Toscana
Conflitto israelo-palestinese, l’ignoranza ci rende indifferenti
«A proposito d’ignoranza, ricordo dice don Jacopozzi che all’indomani dell’assasinio di Rabin rimasi colpito da un sondaggio geopolitico pubblicato su Limes. Alla domanda, in quale continente si trova lo Stato di Israele, il 40% degli italiani lo collocava o in Africa, o in Europa, o non lo collocava affatto: una quantità notevolissima di non informati e di incerti che lascia pensare come gli italiani tendono forse a rimanere anche oggi del tutto indifferenti al conflitto israelo-palestinese in atto».
Don Alfredo, partiamo dallo spiegare perché non è corretto usare ebrei come sinonimo di Israele, cosa che invece molti fanno?
«Bisogna tenere distinti i due termini, perché dicono la differenza tra comunità cultural-religiosa e comunità politica. Il termine ebreo dice appartenenza al popolo-nazione di Israele, che si estende dall’epoca dei patriarchi fino ai nostri giorni; è un termine denso di memoria che unisce intorno a valori assoluti e immutabili. Il termine Israele si riferisce, invece, esclusivamente allo Stato la cui fondazione risale al 1948. Dunque non vi è coincidenza tra i due termini, perché non tutti gli ebrei sono israeliani e viceversa non tutti gli israeliani sono ebrei. Anzi, la maggioranza dei 14 milioni di ebrei risiede in tutto il mondo e non vive in Israele. In Israele vivono circa 5 milioni e mezzo di israeliani. Di questi, l’80% sono ebrei. Il restante 20% appartiene ad altre confessioni religiose».
Cosa significa Stato confessionale a proposito di Israele?
«In questi ultimi anni in Israele si assiste a un dibattito sui valori dello Stato quale Stato ebreo e democratico, una formula magica per tenere insieme due esigenze considerate contraddittorie. Israele è nato dopo la Seconda guerra mondiale come Stato degli ebrei e per gli ebrei che erano dispersi nel mondo, ed è stato concepito sin dall’inizio come Stato nazionale del popolo ebraico. D’altra parte Israele è uno Stato democratico e vi si trovano a vivere cittadini israeliani che non condividono il comune patrimonio storico e religioso degli ebrei, patrimonio che è uno dei motivi fondanti lo Stato. La questione cruciale da approfondire è se l’ebraismo è una religione o non sia piuttosto da ritenersi una cultura. Lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua ha trovato un’immagine biblica molto suggestiva. A partire dal Patto avvenuto sul Sinai si chiede se tra popolo ebraico e religione ebraica sia avvenuta una fusione o una saldatura. Da questo punto di vista i tradizionalisti sono per la fusione. L’opzione laica, presente in varie componenti dell’ebraismo, è invece per la saldatura e dunque non vi è la sola Legge divina, ma anche simboli più laici come il Popolo e la Terra. Perciò accanto a elementi propriamente religiosi vi sono anche componenti di tipo culturale, sociale e persino politico. La realtà ebraica è davvero una dimensione molto complessa. Per accostarci in modo non pregiudiziale dobbiamo tenere conto di tutti e tre gli aspetti: della Legge, del Popolo e della Terra, realtà soggette a un continuo e mai terminato processo di ridefinizione storica».
La Chiesa cattolica, in questo senso, distingue la posizione diplomatica nei confronti di Israele dal dialogo interreligioso con gli ebrei?
«Assolutamente sì. Lungo i decenni del Novecento, la Chiesa cattolica ha scelto per un progressivo rapporto cordiale con l’ebraismo e per un suo riconoscimento religioso. Più a fatica, la Santa Sede è giunta al riconoscimento de facto dello Stato di Israele e alle relazioni con esso. I tempi diversi mostrano come il Vaticano abbia voluto distinguere i due riconoscimenti».
Per secoli gli ebrei sono stati accusati di «deicidio», poi le cose sono cambiate soprattutto dopo il Concilio. Qual è, al momento, la posizione della Chiesa cattolica nei confronti del giudaismo?
«Il Concilio Vaticano II con la Dichiarazione Nostra Aetate sul rapporto con le religioni non cristiane, riguardo al dialogo con l’ebraismo segna una rottura irreversibile rispetto alla millenaria continuità e alla salda compattezza dell’antigiudaismo cristiano. Da allora il dialogo con l’ebraismo è sempre stato un andare oltre per cogliere che l’ebraismo non è estrinseco alla fede cristiana, ma è qualcosa di assolutamente proprio. Giovanni Paolo II espresse questa convinzione durante la visita alla Sinagoga di Roma con la celebre espressione: Siete i nostri fratelli prediletti e, si potrebbe dire, i nostri fratelli maggiori. Un altro momento fondamentale del dialogo ebraico-cristiano è anche il documento vaticano del 1998, Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah. Ma i gesti compiuti dal Papa nel viaggio a Gerusalemme, durante il Giubileo, sono stati più eloquenti di tante parole. Comunque la mia preoccupazione sul dialogo è che spesso tali splendidi documenti rimangono chiusi nel dibattito tra esperti e poco o niente filtra nella coscienza cristiana, dove talvolta qua e là emergono segnali di antigiudaismo».
Lei ha usato l’espressione antigiudaismo. Qual è la differenza tra antigiudaismo e antisemitismo?
«L’antigiudaismo è un fenomeno di matrice cristiana, che ha trovato il suo apogeo durante il medioevo e nella prima parte dell’età moderna. Si fonda sulla logica del superamento. L’ebraismo viene visto come insieme di principi e comportamenti religiosi ormai superati dall’ulteriore e definitiva rivelazione cristiana, non accolta dagli ebrei. In questa prospettiva è facile, ancora oggi, trovare a livello di predicazione popolare, qualche eco di antigiudaismo che si riferisce agli ebrei come popolo di dura cervice. L’antisemitismo, invece, è un fenomeno sociale che entra in gioco, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, con pseudodefinizioni dell’essere ebreo di stampo profondamente razzistico».
A suo giudizio, sta risorgendo una forma di antisemitismo oppure è solo un falso allarme, magari lanciato ad arte?