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Comunità musulmane: «Siamo noi le prime vittime»

La parola d’ordine all’indomani dell’attentato a Parigi è non spezzare le catene della coesione sociale, puntando il dito dell’odio contro chi è innocente e non c’entra nulla. Le comunità musulmane in Francia ma anche in Italia sono sconvolte. Strette nel dolore per le vittime, chiedono, anzi implorano di non fare generalizzazioni: il terrorismo non nasce in moschea. Si diffonde per canali che sono fuori dalla portata di imam e centri islamici. Viaggia per Internet, si propaga per intrighi internazionali. Quello che il mondo religioso può fare è condannare l’odio e la violenza senza mezzi termini e continuare a lavorare per il dialogo.

«Siamo le prime vittime», esordisce Youssef Sbai, imam di Massa Carrara e vice presidente dell’Unione delle Comunità islamiche in Italia (Ucoii). «Il poliziotto che è stato freddato dalla mano ferma del terrorista – aggiunge subito – era musulmano. Questo significa che i terroristi non guardano in faccia nessuno. Loro agiscono inseguendo obiettivi criminali. Non c’è altro termine per definirli». Ma oggi, all’indomani di un attentato che in nome del profeta Maometto ha fatto una strage nella redazione di un giornale, un’ombra oscura di sospetto avvolge in Europa il mondo dell’immigrazione musulmana. «Il problema – interviene subito l’imam – non è la presenza dell’Islam o delle moschee. Il problema è che si sta diffondendo una cultura dell’odio. La diffondono persone che rifiutano il dialogo, che si presentano come credenti musulmani ma non lo sono affatto. Sono persone che perseguono un’agenda criminale ben precisa. Questa cultura assolutamente non si diffonde nelle moschee. Trova altri canali, tra tutti Internet. Non si diffonde per mezzo di religiosi ma attraverso canali che sono fuori dalla nostra portata». Si tratta di un universo parallelo che viaggia per «intrighi internazionali. Saranno gli analisti ad individuare da chi è popolato e soprattutto come fermarlo».

Due sono le cose che invece si possono fare a livello di moschee: «primo – dice Sbai – invitare gli imam a condannare sempre, con coraggio e senza mezzi termini, simili azioni e poi diffondere con i sermoni una cultura del dialogo, di apertura all’altro, vincendo la presunzione di sentirsi superiori all’altro di avere la verità assoluta». L’Ucoii, da parte sua, garantisce la sicurezza delle associazioni e dei centri islamici che ne fanno parte perché «li conosciamo, abbiamo con tutti un canale diretto e soprattutto organizziamo periodicamente incontri di formazione per imam. Sono anni che l’Ucoii fa questo lavoro, sono anni che promuoviamo e aderiamo ad incontri di dialogo. Purtroppo è una storia di convivenza attiva poco conosciuta. Varrebbe la pena, soprattutto in questi momenti, conoscerla e raccontarla».

«Quanto è successo ieri a Parigi è grave, è il segno di un’umanità perduta». Esprime parole cariche di dolore Shahrazad Houshmand, teologa musulmana e docente di studi islamici in diverse università italiana. «Sicuramente – aggiunge – la povertà, l’ignoranza, lo stato di emarginazione sociale preparano un terreno fertile perché la violenza cresca e si alimenti. Non è una cosa nuova. Ma la soluzione va cercata insieme. Non è compito di alcuni!». La professoressa chiama in causa «i maestri e i saggi» della società. «Ci sono in Francia – argomenta – 5 milioni di musulmani, altrettanti in Germania. In Italia i musulmani sono circa un milione. Non può essere un problema da trascurare. Non possiamo limitarci a condannare. Ogni abuso come ogni malattia ha radici profonde e radicate. Raduniamo allora tutti i saggi e i maestri della società perché insieme trovino delle soluzioni. Laddove l’integrazione è riuscita, le politiche migratorie sono seguite con giustizia, e l’istruzione è favorita, questi abusi muoiono sul nascere».

Anche la professoressa teme che quanto accaduto a Parigi possa scatenare un’onda di violenza e odio contro i musulmani. «Sarebbe gravissimo perché per decenni i musulmani in Europa hanno vissuto in pace, hanno lavorato, hanno contribuito alla vita dei Paesi che li hanno accolti. Non è giusto che ora si punti il dito contro una popolazione innocente e operosa. Condannare ingiustamente un intero popolo non conduce da nessuna parte, anzi rischia di generare aggressione su aggressione. Se chi non ha fatto nulla di male, viene condannato o giudicato ingiustamente, prima o poi diventerà un musulmano aggressivo. Si genera una società di odio ed è proprio quello che oggi dobbiamo evitare».