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Chiesa italiana e Mezzogiorno
A vent’anni dalla pubblicazione del documento Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno, i Vescovi italiani riprendono la riflessione sul cammino della solidarietà nel nostro Paese, con particolare attenzione al Meridione d’Italia e ai suoi problemi irrisolti, riproponendoli all’attenzione della comunità ecclesiale nazionale. Ecco il testo integrale.
Introduzione
1. La Chiesa in Italia e la questione meridionale
A vent’anni dalla pubblicazione del documento Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno, vogliamo riprendere la riflessione sul cammino della solidarietà nel nostro Paese, con particolare attenzione al Meridione d’Italia e ai suoi problemi irrisolti, riproponendoli all’attenzione della comunità ecclesiale nazionale, nella convinzione «degli ineludibili doveri della solidarietà sociale e della comunione ecclesiale [ ] alla luce dell’insegnamento del Vangelo e con spirito costruttivo di speranza»[1].
Torniamo sull’argomento non solo per celebrare l’anniversario del documento, né in primo luogo per stilare un bilancio delle cose fatte o omesse, e neppure per registrare con ingenua soddisfazione la qualificata presenza delle strutture ecclesiali nella vita quotidiana della società meridionale, ma per intervenire in un dibattito che coinvolge tanti soggetti e ribadire la consapevolezza del dovere e della volontà della Chiesa di essere presente e solidale in ogni parte d’Italia, per promuovere un autentico sviluppo di tutto il Paese. Nel 1989 sostenemmo: «il Paese non crescerà, se non insieme»[2]. Anche oggi riteniamo indispensabile che l’intera nazione conservi e accresca ciò che ha costruito nel tempo. Il bene comune, infatti, è molto più della somma del bene delle singole parti[3].
Ci spingono a intervenire la constatazione del perdurare del problema meridionale, anche se non nelle medesime forme e proporzioni del passato, e, strettamente connessi, il nostro compito pastorale e la responsabilità morale per le Chiese che sono in Italia. A ciò si aggiunge la consapevolezza della travagliata fase economica che anche il nostro Paese sta attraversando. Questi fattori si coniugano con una trasformazione politico-istituzionale, che ha nel federalismo un punto nevralgico, e con un’evoluzione socio-culturale, in cui si combinano il crescente pluralismo delle opzioni ideali ed etiche e l’inserimento di nuove presenze etnico-religiose per effetto dei fenomeni migratori. Non si può, infine, tralasciare la trasformazione della religiosità degli italiani che, pur conservando un carattere popolare, fortemente radicato soprattutto nel Sud, conosce processi di erosione per effetto di correnti di secolarizzazione. Affrontare la questione meridionale diventa in tale maniera un modo per dire una parola incisiva sull’Italia di oggi e sul cammino delle nostre Chiese.
Tanti sono gli aspetti che si impongono all’attenzione: anzitutto il richiamo alla necessaria solidarietà nazionale, alla critica coraggiosa delle deficienze, alla necessità di far crescere il senso civico di tutta la popolazione, all’urgenza di superare le inadeguatezze presenti nelle classi dirigenti. Questi aspetti rendono difficile farsi carico della responsabilità di essere soggetto del proprio sviluppo. Sul versante pastorale, vogliamo anche cogliere l’occasione per incoraggiare le comunità stesse, affinché continuino a essere luoghi esemplari di nuovi rapporti interpersonali e fermento di una società rinnovata, ambienti in cui crescono veri credenti e buoni cittadini. A richiamare, poi, la nostra attenzione − e non per ultime − sono le molteplici potenzialità delle regioni meridionali, che hanno contribuito allo sviluppo del Nord e che, soprattutto grazie ai giovani, rappresentano uno dei bacini più promettenti per la crescita dell’intero Paese.
Facciamo appello alle non poche risorse presenti nelle popolazioni e nelle comunità ecclesiali del Sud, a una volontà autonoma di riscatto, alla necessità di contare sulle proprie forze come condizione insostituibile per valorizzare tutte le espressioni di solidarietà che devono provenire dall’Italia intera nell’articolazione di una sussidiarietà organica. La prospettiva della condivisione e dell’impegno educativo diventa in questa ottica l’unica veramente credibile ed efficace.
