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Consiglio permanente, la prolusione di Bagnasco
Il testo integrale della Prolusione con cui il card. Angelo Bagnasco ha aperto i lavori del Consiglio permanente della Cei (Roma, 22 gennaio 2012).
1. Dicevamo del conforto che in genere ci è venuto, in occasione delle recenti festività, dalla partecipazione corale dei fedeli alle celebrazioni natalizie. Naturalmente non è una questione di numeri, di una loro sostanziale tenuta, o persino di qualche loro lievitazione. Ci conforta piuttosto la fede che viene espressa in maniera genuina, in forma talora pudica ma autentica, come se il passaggio dalla sicumera e dal clima di abbondanza alla trepidazione e all’incertezza, ci riportasse all’essenziale di noi stessi e della vita, alle cose che veramente contano. Non si può non ammettere che molto di quello che passa come spirito del tempo o come valori, in realtà è il prodotto delle industrie dell’intrattenimento e del consumismo. È appena sufficiente tuttavia entrare in contatto vivo col tessuto delle parrocchie ed immergerci tra la gente cosiddetta comune che lavora per vivere e ha preoccupazioni che si direbbero prosaiche e invece sono semplicemente normali per ricavarne l’impressione che ancora ci sono davvero i valori cristiani. Se poi si allarga lo sguardo, e vi si includono molti dei nuovi arrivati, ossia i fratelli provenienti dall’Est europeo o dall’America Latina, dall’Africa o dall’Asia, dall’Oceania, si coglie immediatamente la ricerca del cibo spirituale più sostanzioso, quello che consente le lunghe traversate e aiuta a preservare la fede. Senza mitizzare alcunché, è onesto riconoscere che il ritorno ad atteggiamenti più semplici e discreti non significa approdo ad una fede destrutturata o magica, ma è motivo di riflessione più aperta e meno pregiudiziale da parte di una certa modernità artificiosa. Non perché i grandi media ignorano questo fenomeno, noi possiamo a nostra volta svalutarlo o consentire che esso sia trascurabile agli occhi dei nostri amati sacerdoti. Occorre stare attenti a non creare ingiustificate classificazioni che generino di fatto complessi di autoemarginazione o di inadeguatezze che tali sono per sguardi semplicemente troppo umani. Con ciò desidero, venerati Confratelli, idealmente inchinarmi a quella diffusa pietà popolare che a partire dalla divina Liturgia e in essa confluendo costituisce un patrimonio da valorizzare, completare, ed eventualmente purificare. A ben vedere, in ogni momento della storia la comunità cristiana è sospinta ad un cristianesimo di conversione, consapevole che nel cuore tutti dobbiamo pur sempre ricominciare se non vogliamo che la fede diventi realtà scontata e stanca, più confidente nelle forme dell’efficienza e nelle strutture piuttosto che nella continua conversione a Cristo Signore. In questa prospettiva, accogliamo anche noi le salutari parole che Benedetto XVI ha pronunciato in Germania: «Ma si è chiesto il Papa dietro le strutture, vi si trova anche la relativa forza spirituale, la forza nella fede nel Dio vivente?» (Discorso al Comitato centrale dei Cattolici tedeschi, 24 settembre 2011). O per caso c’è «un’eccedenza delle strutture rispetto allo Spirito»? E aggiungeva: «La vera crisi della Chiesa nel mondo occidentale è una crisi di fede. Se non arriveremo ad un vero rinnovamento nella fede, tutta la riforma strutturale resterà inefficace» (ib). In altre parole, si possono fare tante cose per la Chiesa, e si può impiegare in essa anche molto del proprio tempo o delle proprie risorse, ma «ci vuole di più», ci vuole «il cuore aperto, che si lascia toccare dall’amore di Cristo» (Omelia all’aeroporto di Friburgo, 25 settembre 2011). In quella stessa mattinata del mese di settembre, Benedetto XVI aveva icasticamente richiamato un episodio della vita della beata Teresa di Calcutta, a cui un interlocutore un giorno chiese «quale fosse, secondo lei, la prima cosa da cambiare nella Chiesa. La sua risposta fu: lei ed io» (Discorso all’incontro con i laici impegnati della diocesi di Friburgo, 25 febbraio 2011).
