Italia
Chilometro zero e filiera corta in Toscana
di Francesco Giannoni
In Italia pascolano 10 milioni di pecore. Ma questo notevole patrimonio viene usato solo per la produzione di formaggi, peraltro di qualità. Sfruttate unicamente per il latte, negli ultimi 50 anni anche le razze ovine adatte alla lana si sono degradate; e alcune ne davano di buona, come l’Appenninica e, soprattutto, la «merinizzata» Gentile di Puglia.
Il loro vello finisce in discarica; dato che contiene zolfo, è considerato come l’amianto e i rifiuti ospedalieri. La lana con cui ci vestiamo d’inverno proviene da Australia, Nuova Zelanda, Cina e Sud America. Stessa origine hanno i tessuti semilavorati, ultimati in Italia, a Prato o Biella. Quindi una giacca, prima di coprirci le spalle, percorre migliaia di chilometri, inquinando e togliendo lavoro ai tessitori italiani con la loro millenaria tradizione.
Per cercare di limitare i danni prodotti da questa tendenza, il professor Giampiero Maracchi guida il progetto «Tessile e sostenibilità», avviato da Ibimet-Cnr e dalla Fondazione per il clima e la sostenibilità, cui partecipano anche la Regione Toscana e la Cassa di risparmio di Firenze.
Il gruppo cerca di ricostruire la microfiliera locale: dalla tosatura di pecore allevate in Toscana (Comisana, Appenninica, Zerasca e Sarda), alla filatura e tessitura, fino alla confezione degli abiti e alla loro vendita. Quest’anno è stata acquistata una tonnellata e mezza di lana in Maremma e nel Chianti. Tutto avviene nella nostra regione per produrre vestiti a «chilometro zero».
Le imprese artigiane che svolgono la varie fasi del lavoro sono quattro. «Abbiamo cominciato 7-8 anni fa, ma stiamo andando lentamente», perché, nonostante il numero e il prestigio degli enti succitati, le risorse non sono molte. Comunque c’è un’intensa attività di promozione dell’idea e dei prodotti, esposti varie volte a «Milano Unica», a «Paris Vision» quest’anno, con l’occhio rivolto all’Expo di Shanghai del 2010.
La fiducia e l’entusiasmo non mancano, nonostante che ai problemi economici si aggiungano quelli tecnici: le lane toscane, per le loro caratteristiche, si filano male con le macchine di Prato. Ma nuove aziende potrebbero sorgere con un parco attrezzature adatto. Teoricamente, e anche praticamente, non sarebbe difficile.
Maracchi ritiene questa una via obbligata, dato che il mercato globale contribuisce agli attuali pericolosi cambiamenti climatici e ambientali. Il professore allo stesso tempo è consapevole che «se riferiamo la nostra idea ai grandi numeri non è economica, ma se la riportiamo a prodotti di nicchia, allora sì: tanto è vero che queste imprese lavorano e i loro conti tornano».
D’altra parte «non siamo soli: progetti simili, tesi al recupero della filiera locale, sono in Piemonte, in Valle d’Aosta e in Trentino».
Ma non si pensi a intenzioni autarchiche o a giacche fuori moda. Anche se si parte da lane locali e da disegni legati alla tradizione, i capi sono creati al computer, usando il Cad e pensando ai gusti odierni. Quindi, come ci illustra la signora Irma Laurence Schwegler, titolare di un negozio che vende «vestiti toscani», un gilet in orbace ha inserti di flanella, alcantara o jeans; i casentino (fino a pochi anni fa realizzati con lana importata) non sono più solo nei classici arancione e verde, ma conoscono una varietà di 25 colori. Inoltre, nelle fasi lavorative è escluso l’uso di sostanze allergeniche. Infine, ogni capo è unico: creato su misura e adattabile alle richieste del cliente.
Oltre al recupero delle lane locali, «Tessile e sostenibilità» intende tornare a creare vestiti usando le fibre di ginestra, canapa e ortica, il cui impiego era normale in campagna fino a 60 anni fa. Il gruppo guidato da Maracchi dedica a tali colture alcuni terreni in provincia di Prato; questo, pur essendo un progetto ancora sperimentale, ha già rivelato aspetti interessanti: per esempio sembra che la fibra d’ortica sia anallergica, è fresca (paragonabile al lino) e così resistente che in Germania e in Austria vi si facevano vestiti da lavoro.
Lavoro, etica e ambiente el progetto «Tessile e sostenibilità» è contemplata anche la «dimensione umana del lavoro». Spiega il professor Maracchi che un’attività artigianale come quella proposta dal progetto si pone come alternativa al lavoro di tipo «fordista» (in serie, meccanizzato: «disumanante») che con l’attuale crisi mostra i suoi elementi di debolezza. È chiaro che non si vuole tornare indietro, ma industria e artigianato possono trovare un equilibrio e convivere.