2. Guardare con amore al Mezzogiorno
Ci rendiamo conto di trovarci in una congiuntura di radicali e incalzanti mutamenti. Molti di essi non saranno positivi per il Mezzogiorno, se esso non reagirà adeguatamente e non li trasformerà in opportunità. Potrebbero, infatti, acuirsi antiche debolezze e approfondirsi limiti radicati, che rischiano di isolare il Mezzogiorno tagliandolo fuori dai grandi processi di sviluppo.
Le considerazioni che seguono non hanno il carattere di un’analisi economica, né presumono di avere nel merito della questione meridionale un profilo risolutore e definitivo. Vogliamo piuttosto lasciarci guidare dalla fiducia nella bontà di un giudizio ragionevole sulla situazione sociale e culturale del nostro Paese, illuminati dalla luce della fede coltivata nell’alveo della comunione ecclesiale, per dare un contributo alla comune fatica del pensare, facendo affidamento non tanto in una nostra autonoma capacità, ma soprattutto in quella grazia che accompagna chi confida nel Signore (cfr Sal 31,10).
Lo sviluppo dei popoli si realizza non in forza delle sole risorse materiali di cui si può disporre in misura più o meno larga, ma soprattutto grazie alla responsabilità del pensare insieme e gli uni per gli altri[4]. In questo peculiare pensiero solidale, noi ravvisiamo la tensione alla verità da cercare, conoscere e attuare. Ravvisiamo, altresì, il tentativo di valorizzare al meglio il patrimonio di cui tutti disponiamo, cioè la nostra intelligenza, la capacità di capire i problemi e di farcene carico, la creatività nel risolverli. Vi cogliamo soprattutto il comando del Signore, che ci spinge a metterci a servizio gli uni degli altri (cfr Gv 13,14 e Gal 6,2), perché soltanto questa reciprocità d’amore ci permette di essere riconosciuti da tutti come suoi discepoli (cfr Gv 13,35). Il nostro guardare al Paese, con particolare attenzione al Mezzogiorno, vuole essere espressione, appunto, di quell’amore intelligente e solidale che sta alla base di uno sviluppo vero e giusto, in quanto tale condiviso da tutti, per tutti e alla portata di tutti[5].
Ci piace riaffermare, con Giovanni Paolo II, che spetta «alle genti del Sud essere le protagoniste del proprio riscatto, ma questo non dispensa dal dovere della solidarietà l’intera nazione»[6]. La Chiesa non si tira indietro di fronte a tale compito, perché nessuno, proprio nessuno, nel Sud deve vivere senza speranza. In questo spirito, il presente documento è il frutto di un cammino di riflessione e di condivisione promosso dai Vescovi delle diocesi meridionali e condiviso da tutto l’episcopato italiano, confluito nel Convegno Chiesa nel Sud, Chiese del Sud, celebrato a Napoli il 12-13 febbraio 2009, con l’apporto qualificato delle Facoltà teologiche e dei centri di studio meridionali[7].
3. L’Eucaristia: fonte e culmine della nostra condivisione
La condivisione è il valore su cui, prioritariamente, vogliamo puntare. È un valore che ci è singolarmente congeniale; infatti trova origine e compimento nell’Eucaristia che, come discepoli del Signore, non possiamo disattendere nella sua esemplarità.
Nella prima moltiplicazione dei pani e dei pesci, in cui l’evangelista Matteo prefigura la condivisione del banchetto eucaristico (cfr Mt 14,13-21), Gesù dà ai suoi discepoli l’incarico di sovvenire ai bisogni della gente che lo seguiva: «voi stessi date loro da mangiare» (14,16).
