Opinioni & Commenti
Come può essere definita e chi può rimuovere la scomunica ai mafiosi?
Quando non si adora Dio, il Signore, si diventa adoratori del male, come lo sono coloro i quali vivono di malaffare e di violenza… La ’ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato! Bisogna dirgli di no!.. Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!». Sono parole di Papa Francesco del 21 giugno scorso. So che nella Chiesa esistono diverse forme di scomunica. Quella inflitta dal Papa ai mafiosi come può essere definita? E soprattutto può un semplice confessore rimuoverla con l’assoluzione o lo può fare solo la Santa Sede?
Lettera firmata
Il chiarimento che il lettore desidera avere sul concetto giuridico di «scomunica» richiederebbe di doverci soffermare su molti argomenti presenti nel Libro VI del Codice di Diritto Canonico (canoni 1311-1399) che, appunto, si intitola «Le sanzioni nella Chiesa». È necessario in questa sede dare una risposta sintetica, per quanto possibile, chiara, esauriente e alla portata di tutti.
Le parole che il Papa Francesco ha fatto risuonare nella recente visita apostolica in Calabria, di per sé, non avrebbero bisogno di alcun commento per il loro alto significato morale, ma, nondimeno, per l’immediatezza e la forza con cui le ha pronunciate, tese a raggiungere e scuotere le coscienze di tutti, principalmente di coloro che vivono e agiscono in questa gravissima condizione di peccato, ma anche di coloro che patiscono a livello personale o sociale le conseguenze di un male così radicato, per far loro sentire che tutta la Chiesa è presente e ne condivide le sofferenze nell’aiutarli a portare i pesi.
Come punto di partenza è necessario che sia chiara la differenza tra peccato come tale e delitto. Il peccato comporta una imputabilità morale e si configura come trasgressione di una legge divina o canonica. Così può essere considerato soltanto peccato, e realmente lo è, trasgredire anche uno dei dieci comandamenti del Decalogo oppure non soddisfare il precetto festivo della Messa ecc.
Questi peccati ancora non hanno nulla a che vedere con il delitto. Infatti, il delitto comporta una imputabilità giuridica e – secondo la definizione data dal Codex 1917 (can. 2195) – è la trasgressione di una legge cui è annessa una pena, anche solo indeterminata, includendo l’elemento soggettivo del dolo, salvo anche alcuni casi di delitto colposo previsti dalla legge (Codex 1983, can. 1321 §2).
Dopo questo chiarimento diventa più facile capire cosa sia una scomunica. Le conseguenze della scomunica elencate al can. 1331, paragrafi 1 e 2, rendono ben chiaro a tutti che essa è una pena che comporta l’esclusione dalla comunione ecclesiale, nella sua compagine visibile di corpo giuridico-sociale acquisita mediante il battesimo (can. 96). La pena della scomunica non incide direttamente sull’unione con il Corpo mistico in cui si realizza la Comunione dei Santi, ma è altrettanto chiaro che la grave responsabilità morale e il peccato grave compromettono in diversa misura l’unione mistica con la Chiesa e quindi anche con Cristo.
La scomunica è una pena (can. 1331) definita anche «pena medicinale» perché ha come unico fine di portare il reo a recedere dalla contumacia, cioè di aiutarlo a ravvedersi. Per sua stessa natura e finalità la scomunica non è una pena perpetua perché viene rimessa non appena lo scomunicato dà prova di conversione, anche con la riparazione del danno e dello scandalo (cann. 1358 §1; 1347 §2).
L’atto di scomunica è lungi dall’essere considerato come un provvedimento di disonore pubblico, bensì rappresenta la sollecitudine del Pastore per il suo gregge dove un membro malato deve essere curato, mentre quello sano deve essere protetto quando è esposto al rischio di contagio della malattia.
Un ulteriore elemento a riprova della finalità medicinale della scomunica, e delle censure in genere, è dato per la sua validità dall’ammonizione di recedere dal comportamento delittuoso che deve essere sempre fatta prima dell’irrogazione della pena, quando si tratta di censure del tipo «ferendae sententiae», fissando uno spazio di tempo sufficiente perché il reo possa emendarsi.
