Toscana
Clima: catastrofisti o negazionisti? Meglio scettici e responsabili
di CLAUDIO TURRINI
Una tenera bambina con il suo orsacchiotto di pelouche che si sveglia e si ritrova nel mezzo di crescenti catastrofi ambientali che sono sul punto di annientarla. Per fortuna è solo l’incubo notturno che spingerà la piccola a prendere coscienza dei cambiamenti climatici. È lei la protagonista del video-shock che ha aperto i lavori di COP15 (http://en.cop15.dk/), il summit mondiale sul clima, in corso a Copenaghen. E alla fine suo è l’appello, che suona come leit-motiv della conferenza: «Please save the World» (il canale del Cop15 su youtube).
Salvare il pianeta? Ma da cosa? Forse è questo il punto. L’ambiente deve essere usato con responsabilità e l’uomo può distruggerlo, come ci ricorda il Papa nel messaggio per la giornata della pace. Su questo non si scherza. Ma tutto il male viene dalle emissioni dei gas serra? E basta una sforbiciata a queste emissioni per mettersi l’anima in pace? I paesi ricchi, che hanno inquinato senza limiti per decenni possono imporlo a chi è in via di sviluppo? È utile evocare catastrofi imminenti manipolando i dati e mettendo a tacere chi dati alla mano vorrebbe su questi ragionare, alla ricerca magari di ipotesi migliori? Copenaghen diverrà «Hopenaghen», cioè la città della speranza, per riprendere una metafora usata dal premier danese Lars Loekke Rasmussen, se riporterà un po’ di chiarezza, lasciando che gli scienziati facciano gli scienziati e i politici i politici.
In un articolo sul «Messaggero» è stato dipinto come un «negazionista», etichetta che Teodoro Georgiadis (nella foto), fisico dell’Istituto di Biometereologia del Cnr, non ha gradito. Sa bene che per trasformare il dibattito scientifico in notizia, i media ricorrono spesso a delle semplificazioni. Ed è comodo evocare uno scontro tra «catastrofisti» e «negazionisti». Uno scontro, però, che in realtà non esiste. Perché ci tiene a precisarlo «sembra», ma non è vero che la comunità scientifica sia così «frammentata e divisa». «Certo, la maggior parte degli scienziati si riconoscono nei rapporti dell’Iccp. Li potremmo definire gli allarmisti, nel senso che, da un quadro di dati scientifici, vedono la possibilità di un pericolo e quindi segnalano un allarme. Poi c’è un’altra parte, oggettivamente meno numerosa, ma in crescita, che è quella dei cosiddetti scettici. Scettici non nei confronti dei colleghi, ma nel senso che usano il metodo dello scetticismo scientifico». È tra questi ultimi che si autocolloca volentieri Teodoro Georgiadis, 54 anni, bolognese, uno dei massimi esperti italiani del settore, responsabile tra l’altro delle attività di ricerca polare dell’Ibimet-Cnr e con all’attivo oltre 200 pubblicazioni.
Georgiadis, lei si definisce uno «scettico». Ma teoricamente tutti i ricercatori dovrebbero esserlo…
«Esattamente. Lo scienziato ha la necessità di rimanere ancorato ad un metodo e vedere nei dati solo quello che i dati dicono».
Pronto anche a rivedere le proprie ipotesi di lavoro…
«La scienza è proprio questo. Un cimitero di idee che non hanno retto la prova dei fatti sperimentali. Non esiste una scienza che non sia mai mutata, da quando è scienza».
E c’è accordo tra gli scienziati sull’aumento della temperatura media?
«Il problema centrale non è vedere se le temperature stanno scendendo o salendo. Tutti riconoscono che in questo ultimo secolo e mezzo perché abbiamo misurazioni affidabili a partire dal 1860 c’è una tendenza all’aumento della temperatura. Ma il punto è trovare di chi è la colpa».
È su questo che gli scienziati si dividono?
«Gli allarmisti vedono nell’aumento delle temperature, che è di 0,7 gradi centigradi a secolo, la responsabilità dell’uomo, very likely (molto verosimilmente). Qualcuno non l’Iccp, ufficialmente dice che è così al 95%. Dall’altra parte abbiamo gli scettici che non riconoscono, nel quadro attuale della conoscenza, una sicura colpa da imputare all’uomo. O almeno, non con quelle percentuali. Lo scettico è uno che mette sicuramente in conto che esista un meccanismo di responsabilità umana, ma pensa che ancora non si sia definita bene la percentuale».
Su quali fronti è responsabile l’uomo?
«Ci sono più aspetti. C’è sicuramente quello dell’emissione di gas inquinanti. Ma c’è anche il cambiamento dell’uso del suolo. Noi abbiamo urbanizzato le città, una grossa parte dei suoli sono stati impermeabilizzati e cementificati. E questo cambia i flussi dell’energia, cambia il clima locale. Perché non considerare che anche questi aspetti influenzino il clima? Negli Usa il ricercatore Pielke, che ha sviluppato il programma Rams, attribuisce al cambiamento dell’uso del suolo un valore paragonabile a quello dell’emissione di gas serra per l’impatto climatico».
Sulla base di questi modelli vengono poi prese le decisioni della politica.
«Il problema è che se noi prendiamo in considerazione solo una colpa tra quelle dell’uomo, costruiamo delle politiche unidirezionali. Lo scettico, invece, lascia spazio alla conoscenza per introdurne della nuova. Ovvero dice: sì, consideriamo questo fatto, reputiamo importante andare a capire bene, ma cerchiamo di lasciarci lo spazio necessario per poter introdurre ipotesi alternative o concorrenti che possono essere significative. Altrimenti perdiamo sia la scienza che le politiche sulla società».