2. È nota la decisione del Santo Padre di indire l’Anno della fede, che avrà inizio l’11 ottobre 2012 e terminerà il 24 novembre 2013. Non si può accettare infatti che «la porta della fede» resti deserta, vien detto fin dall’inizio del Motu proprio di indizione (Porta fidei, n. 1), né che «il sale diventi insipido» o «la luce sia tenuta nascosta» (ib n. 2). La soglia di quella porta è mistero e calamita di ogni esistenza, dilemma e dramma, fascinazione e speranza. Davanti a quella porta, ciascuno prima o poi viene a trovarsi: meglio per noi, allora, se non ci faremo trovare avvolti nell’indolenza (cfr n. 15). È lo sfondo sul quale Benedetto XVI desidera che venga celebrato il cinquantesimo di inizio del Concilio Vaticano II, porta attraverso cui l’uomo del nostro tempo ha potuto sbirciare dentro e sapere qualcosa della Chiesa di Cristo; e nel contempo, vuole ricordare anche il ventesimo del Catechismo della Chiesa cattolica, porta attraverso cui le ultime generazioni cristiane sono passate per entrare in confidenza col mistero di Cristo. A nessuno sfugge la forza di una simile intuizione che può diventare un evento spirituale di proporzioni grandiose. Forse che non è la fede l’indomito assillo che dall’avvio del suo Pontificato questo Papa ha indicato alla Chiesa tutta? La fede: ne troverà ancora il Figlio dell’Uomo, tornando alla fine dei tempi? Grazie, Padre Santo, per aver consentito che una tale mozione interiore parlasse al suo cuore. Grazie perché gli uomini stanno cercando il pane che noi stessi talora esitiamo ad offrire. Grazie, dunque, per aver voluto quest’Anno quale contenitore coerente per ricorrenze come l’avvio dei lavori del nuovo Pontificio Consiglio per la nuova evangelizzazione o per il prossimo Sinodo mondiale dei Vescovi che verterà sullo stesso argomento. Non si porranno occasioni sparse o sparpagliate: si dovrà invece cogliere la struttura che sorregge i diversi accadimenti, e li ricompone in un unico disegno: rilanciare nel tempo la missione messianica, continuare senza tregua a gettare le reti, rimettere a piombo nella vita della Chiesa ogni singolo elemento perché corrisponda al disegno del Padre: fare di Cristo il cuore del mondo.
3. La Nota resa pubblica il giorno successivo all’Epifania, a cura della Congregazione per la Dottrina della Fede, e contenente le proposte pastorali relative al prossimo evento, colpisce per la dovizia di suggestioni messe fin d’ora a disposizione degli organismi centrali della Chiesa come delle Chiese locali. Dovremo, come Conferenza Episcopale, tornarci sopra quanto prima per le responsabilità e le scelte che ci sono proprie, intendendo noi Vescovi italiani fare tesoro di questa circostanza all’interno della progettazione pastorale già avviata. La quaestio fidei è la sfida pastorale che riguarda anzitutto la Chiesa intera: come «far rinascere in se stessi e negli altri la nostalgia di Dio e la gioia di viverlo e testimoniarlo? A partire dalla domanda sempre molto personale: perché credo?» (Benedetto XVI, Omelia al Te Deum di ringraziamento, 31 dicembre 2011). Rispetto ai tanti problemi che assillano le nostra pastorale, a partire dalle vocazioni, in molti si chiedono: «Che cosa, dunque, dobbiamo fare? Esistono infinite discussioni sul da farsi perché si abbia un’inversione di tendenza. E certamente occorre fare tante cose. Ma il fare da solo non risolve il problema. Il nocciolo della crisi della Chiesa in Europa è la crisi della fede. Se ad essa non troviamo risposta, se la fede non riprende vitalità, diventando una profonda convinzione ed una forza reale grazie all’incontro con Gesù Cristo, tutte le altre riforme rimarranno inefficaci» (Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana, 22 dicembre 2011). Sembra esistere qua e là una strana reticenza a dire Gesù, una sorta di stanchezza, uno scetticismo talora contagioso. Al contrario, ed è il Papa stesso a ricordarcelo, c’è l’entusiasmo riscontrabile nei giovani e nei giovani Continenti, a partire dall’Africa che egli ha visitato di recente e dove si è colta un’impressionante vitalità e una larga passione per il Vangelo. C’è l’Asia, il continente del futuro, in cui giovani Chiese come nella Corea del Sud crescono ad un ritmo vertiginoso. C’è l’America Latina, di cui da poco si sono celebrati i 200 anni dell’Indipendenza e che, nonostante segnali contrastanti, resta il polmone per la fede di tutte le Americhe e ossigena anche i Paesi europei, approdo di nuova immigrazione. Ci sono inoltre tentativi seri condotti nelle Chiese di antico radicamento, dove ad esempio l’esperienza della Giornata mondiale della Gioventù si sta rivelando un modo