DI Angelo Comastri Presidente della Fabbrica di San Pietro Vicario generale del Santo Padre per la Città del VaticanoIl Santo Padre Benedetto XVI, al termine dell’omelia della Messa esequiale per Giovanni Paolo II, pronunciò queste toccanti parole: «Possiamo essere sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla finestra della casa del Padre, ci vede e ci benedice. Sì, ci benedica, Santo Padre!». È trascorso un anno da quando fu pronunciata questa vibrante invocazione e noi possiamo testimoniare che la benedizione di Giovanni Paolo II ha accompagnato il cammino della Chiesa, che egli ha amato fino all’ultima briciola delle sue forze e fino all’ultimo istante della sua vita. Abbiamo tutti ancora davanti agli occhi le immagini della fase conclusiva della vita del Servo di Dio Giovanni Paolo II: sono immagini nelle quali tutti abbiamo intravisto i bagliori dell’eroismo, il profumo della carità, il timbro della santità. Nella Lettera Apostolica Salvifici doloris, sbocciata dentro l’esperienza drammatica dell’attentato, Giovanni Paolo II si era espresso così: «Chiediamo a voi tutti, che soffrite, di sostenerci. Proprio a voi, che siete deboli, chiediamo che diventiate una sorgente di forza per la Chiesa e per l’umanità. Nel terribile combattimento tra le forze del bene e del male, di cui ci offre spettacolo il nostro mondo contemporaneo, vinca la vostra sofferenza in unione con la Croce di Cristo!» (S. D., VIII). Questa lettura di fede del mistero del dolore, Giovanni Paolo II l’ha vissuta davanti al mondo intero e ce l’ha lasciata come prezioso testamento. Chi può dimenticare la Domenica delle Palme dell’anno 2005 quando, al momento dell’Angelus, egli volle affacciarsi alla finestra del suo studio, con il volto sofferente e la gola tormentata dalla tracheotomia? Cercò in tutti i modi di dare voce ai sentimenti che aveva nel cuore, ma le labbra rimasero mute. Allora il Papa, con un gesto che valeva un’enciclica, agitò lungamente il ramoscello di ulivo che gli avevano posto in mano: era la sua muta omelia… indimenticabile! E, infine, il Venerdì Santo (l’ultimo Venerdì Santo!) sarà per sempre e per tutti il ricordo di due Via Crucis, che noi abbiamo visto sovrapporsi con il prodigio della contemporaneità reso possibile dalla fede. Giovanni Paolo II sostava nella Cappella del suo appartamento: era curvo, immobile, con la fronte appoggiata al Crocifisso, che teneva stretto con le sue fragili mani come una roccia, alla quale si aggrappava per piantarvi la sua personale croce. Il mondo si commosse. E, forse, cominciò a capire che la malattia del Papa non era un limite per il governo della Chiesa, ma era una meravigliosa risorsa. Sono sicuro che in quei momenti la Chiesa percepì la santità del Papa, colse la verità dei suoi insegnamenti, vide le parole diventate vita: e gioì, così come si gioisce quando si scopre che un oggetto impolverato è un’opera d’arte d’immenso valore. E quando il Papa spirò nella tarda serata del 2 aprile, tutti quelli che si trovavano accanto a lui intonarono il Te Deum. J. Navarro Valls, portavoce della Santa Sede, ha detto: «Le suore, il segretario e i pochi altri presenti lo hanno fatto spontaneamente per ringraziare Dio di quegli ottantaquattro anni così fecondi». E il giorno del funerale sembrò che un vento pentecostale desse suggello ai sentimenti di tutti. Sulla bara, che raccoglieva le venerate spoglie del Papa, defunto, il Vangelo aperto era stato collocato come una carta di identità che tutti potevano leggere. Ma il vento cominciò a sfogliare le pagine. Le spingeva in una direzione e poi nell’altra, quasi per farci rivedere la vita del Discepolo nella vita del Maestro. E, alla fine, una folata decisa chiuse il libro davanti alla sguardo attonito dei presenti. Era un invito chiaro: «Ora tocca a voi! Riprendete in mano il Vangelo e fatelo diventare vita con la stessa passione, con la stessa dedizione e con la stessa fedeltà che avete visto diventare vita in Giovanni Paolo II». Ero presente in quel momento: ed ebbi un sussulto quando vidi l’Evangeliario… chiuso dalla mano del Vento. Mi venne in mente l’Enciclica Redemptoris missio. Tornato a casa, la aprii e lessi le prime parole: «La missione di Cristo Redentore, affidata alla Chiesa, è ancora ben lontana dal suo compimento, Al termine del secondo millennio della Sua venuta, uno sguardo d’insieme all’umanità dimostra che la missione è ancora agli inizi e che dobbiamo impegnarci con tutte le forze al suo servizio. E lo Spirito che spinge ad annunciare le grandi opere di Dio: «Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è per me un dovere! Guai a me se non predicassi il Vangelo!» (I Cor 9, 16). A nome di tutta la Chiesa, sento imperioso il dovere di ripetere questo grido di San Paolo» (R. M., 1). Chiusi il testo dell’Enciclica e improvvisamente mi passarono davanti le scene dei viaggi missionari di Giovanni Paolo II: quanto aveva camminato, quanto aveva faticato, quanto aveva parlato, quanto aveva testimoniato! Mi commossi e sommessamente ripetei le parole che, nel segreto del cuore, avevo sentito in Piazza San Pietro durante il funerale: «Ora tocca a voi!». Credo che tanti, veramente tanti, abbiano avvertito che la morte di Giovanni Paolo II era un evento pentecostale: era un’inondazione di Grazia, era un fremito che attraversava la Chiesa e il mondo. Ed è subito cominciato il pellegrinaggio alla tomba del Papa. Quanta gente ho visto passare in questo anno! Quante preghiere ho sentito sussurrare attorno alla tomba! Quanti biglietti sono stati gettati, come petali, per invocare l’intercessione di colui che la coscienza di tutti ha immediatamente percepito come «anima grande», «servo fedele», «amico di Dio»! Nel tardo pomeriggio dell’estate scorsa ricordo benissimo l’episodio due ragazze si presentarono nel mio ufficio per chiedermi di essere riaccompagnate nell’itinerario che va verso la tomba del Papa: avevano smarrito il cellulare e pensavano che fosse caduto nel percorso. Cercammo diligentemente, ma non trovammo l’oggetto smarrito. Allora le due ragazze si fermarono lungamente in ginocchio davanti alla tomba del Papa: l’accesso era chiuso e, pertanto poterono gustare la bellezza del silenzio e l’emozione dell’intimità. Si rialzarono e mi dissero: «Non ci importa più del cellulare: abbiamo avuto di più, abbiamo avuto un dono più grande. Grazie!». E si allontanarono felici: avevano smarrito un oggetto, ma avevano trovato una presenza! Giovanni Paolo II continui a benedirci dal Cielo e continui a sfogliare il Vangelo di Gesù davanti ai nostri occhi, affinché il cuore si accenda e la voce prenda il timbro della voce di Cristo. Il mondo ha bisogno di questo! E lo dico con animo sincero una particolare benedizione voglia dare alla sua cara Polonia: egli è figlio della fede del popolo polacco, è frutto della storia eroica di quella meravigliosa nazione. La Chiesa e il mondo hanno il dovere di dire: grazie, amatissima Polonia!