Opinioni & Commenti
Con don Zeno sul crinale tra fede e passione civile
di Franco Vaccari
Vorreste un padre cromosomico, che si dimentica di voi, o uno di adozione che si prende cura della vostra vita piegando la sua alla vostra, trovandovi anche una mamma e altri 5000 fratelli? Se la risposta si orientasse alla seconda opzione avreste scelto come padre Zeno Saltini, classe 1900, operaio a 14 anni, deciso a «cambiare civiltà in se stesso» a 20, laureato a 29, prete a 31 e, in contemporanea, padre adottivo di Danilo «Barile», primo figlio, uscito dal carcere di Carpi (Modena). Celibe, la sua vita compie il salto di qualità quando incontra una donna, Irene, 18 anni, che scappa di casa per fare da madre ai figli che don Zeno raccattava nelle zone degli scarti sociali, diversi e sempre uguali nel susseguirsi dei decenni del secolo scorso. Con lui molte altre donne sceglieranno di essere madri di vocazione: insieme daranno vita a Nomadelfia, un pezzo di umanità dove la fraternità è legge.
Quel 15 gennaio 1981, trent’anni fa, la società italiana e la Chiesa mettevano a dimora nella terra un seme prodigioso. Nella morte di don Zeno ci piace vedere l’opera di Dio così: un contadino che non macina tutto il frumento, ma ne lascia un po’ per la semina, per il pane futuro. Infatti, ripensare a don Zeno Saltini fa bene. Stare con lui sul crinale tra chiesa e società, tra evangelizzazione e «apostolato sociale», tra ardore di fede e passione civile, tra inquieta sperimentazione delle forme e serena e pacifica consapevolezza dell’azione di giustizia, ferisce la nostra coscienza e risveglia energie spirituali. Renderlo presente alla nostra mente pulisce lo sguardo da inganni ricorrenti, come quello della falsa coscienza di essere in chissà quale singolarissimo tragico periodo della storia. Nel ’37 don Zeno scrive degli anni ’20: «la religione veniva presa in dispregio da una massa informe che voleva ignorare e che finì per ignorare il Vangelo, la politica era una diatriba, alla Camera volavano persino le sedie: tutto segnava divisione e pareva terribile preludio di una catastrofe».
«Fossi un santo!», si ripeteva tra le lacrime già all’inizio della sua vocazione: impossibile la malinconia o la nostalgia davanti a un emiliano così. Come davanti a tutta quella gran bella gente che decise e decide negli anni di seguirlo.
Ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare don Zeno e Nomadelfia soprattutto a La Verna, dove era stata aperta una sorta di «succursale». Con altri giovani salivamo ogni domenica per stare con i bambini e giocare, strappati dalle nostre domeniche vagabonde da un altro prete. Accanto al focolare, quando don Zeno era lì, parlava con fare tranquillo e sorridente. Nulla era banale e tutto era semplice: capivamo che nella vita non si può sciupare il tempo. Con Mino, mamma Elis e tutti gli altri, non traspariva mai nulla delle loro fatiche di essere accettati, dei dileggi, delle persecuzioni. Un eroismo così quotidiano che ce ne siamo accorti dopo.
Mamma Norina un giorno mi raccontò il suo dialogo con don Zeno quando gli espose l’intenzione di seguirlo come mamma di vocazione: «Prese un fazzoletto, ne fece una pallina e lo buttò in un angolo della stanza. Mi chiese di raccoglierlo e consegnarglielo. Subito dopo gettò la stessa pallina in un’altra direzione. E ugualmente la raccolsi. Così per altre due o tre volte. Alla fine, con un sorriso, fissandomi negli occhi mi disse: se pensi di essere quella pallina nelle mani di Dio e pensi di star bene e divertirti con lui, allora sei pronta a fare la mamma di vocazione».
Colloqui di santi poco importa se presenti nel calendario! Ricordando don Zeno, l’importante è alimentare il desiderio e il compito di praticare qualcosa di quei dialoghi che feriscono perché introducono all’amore.