nuovo, ringiovanito, dell’essere cristiani. Se si saprà valorizzare questa formula, e ad un tempo valorizzare l’esperienza del pellegrinaggio ai Luoghi della Terra Santa come ai grandi Santuari sparsi per il mondo; e ancora, se si imparerà a stimare quanto conviene lo scambio culturale tra gli immigrati e gli autoctoni, come tra gli studenti internazionali e i coetanei che incontrano nei Paesi e nelle università in cui transitano, quasi a formare laboratori di umanità in grado di fronteggiare ideologie prepotenti o anche surrettiziamente deboli (cfr Benedetto XVI, Discorso al 3° Congresso mondiale degli studenti internazionali, 2 dicembre 2011); se infine si vorranno potenziare le testimonianze e i testimoni che, fin dalle origini, la comunità cristiana ha avuto grazie a persone che, toccate dalla grazia, sono diventate dei campioni di fede vissuta; se tutto questo verrà tentato, ad integrazione organica e supporto intelligente per la pastorale ordinaria, allora davvero si apriranno sentieri nuovi per il Vangelo.
4. Quanto alla crisi economica che da almeno quattro anni sta scuotendo il mondo, ora sappiamo di essere entrati in una fase inedita della vicenda umana. L’idea stessa di progresso, in voga dal XVIII secolo, sta subendo un duro contraccolpo, e la stessa categoria di crisi suona inadeguata e inefficace, cessando praticamente di significare quello che le si vorrebbe affidare. Di crisi economiche infatti ce ne sono state tante fino ad oggi; la novità è che quanto accade in economia e nella finanza non si può spiegare se non lo si collega ad altri fenomeni contestuali come la mondializzazione dei processi, le migrazioni, le mutazioni demografiche nei Paesi ricchi, l’offuscamento delle identità nazionali, il nomadismo affettivo e sessuale. La globalizzazione ha cessato ben presto di porsi come un orizzonte in sé significante, allorché l’altro è sostituito da funzioni e reti. Il capitalismo sfrenato sembra ormai dare il meglio di sé non nel risolvere i problemi, ma nel crearli, dissolvendo il proprio storico legame con il lavoro, il lavoro stabile, e preferendo ad esso il lavoro-campeggio (cfr Bauman): si va dove momentaneamente l’industria sta meglio come se l’altro non esistesse. E per l’altro è in primo luogo da intendersi proprio il lavoratore. La fluidità di valori, relazioni e riferimenti, non impedisce affatto semmai favorisce il formarsi di coaguli sovrannazionali talmente potenti e senza scrupoli, tali da rendere la politica sempre più debole e sottomessa. Mentre invece dovrebbe essere decisiva, se la speculazione non avesse deciso di tagliarla fuori e renderla irrilevante, e quasi inutile. Ed è quel che sembra accadere sotto gli occhi attoniti della gente. Quando il criterio è il guadagno più alto e facile possibile e nel tempo più breve possibile, allora il profitto non è più giusto, ma diventa scopo a se stesso giocando sulla vita degli uomini e dei popoli. Al di là di ogni ventata antipolitica, va detto che la politica è assolutamente necessaria, e deve mettersi in grado di regolare la finanza perché sia a servizio del bene generale e non della speculazione. Non è possibile vivere fluttuando ogni giorno nella stretta di mani invisibili e ferree, voluttuose di spadroneggiare sul mondo. Sembra, invece, che i grandi della terra non riescano ad imbrigliare il fenomeno speculativo; che giochino continuamente di rimessa, sperando ogni volta di scamparla alla meno peggio, ma è un’illusione: prima o poi arriva il proprio turno, e ci si trova in ginocchio come davanti ad un moderno moloch di non decifrabile direzione. Il dubbio è che si voglia proprio dimostrare ormai l’incompetenza dell’autorità politica rispetto ai processi economici, come se una tecnocrazia transnazionale anonima dovesse prevalere sulle forme della democrazia fino a qui conosciuta, e dove la sovranità dei cittadini è ormai usurpata dall’imperiosità del mercato. «Senza un pensiero morale scrive Benedetto XVI che superi l’impostazione delle etiche secolari, come quelle neo-utilitaristiche e neo-contrattualistiche, che si fondano su un sostanziale scetticismo e su una visione prevalentemente immanentista della storia, diviene arduo per l’uomo di oggi accedere alla conoscenza del vero bene umano» (Discorso per il 50° della Mater et Magistra, 16 maggio 2011). Desidereremmo chiedere alla classe intellettuale del nostro Paese di voler accettare un libero confronto su simili istanze. Che si riconsiderassero parole antiche, ma sempre attuali e urgenti: esse fanno parte dell’uomo stesso e del suo destino, come vita e famiglia, lavoro e partecipazione, libertà e relazione, politica e rappresentanza.
