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Cinquant’anni dopo, Firenze rischia ancora. L’Arno fa sempre paura
Se non fosse stato un giorno festivo, quel 4 novembre 1966 avrebbe causato a Firenze un numero di morti ben superiore ai trentacinque registrati tra città e provincia. Eppure, la tragedia dell’alluvione sembra non avere insegnato molto se ancora oggi, a cinquant’anni di distanza, con la stessa situazione ambientale e climatica, l’Arno andrebbe nuovamente di fuori. Forse più a valle, perché l’unica opera realmente compiuta è l’abbassamento di alcuni fondali sotto i ponti, in particolare sotto Ponte Vecchio, che allora rappresentò una vera e propria diga. Per il resto, per decenni, si è fatto ben poco. Solo negli ultimi anni c’è stata una accelerazione. Ma le cosiddette casse di espansione a monte di Firenze ancora non ci sono. Solo una è attualmente in costruzione. In ogni caso sarà prima del principale affluente dell’Arno, la Sieve, che contribuì in modo determinante ad allagare il capoluogo toscano. Anche la diga di Bilancino, costruita sull’affluente, è molto a monte e regimenta più che altro il problema opposto, quello della siccità. Insomma, Firenze rischia ancora.
E non è una grande notizia nei giorni in cui qualcuno parla addirittura di celebrazioni, come se un dramma si potesse celebrare. Tuttalpiù si commemora. Ed è appunto quello hanno fatto i vescovi che si sono ritrovati in Santa Croce per una Messa in suffragio delle vittime alla quale hanno partecipato molti «angeli del fango»: quei giovani che cinquant’anni fa arrivarono a Firenze per salvare quello che era possibile salvare dell’immenso patrimonio artistico di una città conosciuta e amata in tutto il mondo. Tra loro c’erano anche alcuni seminaristi e giovani sacerdoti che poi avrebbero fatto «carriera». Lo stesso cardinale Giuseppe Betori, che allora aveva diciannove anni e forse non immaginava che sarebbe diventato, quarantadue anni dopo, arcivescovo della città alluvionata. Ma anche il cardinale Angelo Scola o Gualtiero Bassetti (che a Firenze c’era già), i vescovi Diego Coletti, Gianni Ambrosio, Luigi Marrucci e Italo Castellani.
La scelta di Santa Croce non è stata ovviamente casuale. La più grande basilica francescana del mondo dà anche il nome al quartiere che più di ogni altro ha subito la furia dell’Arno.
Altro che «fiumicel che nasce in Falterona e cento miglia di corso nol sazia…», come cantava Dante. Qui l’acqua melmosa raggiunse e superò i sei metri lasciando dietro di sé morte e distruzione. Il Cristo del Cimabue, allora conservato a piano terra nel Cenacolo di Santa Croce, divenne il simbolo della profonda ferità inferta alla città, alla sua gente e al suo patrimonio artistico. Adesso, almeno Lui, è in sicurezza, in alto, nella storica sacrestia della basilica. In questo quartiere, di fronte alla chiesa di San Giuseppe, si verificò anche l’episodio più tragico in assoluto: la morte di un’anziana inferma, fissata con un lenzuolo alle inferriate della finestra di casa perché non fu possibile sfondare la porta d’ingresso. Fu assistita dal parroco che dall’altra parte della strada, non potendo fare niente per salvarla, l’accompagnò con la preghiera e la remissione dei peccati.
L’alluvione è stata comunque per tutti un’esperienza drammatica. Eppure da quel fango prese avvio quel «miracolo» che riguarda certamente gli «angeli del fango», ma soprattutto i fiorentini, quelli dei quartieri popolari, la gente semplice che si rimboccò le maniche, calzò gli stivali e senza imprecare trovò la forza per aiutare la città a rialzarsi.