Ha fatto molto discutere l’esplodere del «Climategate», dopo la pubblicazioni di una serie di email riservate che si erano scambiati negli anni alcuni laboratori legati all’Iccp. Qual è il suo giudizio?
«Dal punto di vista dei dati non credo che emergerà molto e che i dati siano stati stravolti. O almeno, da quello che si è letto non si può dire. Quello che si può dire è che sicuramente il sistema è da ripulire dal punto di vista della correttezza della procedura scientifica. Da quelle email si vedeva che c’era una sorta di teleonomia di indirizzo, per far prevalere una posizione rispetto ad un’altra. Indirizzare la politica di revisione scientifica dicendo che certi lavori sono più ben visti dalle riviste che non altri, sulla base di un blocco, credo che faccia un gran male alla scienza in generale».
Come valuta l’esito del protocollo di Kyoto?
«Quelli li considero dei fatti economico-politici, che sono stati indirizzati in maniera diciamo scientifica, sulla base di valutazioni di scenari di tipo modellistico. Ma ho delle grosse perplessità su come raccogliamo i dati, perché secondo me non abbiamo una bella rete per interpretare il mondo e succede che i modelli devono prendere dei dati limitati. Poi i modelli, a loro volta, hanno dei parametri limitati… E alla fine di questa catena le incertezze diventano enormi. Cosa succede poi? Che questi modelli hanno una base fisico-matematica, ma anche un’altra fortissima componente che è socio-economica. E quindi generano degli scenari. E sulla base di questi scenari si è fatto Kyoto. Leggo dagli economisti che l’impatto di Kyoto sulle temperature è di fatto nullo, mentre quello economico finora non c’è stato. O forse non abbiamo ancora potuto capire bene come abbia funzionato Kyoto perché non c’è stato un grande rispetto del protocollo, se non da parte di pochi paesi virtuosi».
E dal vertice di Copenaghen cosa si aspetta?
«Prima del G2 tra Usa e Cina sembrava che a Copenaghen si potesse andare verso un sistema di governance globale. Temo che questo sia un obiettivo che trascende anche la componente scientifica. E ho paura che talvolta gli scienziati non si rendano conto di cosa succede se non forniscono i limiti di validità delle proprie deduzioni. Il politico poi prende decisioni ritenendo sicuro ciò che la scienza gli ha detto, quando invece la scienza ha ancora delle incertezze».
A parte questo, cosa sta emergendo dal vertice?
«Mi sembra che si metta male. Sono molto preoccupate anche organizzazioni che credono al cambiamento globale che però vedono in questo meccanismo di cap and trade (il commercio sui crediti per inquinare, ndr), un meccanismo prettamente economico, dei pericoli per le popolazioni tribali. Trasformare le foreste in un fatto economico significa sfrattare tutta una serie di popolazioni ancora più deboli che da quegli ecosistemi traggono l’unica fonte di sussistenza. L’isolotto di Tuvalu magari verrà salvato perché è salito alla ribalta delle cronache, però ci sono tantissime altre popolazioni che potrebbero risentirne pesantemente».
Domenica, su iniziativa di Caritas Internationalis e delle Chiese europee, in molte chiese sono stati suonati 350 rintocchi per sensibilizzare sulla difesa del pianeta dai cambiamenti climatici. Quel 350 è la soglia massima di parti per milione di CO2 nell’atmosfera. È proprio una soglia ultima?
«Esistono dei lavori recenti che mettono in dubbio anche questo dato di concentrazione. Ma io non penso che ci siano possibilità di errore su questo tipo di misura. Ritengo che effettivamente le emissioni umane abbiano aumentato la concentrazione di CO2. Il problema è che non è un fenomeno lineare. Man mano che aumenta la concentrazione pesa sempre meno quello che viene chiamato il forcing climatico (cioè l’aumento di temperature in funzione dell’aumento di emissioni). Quello che è evidente è che abbiamo un impatto sull’ambiente, dovuto alle emissioni. E secondo un principio di sobrietà e responsabilità non si può pensare di continuare a gettare schifezze in atmosfera. Che questo poi alla fine significhi che il raddoppio generi veramente un forcing climatico, come viene anche descritto nei rapporti Iccp, questo no, perché ci sono evidenze sperimentali e modellistiche che ci dicono che in realtà quel parametro del forcing cambia in continuazione».
In questi giorni i giornali sono pieni di consigli su come il semplice cittadino possa inquinare meno. Cosa ne pensa?
«Sono duemila anni che il messaggio che ci è stato dato è quello di responsabilità e sobrietà. E senza voler introdurre indicatori strani che mettono dentro coefficienti e numeri, quel messaggio di responsabilità e sobrietà è un messaggio da vivere in tutti gli aspetti della vita, al di là delle lucette del televisore da accendere o da spengere. Così facendo si salva l’ambiente e molto probabilmente si salva anche l’anima».
Senza per questo rinnegare la centralità dell’uomo nell’universo…
«Non possiamo pensare che in natura se non ci fosse l’uomo, che è il cancro del pianeta, andrebbe tutto bene. Il nostro Istituto di biometeorologia ha nella sua filosofia proprio il mettere l’uomo al centro di questo sistema. Noi recepiamo il messaggio di due grandi organizzazioni delle Nazioni Unite, la Fao e il Wmo (l’Organizzazione mondiale del clima). Vedere il direttore generale della Fao che deve fare lo sciopero della fame perché il summit di Roma è stato quasi completamente snobbato è un fatto molto grave. Temo di poter dire che era più importante il messaggio lanciato dalla Fao che non quello lanciato a Copenaghen».
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