5. Lo scenario evocato in ambito internazionale ha delle ricadute e delle specificità italiane. L’Italia appare particolarmente in angustia a motivo di sanzioni e bocciature che possono apparire un declassamento, agli occhi del mondo, di noi che mai ci siamo risparmiati per generosità e universalismo. E tuttavia un esame di coscienza rigoroso e spassionato si impone, per scongiurare il rischio di un autolesionismo spesso in agguato specie nei momenti di cambiamento. Due spunti però ci sembra meritino una ponderazione proporzionata: anzitutto l’incapacità provata di pervenire nei tempi normali a riforme effettive, spesso solo annunciate; e quindi l’incapacità, con questo sistema politico, di pervenire in modo sollecito a decisioni difficili allorché queste si impongono. Quasi fosse normale, per un paese come l’Italia, non essere in grado di assumere una comunicazione franca con i propri cittadini. E dovesse essere fisiologico puntare su una compagine governativa esterna, perché provi a sbrogliare la matassa nel frattempo diventata troppo ingarbugliata. È a questo punto che si è affacciato il nuovo Governo, come esecutivo di buona volontà, autonomo non dalla politica ma dalle complicazioni ed esasperazioni di essa, e con l’impegno primario e caratterizzante di affrontare i nodi più allarmanti di una delicata, complessa contingenza. Va da sé che, dal punto di vista etico, non possa esserci sospensione della responsabilità della politica, che il Parlamento affida al Governo in ragione del mandato ricevuto dal corpo elettorale. Mandato certo in sé non abdicabile: per questo è irrinunciabile che i partiti si impegnino per fare in concomitanza la propria parte, in ordine a riforme rinviate per troppo tempo tanto da trovarsi ora in una condizione di emergenza. Non devono fare gli spettatori, ma devono attivarsi con l’obiettivo anche di riscattarsi, preoccupati veramente solo del bene comune, quasi nell’intento di rifondarsi su pensieri lunghi e alti, lasciando per strada la lotta guerreggiata sotto mentite spoglie, la denigrazione sistematica, le polemiche esasperanti e inconcludenti.
Naturalmente non tocca a noi Vescovi parlare di tempi e modi; a noi però spetta ricordare che la conversione a fare bene, a riguadagnare stima e fiducia è sempre possibile e doverosa. Mai nulla va considerato perso del tutto; per certi versi questa è una stagione propizia per imprimere allo Stato e alla stessa comunità politica strutture e dinamiche più essenziali ed efficienti, lontane da sprechi e gigantismi. Per cooperare attivamente con il Governo a riequilibrare l’assetto della spesa in termini di equità reale, e metter mano al comparto delle entrate attraverso un’azione di contrasto seria, efficace, inesorabile alle zone di evasione impunita, e ai cumuli di cariche e di prebende. La Chiesa non ha esitazione ad accennare questo discorso, perché non può e non deve coprire auto-esenzioni improprie. Evadere le tasse è peccato. Per un soggetto religioso questo è addirittura motivo di scandalo. Ci permettiamo proprio nella nostra veste di Pastori di sottolineare, fra le molte istanze, la necessità di approntare un piano carceri che sia degno di un Paese della nostra tradizione giuridica e umanistica. Anche un solo suicidio, che avvenga per le condizioni disumane cui sono soggetti i carcerati, è di troppo. Non è vero, e non si può pensare che quelle dei carcerati siano vite a perdere. Se un pensiero simile dovesse albergare nella coscienza di un solo cittadino sarebbe una sconfitta per tutti.
