Opinioni & Commenti
Cittadinanza ai figli di immigrati, la Costituzione ha visto lontano
di Emanuele Rossi
Nella sua ormai frequente opera di esternazione, il Presidente della Repubblica è recentemente intervenuto sul tema delle modalità di acquisto della cittadinanza, in particolare con riguardo ai figli degli immigrati che vivono in Italia. E lo ha fatto usando parole particolarmente forti, laddove egli ha posto l’accento «su quella che è un’autentica, non so se definirla follia o assurdità, cioè quella dei bambini di immigrati nati in Italia che non diventano cittadini italiani». Ove «follia» lascia intendere che si tratti di una soluzione sbagliata e del tutto inopportuna, mentre il termine «assurdità» rivela un giudizio relativo alla stessa utilità che un siffatto riconoscimento avrebbe per i «nostri» interessi di italiani, sia sul versante sociale che su quello più propriamente economico. Dimensione, quest’ultima, esplicitata nelle parole del Presidente: l’aspirazione di tali giovani «dovrebbe corrispondere anche a una visione nostra, nazionale, volta ad acquisire delle giovani nuove energie ad una società abbastanza largamente invecchiata (se non sclerotizzata)».
Non entro nel merito della bontà di tali considerazioni (che peraltro risultano del tutto condivisibili), ma mi soffermo invece sui profili di compatibilità costituzionale di un’eventuale estensione del diritto di acquisto della cittadinanza a favore dei figli di immigrati: problema che è stato posto da alcuni esponenti della Lega nord, i quali hanno accusato il Capo dello Stato di muoversi «al limite della costituzionalità» (Castelli) ovvero di operare «uno stravolgimento dei principi contenuti nella Costituzione» (l’appena decaduto Ministro dell”nterno Roberto Maroni). Quali sarebbero dunque le violazioni della Costituzione di una siffatta proposta? Quali articoli della Costituzione impedirebbero l’allargamento o il cambiamento dei criteri di acquisto della cittadinanza?
Purtroppo non è facile risalire alle fonti del pensiero (costituzionale) leghista in materia, perché l’unico articolo della Costituzione che parla di cittadinanza è il 22, ed in esso è stabilito soltanto che «Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome». Dunque si fa riferimento alla sola perdita della cittadinanza (per indicare, oltretutto, soltanto che essa non possa dipendere da motivi politici), ma non all’acquisto: i criteri per acquisire la cittadinanza sono pienamente nella discrezionalità del legislatore ordinario, perché la Costituzione non ha stabilito alcun limite alla libertà del Parlamento in tal senso. Di altri limiti, in Costituzione, non vi sono tracce.
Nella sua discrezionalità, il legislatore italiano, nel 1992, ha stabilito un criterio preferenziale generale: lo ius sanguinis (per cui la cittadinanza si acquista per discendenza da cittadini italiani), lasciando ad altri criteri (lo ius soli, la naturalizzazione, l’acquisto per meriti, ecc.) un ruolo marginale e limitato a particolari circostanze.
Tale criterio generale è coerente ad una situazione di Paese con limitati flussi immigratori e magari con significativi flussi migratori verso l’esterno: ove la cittadinanza è riconosciuta dunque anche a chi nasce e risiede all’estero, ma da genitori o avi italiani. Lo scopo di tale criterio tende a garantire una più stretta connessione tra l’appartenenza al «popolo» (inteso appunto come l’insieme di coloro che hanno la cittadinanza) e l’appartenenza alla «nazione» (intesa come insieme di elementi identitari dati dalla comune lingua, dalle tradizioni comuni, dalla cultura, ecc.): si preferisce dunque riconoscere come cittadini anche coloro che sono “italiani” pur non vivendo in Italia.
L’altro criterio possibile, quello dello ius soli, è invece adottato nei Paesi con più forti tradizioni di immigrazione (Stati uniti, stati sudamericani, Australia, ecc.), e fa dipendere l’acquisto della cittadinanza dal fatto di nascere sul territorio di quello stato, indipendentemente dalle appartenenza identitarie. Esso mira, evidentemente, ad una maggiore integrazione delle persone immigrate, ma anche ad un loro pieno coinvolgimento nella vita e nelle attività dello Stato.
Se dunque tra questi due modelli l’Italia, nel 1992, ha scelto il primo, oggi, a distanza di vent’anni e con un significativo cambiamento nel tessuto sociale, mi pare opportuno porre il tema di quale modello utilizzare per il futuro: e la scelta tra l’uno e l’altro, occorre ribadire, non è di tipo costituzionale, ma riservata al legislatore ordinario. Il quale, come detto, può fare quello che ritiene più opportuno e più rispondente alle esigenze sociali presenti e future, senza che tale scelta sia condizionata dalla Costituzione: tanto è vero che anche nella legge vigente vi sono disposizioni che riconoscono lo status civitatis a chi non ha discendenti italiani, e mai si è posto un problema di costituzionalità al loro riguardo. In tal senso, o meglio anche in tal senso, la nostra Costituzione dimostra di comprendere che la società italiana poteva cambiare nel corso degli anni, e che quindi ha lasciato al legislatore la possibilità di adeguare i criteri di acquisto della cittadinanza alle mutate esigenze sociali. Il Parlamento si assuma dunque le sue responsabilità, rese ancor più palesi dall’intervento del Capo dello Stato.