Toscana
Come cambia la povertà, forum in redazione
Al «forum» organizzato nel pomeriggio di martedì 6 luglio presso la sede fiorentina del settimanale e coordinato dal direttore Andrea Fagioli, hanno preso parte l’arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori, il prefetto di Firenze, Andrea De Martino, il rettore dell’Università di Firenze, Alberto Tesi, il vice-sindaco di Firenze, Dario Nardella, l’assessore provinciale fiorentino alle politiche sociali, Antonella Coniglio, il sindaco di Empoli Luciana Cappelli, il sindaco di Bagno a Ripoli, Luciano Bartolini e il presidente della Comunità montana del Mugello, Stefano Tagliaferri. Hanno introdotto i lavori il direttore della Caritas di Firenze, Alessandro Martini e il coordinatore scientifico dell’Osservatorio delle povertà, Annalisa Tonarelli. Ecco una sintesi del dibattito.
In 9 mila ai Centri: percorsi sempre più simili tra gli italiani e gli stranieri
Nel 2009 si sono presentati quasi in 9 mila ai 52 Centri di ascolto della Caritas di Firenze. Nella metà dei casi erano uomini stranieri. Ma in quattro anni le donne italiane sono aumentate del 349%, passando da 102 a 458. Adesso gli italiani raggiungono complessivamente il 14% del totale. Nel 2006 erano attorno al 10%.
Ma quello che più colpisce, ha spiegato Annalisa Tonarelli, coordinatore scientifico dell’Osservatorio delle povertà e delle risorse del Dipartimento di scienza della politica e sociologia dell’Università di Firenze, che elaborato i dati dei Centri di ascolto, è che i percorsi degli italiani e degli stranieri che bussano alle porte della Caritas si assomigliano sempre di più.
E l’altro dato che emerge è l’estrema precarietà della condizione sociale. «Non si è tanto ricchi o poveri, ma si può essere alternativamente nel corso dell’esistenza sia l’uno che l’altro». Si registra una crescente vulnerabilità di fasce sociali considerate fino a pochi anni fa al sicuro. Prima si presentavano soprattutto i casi estremi: persone senza fissa dimora, senza lavoro, con marginalità gravi. Oggi arrivano anche tante donne, inserite in una famiglia con presenza di figli, con situazioni abitative normali, come una casa in affitto (nel 62% dei casi tra le donne italiane ma anche nel 44,7% tra le donne straniere). Cominciano a comparire anche uomini e donne che una casa di proprietà ce l’hanno e magari non riescono più a pagare la rata del mutuo.
Per quanto riguarda l’età, si nota ovviamente una maggiore presenza di giovani tra gli stranieri, ma con l’andare del tempo tende ad aumentare l’età alla quale gli immigrati arrivano in Italia: se nel 1985 era di 25 anni circa, oggi è attorno ai 30. Gli stranieri hanno in genere anche un livello di istruzione più alto: tra le donne, ad esempio, oltre il 50% ha almeno la licenza di scuola superiore (mentre le italiane non arrivano al 30%), con un 11,6% di diplomate e un 9,4 di laureate contro appena il 3,5% delle italiane. Ma colpisce anche un 13,3% di analfabeti tra gli stranieri e un 4,7% anche tra le donne italiane.
Tre le comunità più numerose tra gli stranieri: quella rumena (20%), ormai presente da diversi anni, così come quella peruviana (17%) a cui si è andata ad aggiungere nelle ultimissime rilevazioni quella somala (17%). Altre, come quella albanese (4%) e marocchina (10%), sono sempre consistenti anche se con percentuali decisamente più contenute di prima. Da sottolineare come nel 60% di casi questi immigrati disponessero, a momento del primo ascolto, del permesso di soggiorno. Interessante anche la composizione per genere: tra i somali sono al 90% uomini. All’opposto, l’87% degli ucraini erano donne.
Il modo di approcciarsi al Centri di ascolto è stato definito dalla Tonarelli come «carsico»: c’è in genere un primo contatto, poi passa del tempo, anche abbastanza lungo, e la persona si riaffaccia al Centro. Nel 50% dei casi si presentano solo una o due volte in un anno. Per un quarto dei casi invece si va dalle 3 alle 5 visite.
Le richieste sono soprattutto di tipo economico. Al primo posto nonostante che per statuto i Centri di ascolto non possano occuparsi direttamente di questo il lavoro, che non c’è, oppure che è precario, intermittente o insufficiente. Gli stranieri hanno competenze lavorative più elevate, ma che non siamo in grado di valorizzare. Il 60% degli ucraini e il 48% dei bulgari avevano impieghi qualificati nei loro paesi d’origine. Al contrario, il 65% di eritrei o rumeni svolgevano un lavoro non qualificato.
Tra le richieste seguono quelle di alimenti, o di un aiuto alla spesa quotidiana, problematiche abitative, familiari o di istruzione. Ma soprattutto queste persone chiedono di essere aiutate ad orientarsi tra i possibili servizi che il territorio offre.
C.T.