Cultura & Società

Compie cinquant’anni la Cep, il primo computer made in Italy

di Caterina Guidi

Alla presidenza del Consiglio c’era Antonio Segni, e Giovanni XXIII dava l’annuncio del prossimo Concilio. Moriva don Luigi Sturzo e il romanzo di Pasolini «Una vita violenta» suscitava aspre polemiche. Dall’altra parte del mondo Fidel Castro era nominato primo ministro del governo provvisorio cubano, mentre il Dalai Lama fuggiva dal Tibet all’India e – negli Stati Uniti – veniva commercializzata la prima Barbie. Era il 1959 e a Pisa tirava un’aria un po’ diversa. L’Università lavorava alla realizzazione del primo computer interamente italiano.

Così, nel 2009, compie 50 anni la Cep, calcolatrice elettronica pisana. La ricorrenza è stata fissata a metà fra la nascita del primo prototipo, nel 1957, e l’inaugurazione vera e propria del calcolatore, nel 1961, alla presenza del Presidente Gronchi. Il Cnr ha festeggiato la ricorrenza con due giorni di incontri e conferenze.

A Pisa, nei locali dell’Area delle Ricerche e al Museo delle macchine per il calcolo – dove la Cep abita da diversi anni – si sono così avvicendati i testimoni diretti di quell’avventura e gli studiosi di oggi. Il progetto nacque qualche anno prima, nel ’54, quando in Italia cominciavano a diffondersi i primi apparecchi televisivi. E all’origine di tutto ci furono gli enti locali: le province e i comuni di Pisa, Lucca e Livorno misero infatti a disposizione dell’ateneo pisano 150 milioni di lire, una cifra considerevole per l’epoca.

L’idea originaria era quella di costruire un elettrosincrotrone, un acceleratore di elettroni. Invece quel progetto se lo aggiudicò l’università di Roma, grazie a uno stanziamento record di 400 milioni. E allora? Come utilizzare il patrimonio a disposizione in Toscana? I professori Marcello Conversi e Giorgio Salvini, dell’Istituto di Fisica, chiesero consiglio niente di meno che a Enrico Fermi, il quale non ebbe dubbi: «costruite una calcolatrice elettronica». Certo non si trattò proprio di uno strumento portatile, né tascabile: la superficie occupata dalle diverse unità è pari circa a quella di un campo da tennis, e le strutture raggiungono l’altezza di un grosso armadio. I risultati si ottenevano su carta; una mole di transistor e valvole, con una memoria di 8 kilobyte – un decimillesimo di un moderno computer portatile –, in grado di effettuare 70mila addizioni al secondo.

«Fu il simbolo della creatività e dell’ingegno che alla fine degli anni Cinquanta animava il nostro Paese, rendendolo capace di competere ai massimi livelli sul piano sia scientifico sia tecnologico», ha commentato Claudio Montani, direttore dell’Area Cnr di Pisa. In effetti il decennio fu fertile in campo tecnologico e culturale, e preparò il boom degli anni Sessanta. Capire però che il futuro era nel calcolatore e che lì bisognava investire, non fu cosa scontata. E la strada tracciata dai ricercatori pisani si incontrò con la produzione industriale: la Olivetti – che in quegli anni era sulla cresta grazie alla realizzazione della macchina per scrivere lettera 22 e della calcolatrice elettrica divisumma 24 – intuì la portata del progetto e, a partire dalla Cep, realizzò a Pisa l’Elea 9003, il primo calcolatore elettronico introdotto sul mercato mondiale, presentato alla Fiera di Milano in quello stesso 1959. Enti locali, ricerca e industria si mossero in armonia, per commercializzare un prodotto che, nel corso degli anni, ha cambiato davvero la vita quotidiana. Sfortunatamente la collaborazione a questo progetto durò poco, esaurendosi sostanzialmente con la morte di Adriano Olivetti, qualche anno più tardi.

Quel periodo però ha lasciato discendenti importanti: negli anni Sessanta l’Università di Pisa istituì il corso di laurea in Informatica, il primo in Italia, ancor oggi uno dei più prestigiosi. Non solo: sorsero in città due centri di calcolo elettronico – il Centro studi calcolatrici elettroniche (Csce) e il Centro nazionale universitario di calcolo elettronico (Cnuce) – più tardi confluiti nel Cnr. Il cammino della ricerca tecnologica va avanti e la Cep – nata per macinare numeri 24 ore su 24 – ora riposa e dà mostra di sé in un museo.

Celebrazioni per fare memoriaCelebrare uno strumento elettronico per la sua età farebbe forse orrore a tante riviste che si trovano in edicola. Ma le celebrazioni servono innanzitutto per fare memoria. E non si può non ricordare la realizzazione della Cep, la collaborazione fra enti, università e industria, il grande sapere che traspariva da questo progetto. Così l’11 giugno è stato il momento della storia del progetto, ricostruita attraverso le testimonianze e le ricerche più recenti. Il 12 mattina c’è stato spazio per dare un’occhiata al futuro, alle prospettive di ricerca e alla situazione delle scienze informatiche in Italia. Assieme al ricordo e alla riflessione, però, emerge anche un po’ di amarezza. Lo racconta a Toscana Oggi il professor Gianfranco Capriz, classe 1925, chiamato nel 1962 dall’Inghilterra – dove lavorava – per dirigere il Csce: «i fondi del finanziamento stavano finendo; in più c’erano delle dispute intorno all’utilizzo dei nastri magnetici e il professor Conversi si era trasferito a Roma». Insomma il lavoro andava avanti fra difficoltà e carenze, in una città abituata a produrre cervelli, priva però di una vera vocazione industriale. «La Cep era il germe di un grande futuro – continua Capriz – , ma allora era difficile intuirlo. Non lo sapeva con certezza neppure Fermi che suggerì la realizzazione. A questa impresa di grande valore mancava però un ambiente industriale che potesse sostenerla. Il governo assistette immobile al declino della Olivetti e alla chiusura dei laboratori e città era indifferente al problema».