Lucca
Coerenza tra il credere e l’agire: confronto con esperienze di vita
In occasione della Giornata del Dialogo Cristiano Islamico il 27 ottobre scorso ha avuto luogo alla Fondazione della Banca del Monte un incontro su «Libertà religiosa, base della convivenza civile. Un unico Dio, una sola umanità», promosso dal Centro diocesano per la Cooperazione Missionaria a conclusione dell’ottobre missionario.
La partecipazione è stata scarsa, nonostante il tema sia di scottante attualità, come è facile capire dall’informazione di stampa e televisione che generalmente porta a una visione parziale e deforme del mondo islamico e che alimenta la paura verso tutto ciò che viene da fuori, i pregiudizi, gli stereotipi e foraggia la ricerca dello scontro e dell’esclusione piuttosto che l’incontro e l’integrazione.
Le reazioni, perfino offensive, rivolte al ministro Kyenge e, per scendere a livello più popolare, i post pubblicati su face book, rivelano una mentalità xenofoba che non ha niente da spartire con quella cristiana né con la civiltà di un popolo. In Italia, secondo i dati di Migrantes gli islamici sono oltre un milione e mezzo; la moschea di Capannori (nella piana lucchese) è frequentata da circa quattrocento musulmani maschi, che dà l’idea della dimensione della presenza islamica nel territorio della nostra diocesi. Alcuni membri lucchesi dei Testimoni di Geova, molto impegnati nell’evangelizzazione, hanno studiato l’arabo per parlare con i musulmani.
Il Dottor Khali Mohammed, presidente dell’Associazione Islamica di Pisa, palestinese, giunto in Italia trent’anni fa per studiare all’ateneo pisano, ha affermato che «la cultura favorisce l’integrazione, ma in questi tempi la cultura è trascurata». Khali ha iniziato il suo intervento augurando a tutti in arabo la pace, una parola che è cara anche al cristiano, e raccontando il suo inserimento nella società italiana, che è stato facile. Egli ha sostenuto l’importanza di creare occasioni di confronto, ma soprattutto di condivisione di progetti che oltrepassano la confessionalità e che creano amicizia e solidarietà, come donare il sangue, il quale non ha «colore» né religione. La fede è scelta interiore che genera comportamenti, che sono comuni, indipendentemente dalla religione. I musulmani desiderano di rendersi utili alla società e di contribuire al bene comune del Paese, in cui hanno trovato migliori condizioni di vita. «Il dono come forma di integrazione; aiuto reciproco» sostiene Khali, e riferisce dell’esperienza ormai consolidata con il Movimento dei Focolari: da anni, famiglie di Focolarini e musulmane condividono esperienze insieme. Infatti, per Focolarini è fondamentale la ricerca dell’unità: un unico Dio, una sola umanità, perché agli inizi fu così e perché Gesù lo ha lasciato come testamento.
È intervenuta, poi, Yassmine Erais, ragazza marocchina, cresciuta in Italia, che da otto anni indossa il velo, il segno esteriore delle donne musulmane che suscita curiosità e reazioni, a volte, perfino offensive. Yassmine ha raccontato di sue conoscenti che hanno subito la derisione a scuola, e lei stessa teme, nonostante stia studiando all’università con notevole profitto, di non trovare lavoro in Italia dopo la laurea. Come responsabile dell’Associazione Giovani Musulmani della Toscana, ha riferito che la sua associazione è molto impegnata nel fare il bene al prossimo.
Molto vivace è stato l’intervento di Marwa Karakri che si è definita musulmana atipica, perché «fedele fervente e femminista convinta, figlia di una musulmana femminista». Studentessa di Giurisprudenza, racconta di essersi mimetizzata come islamica, vestendosi all’occidentale e non indossando il velo, che poi, dall’età di 11 anni (ora ne ha 25), indossa, dopo avere riscoperto il valore della sua religione e della sua identità musulmana grazie alle critiche mosse contro l’Islam, che le ha fatto sentire il bisogno di dare spiegazioni; al Liceo, i professori le chiedevano ogni anno di fare una lezione sull’Islam agli altri studenti. Lei, come Yassmine, ha sempre frequentato l’ora di Religione, perché «io voglio fare di testa mia, senza seguire nessuno» e aggiunge: «L’Islam è un modo di essere, è comportamento e quindi ha una connotazione civile. Il Corano sembra un codice civile, dice che cosa dobbiamo fare in ogni situazione quotidiana». Marwa prosegue: «La mia fede mi aiuta a vivere. Ho la fortuna di essere nata in Italia, e questo mi ha fatto diventare islamica e non marocchina. Quando entro in una chiesa, mi tolgo le scarpe, perché è luogo sacro e io faccio come quando entro in moschea. La religione non deve essere contro la convivenza». Anche per Marwa è importante la testimonianza: «Quando sono entrata in questa sala, ho detto bismillah (nel nome di Dio, N.d.R.), come si dice quando si inizia una qualsiasi azione; rispondendo a chi mi chiede che cosa ho detto, io insegno una parte di me, che è molto più importante che insegnare una sura del Corano».
Ha concluso l’incontro un profugo, in Italia da due anni, nigeriano: Abdul Aliu Raufu Adebayo. In un italiano un po’ stentato, ha raccontato di avere imparato la sua religione dalla madre; ha fatto un confronto fra la Libia, dove si trasferì con la famiglia, prima di venire in Italia: «In Libia, quando cercavo lavoro, mi chiedevano se ero musulmano o cristiano; in Italia non me lo chiede nessuno; quello che conta è il cuore».
Claudia Del Rosso, che ha sostituito don Silvio Righi, direttore dell’Ufficio Missionario, nella moderazione dell’incontro, ha annunciato che nel prossimo futuro saranno pensati percorsi di incontro con le persone di fede musulmana. La condivisione di esperienze è fondamentale: finché l’incontro avviene sul piano teologico o filosofico, culturale, emergono le differenze e le motivazioni della separazione, mentre la compartecipazione a progetti comuni suscita amicizia e fratellanza.