Uno tra i diritti fondamentali dei fedeli è che «essi hanno il diritto di non essere colpiti da pene canoniche se non a norma di legge» (can. 221 §3). Si tratta di un diritto fondamentale ispirato dal principio di legalità della pena già conosciuto dal diritto romano (Digesto 50,16,131 I) e riassunto nelle formule «nullum crimen, nulla poena sine praevia lege». Detto con parole più semplici se non esiste una legge (o un decreto), che, indicando un determinato comportamento, ne stabilisca anche la pena in caso di trasgressione, non si può ancora parlare di delitto imputabile.
Nel 1952 il secondo Concilio Plenario Siculo – che in quanto concilio plenario, ha potestà legislativa per il proprio territorio (can. 290 Codex 1917; can. 445 Codex 1983) – recependo il contenuto del documento del 1944, individua con più chiarezza i delitti che sono tipici della mafia e la pena prevista includendo anche i mandanti e i cooperatori, ma senza ancora pronunciare in modo esplicito la parola «mafia»: «Coloro che operano rapina o si macchiano di omicidio volontario, compresi mandanti, esecutori, cooperatori, incorrono nella scomunica riservata all’Ordinario».
Dovremo attendere il 1982, dopo l’uccisione del Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, quando la Conferenza Episcopale Siciliana confermando le precedenti scomuniche ne individua esplicitamente la matrice mafiosa. «A seguito del doloroso acuirsi dell’attività criminosa che segna di sangue e di lutti la nostra regione, i Vescovi, in forza della loro responsabilità di pastori, riaffermano la loro decisa condanna sottolineando la gravità particolare di ricorrenti episodi di violenza che spesso hanno come matrice la mafia e la nefasta mentalità che la muove e la facilita».
Nella «nota» di Novica che accompagnava il suddetto documento, venivano delineate le conseguenze della scomunica: «la condizione di scomunicato emergerà quando l’autore di uno dei due delitti si accosterà alla confessione per essere assolto dal peccato: il sacerdote lo informerà che non può assolverlo in quanto colpito da scomunica che i vescovi hanno riservato a se stessi, dalla quale, cioè, soltanto loro possono assolvere».
Due elementi sono da evidenziare: si tratta di scomunica «latae sententiae» che colpiscono i delitti commessi nel territorio posto sotto la giurisdizione dell’Autorità che ha promulgato la legge penale, cioè le Chiese particolari della Sicilia.
La remissione di questa pena è riservata al Vescovo diocesano o a un sacerdote cui ha delegato la facoltà di assolvere.
La novità che emerge dalle parole pronunciate da Papa Francesco è l’esplicita condanna del comportamento mafioso con la commissione individuale di determinati atti criminali tipici della mafia, e non solo, ma anche la stessa appartenenza all’organizzazione mafiosa: «…Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati…».
Il Papa vuole sottolineare che, oltre alla commissione di specifici delitti, è l’esser di per se stesso un mafioso che costituisce un delitto e necessita di una pena. Si tratta di delitti che hanno un grave risvolto sociale: «coloro i quali vivono di malaffare e di violenza… disprezzo del bene comune», «interesse personale e sopraffazione», ma sono anche delitti contro la religione come il delitto di idolatria e di apostasia, cioè la «adorazione del male». Infatti, aggiunge il Papa, «Quando all’adorazione del Signore si sostituisce l’adorazione del denaro, si apre la strada al peccato».
Il Papa in un unico discorso pronunciato in Calabria coniuga nello stesso atto di condanna sia la ’ndrangheta che la mafia come a voler dire che si tratta di piaghe che non conoscono cittadinanza e che sono lo stesso male che potrebbe chiamarsi anche camorra o sacra corona unita ecc.