6. E poiché siamo in una condizione di necessità, che obbliga a stare sul punto senza svolazzi e facili illusioni, vorremmo chiedere ai nostri connazionali lo sforzo di scorgere tutto il positivo che potenzialmente può annidarsi anche all’interno di una situazione ingrata. Il che non significa rinunciare al proprio personale punto di vista sulla politica e su quanto in quell’ambito si muoveva ieri e si muove oggi. Ciascuno a suo tempo si esprimerà in coscienza. Ma oggi c’è da salvare l’Italia e c’è da far sì cosa non scontata che i sacrifici che si vanno compiendo non abbiano a rivelarsi inutili. Per questo urge superare il risentimento che qua e là affiora. Chi non sapeva che si andavano perpetuando a molti livelli squilibri che apparivano oltre ogni misura e quindi erano avvertiti come inaccettabili? Come si può ritenere fisiologica la condizione di giovani ultratrentenni che vivono a carico dei genitori o dei nonni? Non ci sarà all’improvviso alcuna palingenesi miracolosa, però si deve tentare di riaggiustare il sistema, consapevoli che le condizioni per una vera equità si determinano cominciando ad offrire ai giovani le opportunità di cui hanno diritto (cfr Benedetto XVI, Discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 9 gennaio 2012), equilibrando per quanto legittime le spinte iper-protezionistiche delle altre generazioni. D’altro canto, fuori dall’equità non si produce né senso di appartenenza né senso della cittadinanza. Risanare e crescere: sono le due parole che guidano e impegnano ogni energia che abbia cuore e responsabilità per il nostro Paese. È necessario non solo mantenere e creare lavoro, ma anche conservare nostro il patrimonio di lavoro e di eccellenze che è riconosciuto nel mondo. Invero, è altresì necessario recuperare o incrementare la cultura del lavoro, fatta certo di professionalità, ma anche di quell’approccio mentale e di quelle virtù morali che costituiscono la struttura portante, senza la quale le competenze non possono andare lontano. C’è bisogno di creare consapevolezza fresca attorno a ciò che nel frattempo non ha smesso di funzionare. Il Paese non è piombato all’improvviso in una palude melmosa: non se ne parla forse a sufficienza, ma ci sono indici interessanti sul fronte dell’export, settori di impresa che reggono bene e sono promettenti, la qualità della vita nei centri medi e piccoli resta considerevole, l’integrazione tra welfare comunitario e volontariato produce ancora risultati non trascurabili. Certo, lo Stato deve vincolarsi a pagare in tempo i suoi debiti con i cittadini, anche per evitare ulteriori gesti di disperazione da parte di imprenditori in difficoltà, e c’è da contenere un’aggressività pericolosa. Sta crescendo nel Meridione la speranza di potersi liberare un giorno non remoto dal giogo della malavita organizzata, e non è un caso probabilmente che questa si stia spingendo verso le città del nord, che faranno bene a rinforzare la vigilanza e moltiplicare gli anticorpi. Occorre lucidamente contrastare l’idea che per i malati terminali le cure vadano centellinate: sarebbe uno spreco non di risorse ma di retorica sui diritti fondamentali dell’uomo, una sorta di prova della verità circa la tendenza eutanasica che ammorba la civiltà europea. È necessario arginare la piaga del gioco d’azzardo, quale fuga disperata da una realtà ritenuta ingrata, o quale seducente sirena di vita facile, ma che si rivela come abbrutente dipendenza che deforma l’umano dell’uomo, e sconquassa le famiglie. Sono le malattie nuove di una post-modernità infragilita dalle proprie ossessioni prima ancora che dai deficit di bilancio. Il rigore può e deve sposarsi al senso di umanità, e dalla crisi dobbiamo uscire imparando a condividere il sogno di San Benedetto: «Facciamo bene oggi ciò che ci potrà giovare per l’eternità» (Regola, prologo, n. 44).