Quello che interessa a Maracchi è la produzione locale e quindi anche l’occupazione locale. Oggi, «facciamo produrre tutto all’estero; noi vendiamo e basta». A parte l’inquinamento causato dai trasporti (dagli anni ’70, aumentati del 200%) i problemi si riscontrano proprio nella dimensione umana del lavoro: un conto è fare un pezzo di gilet in Australia, un altro in Cina, secondo principi di lavoro fordista teso solo al profitto finale, un conto è una filiera locale che dal filato termina in un gilet, valorizzando al massimo la creatività dell’artigiano, e recuperando il rapporto con l’ambiente circostante.
Questo aspetto del rapporto fra etica, economia e natura si ritrova anche nell’ultima enciclica papale. Secondo il professore è la prima volta in duemila anni che la Chiesa prende posizione sull’ambiente, che nella tradizione cristiana non è molto considerato (tutte e tre le grandi religioni monoteiste sono molto antropocentriche). Mentre il nord Europa, affondando le radici in antichi culti, legati alla natura e alle divinità dei boschi, ha una maggiore sensibilità: quindi, imprese come quella illustrata da Maracchi hanno maggiore visibilità e risultati migliori.
A proposito di attenzione per l’ambiente e di artigianato tessile, è bene sottolineare che vestendosi con abiti più pesanti potremmo abbassare di 2 gradi il riscaldamento con un risparmio energetico del 20%, proprio come previsto dal trattato di Kyoto.
Per il professore questa politica non viene attuata «perché tutti i media e di conseguenza le mode correnti spingono altrove. È difficile vedere in tv persone con il cappotto, anzi l’ombelico e altro sono ampiamente mostrati. Una volta la gente andava in chiesa e faceva quel che diceva il parroco, oggi fa quello che dice la tv; pertanto, dovremmo poter promuovere il nostro progetto attraverso tale mezzo: sarebbe facile ma ci vogliono risorse impensabili per noi che dalla Regione riceviamo 100-200.000 euro l’anno. La gente secondo me è pronta a prestare attenzione a idee come le nostre e ad acquistare vestiti toscani, piemontesi, trentini, ecc., ma finché la proposta non giunge da una sede ritenuta autorevole (oggi la Tv), la gente non recepisce né compra».
Ma se queste ultime sono problematiche aggravatesi negli ultimi decenni, la filiera corta fa parte della natura stessa della cooperativa. Quando questa rinacque, nel secondo dopoguerra, il primo obbiettivo che si pose, fu la ricerca di produttori locali con cui avere rapporti diretti. Si trattava di trovare farina, patate, castagne per sfamare la popolazione, senza specularci e senza guadagnarci sopra. Ma anche negli anni ’40, «se i cooperatori non trovavano le patate dai contadini dei dintorni, andavano fino in Maremma, o scollinavano in Emilia pur di farle trovare allo spaccio».
Oggi Unicoop Firenze opera in sette delle dieci province della Toscana (Grosseto, Livorno e Massa Carrara sono servite da Unicoop Tirreno), ha oltre un milione di soci che non sono solo consumatori, ma anche lavoratori e imprenditori: sono, quindi, persone che vivono di quello che fanno e producono. Insomma la cooperativa è intimamente connessa al tessuto economico regionale subendone lo stesso destino. Di conseguenza la cooperativa cresce, se cresce questo tessuto. I fornitori locali della cooperativa sono quindi strategici nel suo rapporto con il territorio.
Oggi «oltre un terzo del nostro fatturato è realizzato con fornitori toscani». Ovviamente questa è una media, ma andando a guardare nei singoli settori, Comerci evidenzia che il 90% dei prodotti da forno (pane e pasticceria) sono di fornitori regionali, così come il 50% degli ortaggi e della frutta; altrettanto avviene nei banchi di gastronomia, salumi e formaggi, il 34% in quello della pescheria e il 13% in quello delle carni. Nei prodotti industriali, chiaramente, le percentuali si abbassano.
Da un punto di vista economico, la politica della filiera corta di Unicoop Firenze ha conseguito un «risultato eccezionale che, nella nostra regione, credo non abbia riscontro in altre catene della moderna distribuzione: 500 milioni di euro nel 2008, un fiume di danaro, è rimasto in Toscana» con un indotto occupazionale pari a 11.000 unità, distribuite fra 800 fornitori. Questo perché, a eccezione della Coop, nessun’altra catena ha la «testa» entro i confini regionali; addirittura sono pochissime le catene di grande distribuzione alimentare rimaste a capitale solo italiano.
