Toscana

Clodette, dal Burundi alla Toscana per fuggire dalla guerra

di Marco Giorgetti

Negli ultimi vent’anni il continente africano ha vissuto sanguinose guerre e conflitti di ogni genere, sul piano civile 18 nazioni africane hanno istituito commissioni per la ricerca della verità ai fini di una riconciliazione, per favorire percorsi  di giustizia e aprirsi ad un futuro fondato non sulla vendetta ma sul perdono. La Chiesa Africana non solo ha incoraggiato il nascere di queste commissioni, ma ha favorito e sostiene con forza una spiritualità e una cultura di riconciliazione. «Ogni vescovo – afferma il messaggio conclusivo del recente Sinodo per l’Africa – deve porre le questioni della riconciliazione, della giustizia e della pace come un’alta priorità nell’agenda pastorale della sua diocesi. Dovrebbe assicurare la creazione di Commissioni di Giustizia e Pace a tutti i livelli. Dovremmo continuare a lavorare sodo nel formare le coscienze e nel cambiare i cuori, tramite una catechesi efficace a tutti i livelli. Questo deve andare oltre il “semplice catechismo” per bambini e catecumeni che si preparano ai sacramenti. Abbiamo bisogno di organizzare un programma di formazione continua per tutti i nostri fedeli, specialmente per quelli che sono in alte posizioni di autorità».

Il Sinodo ha sottolineato anche l’altro aspetto che non può mancare in un percorso di riconciliazione: «In tutto questo, la virtù del perdono è cruciale, anche prima di qualsiasi ammissione di colpa. Il vero perdono promuove la giustizia del pentimento e della riparazione, che conducono a una pace che va alle radici del conflitto e che fanno di quanti erano vittime e nemici, degli amici, fratelli e sorelle».

Dopo anni di guerre e genocidi, massacri innumerevoli di popolazioni indifese, la strada della riconciliazione è l’unica via percorribile verso un futuro di pace.

Proprio una testimone diretta di una delle più atroci guerre etniche africane – una ragazza soldato, che oggi vive in Toscana – attraverso la sua storia ci incoraggia a seguire l’unica via possibile: il perdono.

«I guerriglieri hutu arrivarono con dei camion, fecero irruzione armi in pugno nel liceo di Kibimba, selezionarono circa 400 ragazzi Tutsi tra gli oltre 800 studenti di varie etnie e li bruciarono vivi all’interno di alcune aule scolastiche». Gli occhi di Clodette si abbassano, i ricordi le tornano presenti come se tutto fosse accaduto ieri, invece era il 1993 e la guerra in Burundi tra hutu e tutsi era appena iniziata. «La nostra è stata una delle tante guerre africane dimenticate o volutamente ignorate dall’occidente. Ha avuto maggior risalto mediatico il conflitto etnico in Rwanda, ma anche in Burundi le due fazioni hanno lasciato sul terreno in dieci anni più di 500 mila morti e decine di migliaia tra  feriti e mutilati.

«Sono nata e cresciuta in una famiglia di etnia Tutsi, a quel tempo abitavamo con i miei genitori e dieci tra  fratelli e sorelle a Ngozi ai confini con il Rwanda. Avevo venti anni e come tante ragazze della mia età, un mondo di sogni e speranze dentro al cuore. Ma un giorno, di quello stesso anno, un commando hutu entrò in casa mia. Uccisero mio padre, 2 sorelle e un fratello. Con loro se ne andarono anche i miei sogni e le mie speranze. Mia madre Adele rimase da sola con 7 figli e i primi anni furono veramente difficili; da noi c’è un proverbio che dice: “Una famiglia senza un uomo è come una casa senza le porte: tutti possono entrare”. Abbiamo vissuto nel terrore, con la paura che altri hutu potessero tornare, violentarci o ucciderci tutti».

Sono tante le difficoltà per la famiglia di Clodette ma con grandi sacrifici riesce ad arrivare alla soglia dell’Università. Per entrarvi però, bisogna obbligatoriamente ottemperare al servizio militare che dopo 12 mesi  fornisce il foglio di «congedo», indispensabile per l’accesso a qualsiasi ateneo del Burundi.

«Sono stati 12 mesi tremendi, un inferno. Ho visto e udito cose che neanche la più brutale fantasia riesce ad immaginare. Ero impegnata, con le forze governative tutsi, in continui rastrellamenti per contrastare le unità ribelli hutu che ci attaccavano con continue azioni di guerriglia. Ho Iniziato subito a conoscere la paura, quella vera, quella che ti fa prigioniera in ogni momento del giorno e della notte. È una paura che non ti fa ragionare, ti fa perdere i punti di riferimento e la tua identità, vivi continuamente nell’angoscia perché il tuo nemico può avere tante sembianze; una mina, un bambino (tantissimi bambini erano utilizzati in modo criminale da ambedue le parti in lotta), una persona che credevi amica». Ma proprio nei momenti peggiori, per non lasciarsi pilotare dalla «cultura di morte» che la circondava, Clodette riesce ad affidarsi alla propria fede, prendere la bibbia in mano e pregare.«Vivi sempre nell’angoscia, tutto in guerra assume colori diversi e le cose assumono spesso false sembianze, tutto è una minaccia; anche durante la notte ti chiedi continuamente dove sia il tuo mitragliatore e se sia pronto a sparare. Se non reagisci rischi di impazzire, io mi sono aggrappata alla fede che mi è stata donata e che ho potuto accrescere in famiglia: pregavo molto, pregavo soprattutto di non uccidere nessuno (era la mia preoccupazione più grande), pregavo affinché non mi chiedessero di uccidere o di fare azioni violente».

Ma purtroppo non è per tutti così. Ci sono altri modi, assurdi e diametralmente opposti, per non impazzire di fronte all’assurdità della guerra. «Molto spesso nei paesi dove si combattono conflitti così cruenti “gira” un sacco di droga. Il Borundi non faceva eccezione, per qualche “signore della guerra” rappresentava un doppio business. La “roba” doveva circolare, serviva troppo, era necessaria per compiere azioni di guerra e crimini efferati. Veniva spesso chiesto, come prova di fedeltà al tuo gruppo etnico, di uccidere parenti stretti o amici che facevano parte dell’altra etnia. Si sono verificati dei massacri inenarrabili con decine di migliaia di famiglie decimate da faide interne».

Clodette porta a termine il servizio di leva, e nonostante il suo impiego in aree di combattimento, non sparerà neanche un colpo. Poco dopo il vescovo della diocesi di Bururi, Bernardo Bududira, amico del cardinale Silvano Piovanelli, offre alla giovane ragazza ed a altri tre giovani burundesi la possibilità di raggiungere la Toscana per studiare.

«Dio mi ha salvato. Ne sono convintissima, nessun altro mi poteva salvare da quell’inferno. Solo Dio poteva salvare me e la mia famiglia, le nostre preghiere sono state ascoltate. Le autorità del mio paese insieme alla Chiesa burundese dovrebbero approfittare del periodo di pace in corso improntando subito dei cammini di riconciliazione reale tra le due fazioni. Più che ricercare le cause e le colpe dei crimini commessi e indagare sui centomila fatti di sangue verificatisi negli anni della guerra, servirebbe comprendere l’assurdità di ciò che è accaduto per poi guardarsi negli occhi e chiedersi reciprocamente perdono con estrema sincerità. È un percorso lungo e difficile, ma è l’unico possibile per il futuro».

Nella foto, Clodette mostra le immagini di quando era guerrigliera in Burundi