7. È noto, a noi che viviamo sul territorio, come la crisi in atto stia determinando, a livello di servizi sociali, un’autentica rivoluzione copernicana. Non potendo più far perno infatti sul trasferimento delle risorse dallo Stato centrale agli enti locali, essa deve reinventarsi, puntando su un’alleanza organica tra il cosiddetto privato sociale, le imprese e gli enti locali. Dovrà trattarsi però di un’iniziativa aperta e pubblica, anzi, detto ancor meglio, di un’iniziativa comunitaria nel segno della sussidiarietà, distribuita sul territorio e facente leva sulla comunità locale. Come non cogliere che vi è una leggera contraddizione allorché si parla, per queste situazioni, di privato-sociale? Ma al di là dei nominalismi, è di ogni evidenza l’assidua, capillare presenza responsabile della componente ecclesiale. Una recente mappatura parla di quattrocentoventimila operatori attivi in oltre quattordicimila servizi sociali e sanitari di ispirazione cristiana operanti con continuità e stabilità organizzativa sul territorio del Paese (cfr Rilevazione delle opere sanitarie e sociali ecclesiali in Italia, promossa dalla Consulta ecclesiale nazionale degli organismi socio-assistenziali, da Caritas Italiana e dall’Ufficio Nazionale per la pastorale della sanità). Il 62,3% di questi centri svolge attività socio-sanitaria e sociale non residenziale, mentre il 31,2% attua forme di assistenza residenziale. Oltre il 27,5% di questi servizi è promosso da parrocchie, il 19% da realtà diocesane, il 18,1% da associazioni di fedeli, il 13,1% da istituti di vita consacrata o società di vita apostolica. Nonostante il taglio di due terzi delle risorse nazionali verificatosi nell’arco degli ultimi tre anni, se il sistema non è collassato è appunto perché è in atto una ritessitura che mette in rete tutte le buone risorse per offrire risposte non episodiche né casuali, ma organiche e continuative. La tipologia di questi servizi è abbastanza varia: c’è la formula delle Tavole amiche, ossia le mense gratuite, i centri di ascolto con annessi sportelli per viveri, vestiario e pernottamenti; c’è la formula collaudata dal Banco alimentare e va diffondendosi quella del Banco farmaceutico, con esperienze di punti di riferimento a disposizione dei senza dimora che abbiano bisogno di prestazioni mediche urgenti o comunque interventi di tipo gratuito e volontario. Ci sono le molteplici iniziative basate sul micro-credito per prestiti emergenziali che raccordano le improrogabili esigenze delle famiglie con la mancanza di lavoro; gli sportelli per l’emergenza casa, con offerte che sopperiscano la cronica mancanza di abitazioni; i fondi anti-usura nonché forme di adozioni temporanee rivolte a nuclei in difficoltà. Nel frattempo, sta entrando a regime lo strumento del Prestito della speranza per soccorrere famiglie all’ultimo stadio di autonomia, per aiutarle a traghettarsi fuori dall’emergenza. Senza peraltro che si smetta quell’aiuto immediato e informale, rivolto a quanti bussano alla porta di una canonica o di un istituto religioso o di un’abitazione normale. Insomma, un fiorire di iniziative, anche non codificate o registrate, che fanno dunque lievitare i numeri prima citati. Il criterio è quello classico dell’ascoltare, osservare e discernere che sta guidando la nostra Caritas nei suoi primi, onoratissimi quarant’anni di vita, e che da essa si espandono, in una logica di positivo contagio quanto a tipologia di attenzione e metodologia di approccio. Questa rapida rappresentazione la offro, cari Confratelli, unicamente perché come in famiglia possiamo rendere grazie al Signore che sprigiona il meglio dei cuori. I bisogni sono grandi, ma anche la generosità del nostro popolo è grande.
