conosciuto dottori che compilavano e firmavano il certificato appena una donna esprimeva l’intenzione di abortire». Ma la norma parla chiaro, e la 194 tra le sue finalità esclude chiaramente che l’interruzione volontaria della gravidanza possa essere «un mezzo di controllo delle nascite». «Chi in realtà parla con la donna, si apre ai suoi problemi, cerca di entrare in confidenza per un aiuto siamo noi ginecologi, – ci testimonia ancora la dottoressa – ma ovviamente, dato che questo non è il nostro compito, l’interessamento è lasciato al nostro buon cuore». In certi casi però, anche per lei, le buone intenzioni rimangono tali, ad esempio quando si presenta al consultorio una delle tante donne straniere che oggi vivono a Prato, in particolare le donne cinesi: «Proviamo a parlare anche con loro, ma è difficile, per una cinese l’aborto è praticamente un metodo contraccettivo, molte donne tornano da noi tre, quattro anche cinque volte per abortire».

Mancando un intervento di assistenza socio-psicologica durante la gravidanza, il previsto sostegno nel periodo successivo all’interruzione volontaria di gravidanza è ancora più disatteso: «È così, noi diciamo alle donne di tornare dopo un mese dall’Ivg per una visita, ma pochissime lo fanno» conclude amara la dottoressa del consultorio. Il perché? l’assistenza post-aborto è a carico della donna, a dimostrazione che forse neppure il Legislatore, stavolta, ha le idee troppo chiare in materia.