Ovviamente «i produttori toscani non vendono solo a noi, ci mancherebbe altro», anche se spesso Unicoop Firenze è stata la prima fra le catene ad avere rapporti con i produttori e trasformatori agricoli. Però, una volta tracciata la strada arrivano anche gli altri. In questo modo si crea una concorrenza al rialzo, salutare per chi produce, se i prodotti incontrano il gusto dei consumatori. «Penso, per esempio, alla carne chianina. Siamo stati i primi a rilanciarla, ma oggi la trattano anche altre catene e questo amplia il mercato per gli allevatori». Sicuramente, infine, gli uffici acquisti della grande distribuzione stanno attenti anche ai gusti locali e alle opportunità di commercio che possono concretarsi. «Ma una cosa sono le occasioni di vendita che gli slogan, come chilometro zero, possono creare, altro è una politica di collaborazione stretta fra produttori e distributori che nasce e si sviluppa in un territorio. Ed è questo che in Toscana rende l’Unicoop Firenze diversa dagli altri».
Nel settore della filiera corta, mi illustra Comerci, l’obbiettivo di Unicoop Firenze è «aumentare la platea di piccole e medie imprese che sappiano avere rapporti con la grande distribuzione per fornire prodotti di qualità a prezzi competitivi». Però, chi pensa di poter contare solo su marchi che tutelino l’origine dei prodotti, non può avere prospettive di lungo termine. È necessario, per esempio, dotarsi di laboratori per controllare la qualità delle materie prime e del prodotto finito, presentandolo in confezioni e formati che sappiano soddisfare le esigenze del consumatore e le tendenze del momento. D’altra parte secondo una legge del mercato «se è difficile produrre, lo è altrettanto vendere». Comunque, con tutto l’ottimismo e le migliori intenzioni, Comerci non ritiene credibile che un giorno sugli scaffali della Coop si possano trovare solo prodotti alimentari regionali. A parte che deve essere salvaguardata la libertà di scelta del cliente, quello che producono le nostre colline e le rare pianure non è sufficiente a soddisfare le esigenze dei toscani. Quantità variabili di grano, latte, carne, ortaggi e frutta devono essere importati da altre regioni o nazioni.
Un caso eclatante è l’olio. I toscani sono quelli che comprano più olio extravergine d’oliva in Italia, rispetto agli altri tipi d’olio di oliva. Ma a livello nazionale la nostra regione ne produce solo il 2%. Di questa bassissima percentuale la maggior parte non arriva sul mercato, ma serve all’autoconsumo e a circuiti esclusivi di ristorazione o commercio specializzato. Insomma «se dovessimo vendere solo olio toscano avremmo gli scaffali vuoti per gran parte dell’anno. Però, come Unicoop Firenze siamo quelli che vendiamo più olio toscano, certificato e garantito». E finiamo con una constatazione e una domanda retorica: siamo tra i maggiori produttori italiani, in quantità e qualità, di vino, di cui gli scaffali di Unicoop sono colmi per due terzi; ma ci converrebbe togliere quel terzo di bianchi veneti, di rossi meridionali, di grandi vini che le altre regioni producono? Fare a meno del Barolo o del Cannonau, della Ribolla o della Falanghina? Non sembra proprio il caso.
La scelta di Montevarchi come sede dell’iniziativa non è stata casuale. Dalla città del Valdarno partì il progetto pilota per un mercato contadino, e da quasi due anni vi si tiene «Tuttiigiorni», spaccio collettivo dove, appunto tutti i giorni, più di 70 produttori della zona vendono il frutto del loro lavoro. La validità dell’iniziativa, di stimolo per l’intero comparto, è dimostrata da una tendenza costante di crescita, dalla fidelizzazione di 8 mila consumatori e da 90 mila euro di incasso medio mensile.
Secondo gli operatori del settore, il pubblico gradisce questa forma di vendita, perché il contatto diretto fra produttore e consumatore consente trasparenza e certezza su provenienza, qualità e stagionalità del prodotto venduto. Inoltre, com’è ormai noto, riducendosi la distanza fra produzione e vendita, si riduce anche l’inquinamento provocato dal trasporto dei prodotti dall’azienda agricola al mercato.
Concludiamo con una realistica considerazione di Maria Grazia Mammuccini, secondo cui dobbiamo essere «consapevoli che la filiera corta non è una panacea per l’agricoltura, ma di certo una di quelle risorse di economia locale che, insieme per esempio alle agrienergie, possono consentire all’agricoltore, in maniera sostenibile, di recuperare preziose fonti di reddito».