Ovvio che per sopperire ai mezzi oggi necessari a sostenere questa imponente opera di accoglienza e vicinanza, si faccia conto anzitutto sulla Provvidenza. E perché questa si manifesti, occorre sensibilizzare e attivarsi con credibilità. Per questo si va facendo ogni economia al fine di ricavare risorse ulteriori, si rifiniscono capitoli di spesa così da conseguire altri mezzi, per quanto residuali, ma pur sempre preziosi: nulla va preservato rispetto all’esigenza di rispondere positivamente a chi si attende un aiuto, consapevoli che «l’umile e concreto servizio che la Chiesa offre non vuole sostituire né, tantomeno, assopire la coscienza collettiva e civile. Le si affianca con spirito di sincera collaborazione, nella dovuta autonomia e nella piena coscienza della sussidiarietà» (Benedetto XVI, Discorso per il 40° di Caritas Italiana, 24 novembre 2011). Ciò detto, bisogna pur ricordare che nell’arco di pochi anni le richieste sono aumentate di oltre l’80%, il che non può non sospingere ormai ad una carità di popolo che si faccia carità di sistema. Lo diciamo sottovoce per non aver l’aria di chi, per questo, ha da avanzare pretese. Non chiediamo privilegi, né che si chiuda un occhio su storture o manchevolezze. Sappiamo che il bene va fatto bene, senza ostentazioni o secondi fini, senza cercare alibi, auto-remunerazioni o auto-esenzioni, nell’umile esemplarità della propria esistenza e con la trasparenza delle opere. Ho già avuto modo di precisare che, per quanto concerne l’ICI, la Chiesa in Italia non chiede trattamenti particolari, ma semplicemente di aver applicate a sé, per gli immobili utilizzati per servizi, le norme che regolano il no profit. I Comuni vigilino, e noi per la nostra parte lo faremo: ci piacerebbe solo non si investissero tempo e risorse in polemiche che, se pur accettiamo in spirito di mortificazione, finiscono per far sorgere sospetti inutili e, in ultima istanza, infirmare il diritto dei poveri di potersi fidare di chi li aiuta.
8. Intrecciata alla vicenda del Paese, si è sviluppata nei mesi scorsi anche l’iniziativa dei cattolici, nei termini in cui era stata presentata in occasione dell’ultimo Consiglio Permanente del settembre scorso. Incontri si sono svolti coinvolgendo i diversi soggetti nelle loro specifiche tipologie di aggregazione: al centro come bussola sempre la Dottrina sociale della Chiesa e l’amore leale al Paese. Tra le iniziative, c’è stato anche l’incontro di Todi, che ha visto radunate molteplici realtà per un sereno dialogo e proficuo confronto. Nell’agorà odierna, il nostro laicato vuole esserci, consapevole di essere portatore di un pensiero forte e originale, cioè non conformista. Consapevole di un dovere preciso che scaturisce anche dalla propria fede e da una storia lunga e feconda nota a tutti. Le molteplici iniziative di formazione sparse su tutto il territorio, facenti capo direttamente alle diocesi oppure alle diverse aggregazioni ecclesiali espresse in Retinopera, così come il nostro Progetto culturale, costituiscono quel soggetto unitario diffuso che da una parte si offre come palestra formativa, e dall’altra come laboratorio stimolante per la riconsiderazione dell’alfabeto della società e della politica. Proprio in questo orizzonte, e per amore di completezza, vorrei rilanciare anche una felice provocazione del Papa: «Ci si è adoperati perché la presenza dei cristiani nel sociale, nella politica o nell’economia risultasse incisiva, e forse non ci si è altrettanto preoccupati della solidità della loro fede, quasi fosse un dato acquisito una volta per tutte» (Discorso alla Plenaria del Pontificio Consiglio per i laici, 25 novembre 2011). Se questa sottovalutazione in passato c’è stata, è del tutto evidente che siamo impegnati a far sì che essa non si ripeta.
