Opinioni & Commenti
«Concordia», gli insegnamenti che possono arrivare da un naufragio
L’imminente trasferimento del relitto della Costa Concordia a Genova per la sua demolizione, a scapito di Piombino, pare metter fine alla vicenda di questa nave e, soprattutto, a ciò che essa ha significato per la Toscana. Speriamo che davvero sia così: perché i danni che il naufragio ha fatto a questa terra e al suo mare, alla sua immagine e alla sua economia, sono già molto rilevanti. Tutti ci auguriamo che il laborioso trasferimento a Genova si svolga senza intoppi e senza mettere ulteriormente a rischio le coste italiane. Se così sarà, la storia iniziata il 13 gennaio 2012, alle ore 21,15, troverà la sua conclusione. In ogni caso possiamo già da ora tentare una riflessione complessiva su come è avvenuto l’affondamento della nave e su ciò che ne è derivato in questi mesi.
Il naufragio è stata una vera tragedia: una grave tragedia. Le 32 vittime, una delle quali ancora dispersa, e i 110 feriti lo mostrano chiaramente. È sciocco dire, come qualcuno ha fatto, che i morti sono stati «soltanto» 32 su 4229 persone a bordo, tra passeggeri ed equipaggio. La gravità di una tragedia non si misura sulla quantità di vittime, ma sul fatto che queste ci sono state e sul motivo per cui ci sono state.
Qui la causa è stata assolutamente futile e stupida. Si è parlato fin troppo della pratica dell’«inchino»: l’abitudine, da parte di una nave, di sfiorare un litorale al fine di omaggiare qualcuno, di offrire un’emozione ai passeggeri, di mostrare l’abilità del comandante. Si tratta di una pratica pericolosa. Se davvero la Costa Concordia è finita sugli scogli per questo motivo, allora ciò che fa rabbia è che la morte di 32 persone è stata provocata da una manovra del tutto inutile. Certo: potranno essere fatti tutti i distinguo possibili per dimostrare che l’ordine di sfiorare l’isola non è stato eseguito in maniera corretta, potrà essere chiamata in causa la responsabilità di coloro che erano presenti in plancia, ma resta il fatto che questo tipo di manovra non era necessario. E che dunque l’ordine non doveva essere dato.
Chi lo ha dato è stato il comandante della nave. Il suo nome, a torto o a ragione, è ormai diventato un simbolo negativo. È entrato in proverbio; è stato usato, anche di recente, come un insulto. A prescindere dal suo comportamento subito dopo la collisione e dal fatto di aver abbandonato troppo presto la nave, ciò che risulta più riprovevole nel caso di Schettino è di non aver mai voluto prendersi la piena responsabilità delle proprie azioni. Ha sempre cercato – e cerca tuttora, come in una recente intervista – di scaricare su altri ciò che oggettivamente dipendeva dal suo comando.
Questo è un altro aspetto della tragedia della Costa Concordia. Si tratta del tentativo – disperato, talvolta compiuto in modi strafottenti o arroganti – di sfuggire alle proprie responsabilità. Inutilmente. Perché un essere umano, se è degno di questo nome, non può non farsene carico. Sia per ciò che dipende direttamente da lui, sia per ciò di cui lui è solo causa indiretta.
A tale modello negativo si è contrapposto il comportamento esemplare degli abitanti del Giglio. Esso è andato ben al di là del pur prezioso primo soccorso ai naufraghi. La chiesa, il municipio, le case dell’isola hanno infatti accolto in maniera ammirevole, lo si ricorderà, persone passate improvvisamente dalle gioie di una vacanza al pericolo di annegare. Ma gli isolani hanno soprattutto dato mostra di tenacia e di perseveranza quando la loro stagione turistica ha avuto un tracollo, quando sembrava che il relitto non potesse più venir rimosso, quando il pericolo d’inquinamento del loro bel mare era reale.
Di questo spirito abbiamo oggi bisogno nel nostro Paese, visto che le emergenze da affrontare sono fin troppe. È finita infatti l’epoca dei protagonismi interpretati da gente che persegue il proprio interesse o dà sfogo alla propria vanità. La crisi che viviamo richiede un altro atteggiamento. E la vicenda della Costa Concordia ci mostra quale.