Papa Francesco non mette solo in evidenza il peccato grave in cui si trovano i mafiosi, per i quali «un giorno ci sarà il giudizio di Dio». Egli dice che già da ora questa condizione di peccato dei mafiosi è un vulnus per la comunione con la Chiesa: «non sono in comunione con Dio», ma le parole che pronuncia subito dopo in senso rafforzativo: «sono scomunicati!», vogliono significare che non allude solo alla comunione mistica a motivo del peccato, indicando anche quale sia il delitto che comporta la scomunica, cioè l’idolatria, l’adorazione del denaro che prende il posto dell’adorazione per il Signore ecc. ecc.
A conclusione di quanto abbiamo scritto dobbiamo richiamare le premesse di questa esposizione: la pena di scomunica necessita di un testo legale, cioè una legge (o un decreto) penale emanata in forma scritta e promulgata dalla competente autorità munita di potestà legislativa, ove è determinata la fattispecie delittuosa, il tipo di pena, «latae sententiae» o «ferendae sententiae», l’autorità che la può irrogare e rimettere, il tempo di prescrizione ecc.
La scomunica per i delitti di mafia che i Vescovi della Sicilia hanno deciso di comminare a coloro che se ne macchino, è una legge penale particolare che proviene dalla loro potestà legislativa e che ha forza solo nell’ambito delle Chiese particolari della Sicilia dove quei Vescovi diocesani esercitano la loro giurisdizione.
Ormai il fenomeno mafioso nei molteplici aspetti e nelle diverse nomenclature è molto diffuso e va oltre i confini della Sicilia e dell’Italia stessa fino a radicarsi in territori una volta insospettabili e in tutti gli ambiti legati soprattutto al potere economico: mercato della droga, sfruttamento della prostituzione, vari tipi di racket dall’usura al pizzo fino alle onoranze funebri, edilizia, attività commerciali, infiltrazioni nella vita politica e gestione del potere a livello locale e nazionale ecc. ecc. In questo senso assume grande rilievo che il Papa Francesco, in quanto legislatore universale, abbia ben delineato i comportamenti delittuosi della mafia e della ’ndrangheta e annunciato la scomunica per i mafiosi.
Ciò che appare evidente è che l’intervento del Papa, in alcuni passaggi pronunciati anche a braccio, vede ogni associazione malavitosa assimilata a quella di mafia e di ’ndrangheta, come un’unica categoria da condannare senza limiti o differenziazioni territoriali.
Non sarebbe comprensibile che un delitto di stampo mafioso nelle Diocesi della Sicilia venga punito con la scomunica, mentre se commesso in un’altra regione possa restare indifferente alla pena non essendoci una stessa sanzione canonica.
Questo vuoto normativo a livello universale lo si può comprendere con la difficoltà che si è avuto nel conoscere i meccanismi con cui il malaffare legato a questa tipologia di associazioni criminali abbia potuto insinuarsi e radicarsi in tutti i gangli della società, ovunque, sia dal punto di vista territoriale nazionale e internazionale che da quello del coinvolgimento di persone insospettabili anche moralmente, a volte espressione di livelli istituzionali più alti della Stato.
All’ultima domanda del Lettore, cioè quale forma di scomunica possa essere «quella inflitta dal Papa ai mafiosi e se può un semplice confessore rimuoverla con l’assoluzione o lo può fare solo la Santa Sede», dobbiamo rispondere che sarà necessario leggere il testo della legge penale quando sarà promulgata. Dovremo sapere se si tratti di pene «latae sententiae», o pene «ferendae sententiae», se riservate alla Sede Apostolica oppure all’Ordinario che ha promosso il giudizio oppure all’Ordinario del luogo ecc..
In ogni caso anche il confessore gode di particolari facoltà nel foro interno sacramentale (can. 1354). Inoltre, in pericolo di morte qualsiasi sacerdote anche privo della facoltà di ascoltare le confessioni, assolve validamente e lecitamente da qualsiasi censura o peccato, anche se sia presente un sacerdote approvato (can.976). Naturalmente, superato il pericolo di morte, colui che fu assolto da una censura inflitta o dichiarata oppure riservata alla Sede Apostolica, e anche nei casi previsti fuori dal pericolo di morte (can. 1357 §1), è tenuto all’onere del ricorso all’Autorità competente entro un mese sotto pena di ricaduta nella censura (can.1357 §§2-3).
Francesco Romano