La famiglia resta il bene per eccellenza, giacché è il soggetto che per definizione lo moltiplica. Siamo e saremo accanto all’Arcidiocesi di Milano nella preparazione dell’evento internazionale che a maggio l’attende. C’è come un filo ideale che congiunge il Convegno di Verona, e le sue aree tematiche, all’argomento cui è consegnato l’Incontro mondiale che vedrà la presenza del Santo Padre. Dobbiamo entrare decisamente nella prospettiva di ricondurre ad unità le dimensioni decisive del vivere comune a ogni persona: gli affetti, la fragilità e la tradizione, il lavoro e la festa. Le famiglie oggi sono più vulnerabili, ma non è questo un buon motivo per indebolirle ancora di più, anzi. Nell’enciclica Caritas in veritate si dice: il modello familiare, «nella logica dell’amore, della gratuità e del dono va esteso ad una dimensione universale. La giustizia commutativa dare per avere e quella distributiva dare per dovere non sono sufficienti [ ]. Perché vi sia vera giustizia è necessario aggiungere la gratuità e la solidarietà» (Benedetto XVI, Discorso ai Partecipanti al Convegno promosso dalla Fondazione Centesimus annus, 15 ottobre 2011). Gratuità e solidarietà di cui la famiglia è crogiuolo formativo e centrale di irrorazione. Ci chiediamo: non è che il deficit oggi lamentabile sul fronte di questi valori è da ricondurre anche alla disistima pratica che a livello pubblico è riservata all’istituto familiare? In questo orizzonte, sarebbe grave impedire o comunque non favorire che la famiglia possa riunirsi per ritrovarsi, avendo tempi sufficienti liberi dal lavoro. Non è assolutamente indifferente né efficace parcellizzare il tempo del riposo in base alle leggi del mercato. La domenica, che nella tradizione del nostro Paese è dedicata alla famiglia e, se cristiana, al Signore nella comunità, non può essere sacrificata all’economia, indebolendo anche in questo modo un istituto che sempre di più si conferma, insieme alla persona, come la prima risorsa di una società che voglia essere non una moltitudine di individui ma un popolo coeso e solidale. È già fin troppo evidente che, nell’ambito dei poteri globali, si vuole rompere le reti virtuose, e ridurre l’uomo in solitudine perché sia meglio manipolabile. Risuona l’attualità grave del monito divino: «non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2, 18). Si chiede ogni sforzo e lungimiranza perché si corregga una rotta destinata a deragliare sul piano antropologico e sociale, e perché il soggetto famiglia sia sostenuto con politiche forti, dirette ed efficaci, anche in ordine alle scelte educative per i figli. A proposito di solitudine, non possiamo pensare solo alla compagnia che deriva dal nucleo familiare, ma anche a quella espressa da un popolo. Emerge così il problema anche dello status dei bambini di immigrati che vedono la luce nel nostro Paese, e che frequentano la scuola fianco a fianco dei nostri bambini, avviati insieme nell’unico sentiero della vita.
Altri temi vorrebbero la nostra considerazione, soprattutto in ordine ai gravi soprusi patiti da tanti fratelli di fede recentemente con particolare virulenza in Nigeria e anche a ogni forma di vilipendio alla religione. Le intenzioni personali le giudica Dio, ma la sensibilità e il rispetto hanno dei confini oggettivi che non ammettono prevaricazioni. Allargando lo sguardo nel mondo, sempre più ci si accorge come la libertà religiosa sia realmente principio non negoziabile che fonda molti altri diritti: «La religione non può essere usata come pretesto per accantonare le regole della giustizia e del diritto a vantaggio del bene che essa persegue» (Benedetto XVI, Discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 9 gennaio 2012). Per il diritto di servire i poveri e di credere liberamente nel Dio vero, si continua a morire. Padre Fausto Tentorio, ucciso nell’isola filippina di Mindanao, è solo l’ultimo religioso italiano martirizzato in ordine di tempo, ma tanti troppi sono gli operatori pastorali che nel 2011 hanno dato la loro vita per il Vangelo: singolare gloria per la Chiesa, questa, ma un’ignominia per il mondo che si ritiene sempre più emancipato. Che poi è il messaggio più importante scaturito dal secondo incontro di Assisi, felicemente svoltosi nel mese di ottobre.
Come Pastori e come cittadini, esprimiamo il nostro profondo dolore e cordoglio per le vittime della recente sciagura della nave Concordia, l’apprensione fiduciosa per i dispersi, e la nostra vicinanza a quanti hanno vissuto ore di terrore e di pericolo. Come sempre in circostanze di grave difficoltà, si sprigiona nei più un mare di dedizione, coraggio, altruismo. Per tutti preghiamo perché la consolazione e la forza di Dio raggiungano ogni cuore.
Venerati e cari Confratelli, vi ringrazio per l’amabile attenzione che mi avete riservato, per l’accoglienza e la verifica che ora vorrete dedicare a queste mie parole. Siamo nell’anno centenario della nascita del mai dimenticato Papa Giovanni Paolo I, il Pontefice mansueto, che si è lasciato condurre fino al sacrificio di sé. Nel prossimo mese di aprile è stata annunciata la beatificazione del Servo di Dio Giuseppe Toniolo, laico straordinario della nostra Chiesa, emblema di una stagione di incubazione per questa modernità travagliata che però si è chiamati ad interpretare in coerenza a quella testimonianza. La Vergine Maria, cui di recente abbiamo consacrato questa nostra Italia, ci aiuti a vivere nella fedeltà e con coraggio il nostro presente. Grazie.