I termini usati per descrivere l’operato del Signore − in cui i discepoli vengono coinvolti e investiti di una diretta responsabilità − configurano, in un crescendo d’intensità, una triplice scansione dell’intervento in favore della folla. C’è anzitutto l’osservazione obiettiva della situazione. Segue il calcolo concreto delle risorse disponibili e la realistica consapevolezza del deficit con cui fare i conti. Infine troviamo l’assunzione di una responsabilità per gli altri, che si compie nello spazio creativo dell’iniziativa divina: «alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla» (14,19). Nella sequenza eucaristica s’iscrive la consegna profetica del pane spezzato, che basterà e avanzerà (cfr 2Re 4,43).
Donare senza trattenere per sé: in ciò consiste lo specifico servizio dei discepoli di Gesù verso il mondo, un servizio la cui qualità ed efficacia non dipendono da un calcolo umano. Si tratta, infatti, non soltanto del fare a cui sono abituati i governanti delle nazioni, ma del consegnare a Dio − nello spazio orante del discernimento spirituale e pastorale − tutto ciò che si condivide con la gente, cioè i pochi pani e i pochi pesci. In questa condivisione riuscita l’Eucaristia si rivela veramente come la fonte e il compimento della vita della Chiesa.
Facendo nostre le parole di Benedetto XVI sulla centralità eucaristica[8], vogliamo ribadire che l’Eucaristia non si limita a disegnare l’immagine esemplare della Chiesa o a darle quell’energia spirituale della quale ha bisogno, ma le conferisce anche la forma, realizzando già al massimo grado, perché compiute in unione con Cristo, tutte quelle azioni che siamo chiamati a prolungare nella storia. Da questa inesauribile sorgente, tutti attingiamo forza (cfr Ef 6,10).
Per rispondere all’appello del Signore oggi, fondati nell’Eucaristia e nella sua esemplarità di condivisione, vogliamo qui riflettere sulla condizione del nostro Mezzogiorno.
I. IL MEZZOGIORNO ALLE PRESE CON VECCHIE E NUOVE EMERGENZE
4. Che cosa è cambiato in venti anni
Profondi cambiamenti hanno segnato in questi ultimi venti anni il quadro generale internazionale, nazionale e anche quello del Mezzogiorno.
In Italia, è cambiata la geografia politica, con la scomparsa di alcuni partiti e la nascita di nuove formazioni. È pure mutato il sistema di rappresentanza nel governo dei comuni, delle province e delle regioni, con l’elezione diretta dei rispettivi amministratori. L’avvio di un processo di privatizzazioni delle imprese pubbliche, il venir meno del sistema delle partecipazioni statali e la fine dell’intervento straordinario della Cassa del Mezzogiorno, di cui non vogliamo dimenticare gli aspetti positivi, hanno determinato nuovi scenari economici.
È cambiato il rapporto con le sponde orientali e meridionali del Mediterraneo. La massiccia immigrazione dall’Europa dell’Est, dall’Africa e dall’Asia ha reso urgenti nuove forme di solidarietà. Molto spesso proprio il Sud è il primo approdo della speranza per migliaia di immigrati e costituisce il laboratorio ecclesiale in cui si tenta, dopo aver assicurato accoglienza, soccorso e ospitalità, un discernimento cristiano, un percorso di giustizia e promozione umana e un incontro con le religioni professate dagli immigrati e dai profughi[9].
Il contrastato e complesso fenomeno della globalizzazione dei mercati ha portato benefici ma ha anche rafforzato egoismi economici legati a un rapporto rigido tra costi e ricavi, mutando profondamente la geografia economica del pianeta e accrescendo la competizione sui mercati internazionali. Infine, con l’allargamento dell’Unione Europea, si sono dovuti riequilibrare gli aiuti, prevedendo finanziamenti in favore di nuove zone anch’esse deboli e depresse.
La Chiesa non ha mancato di seguire con attenzione questi cambiamenti. Essa si sente chiamata a discernere, alla luce della sua dottrina sociale, queste dinamiche storiche e sociali, consapevole della necessità di raccogliere con responsabilità le sfide che la globalizzazione presenta[10].
Il Vangelo ci indica la via del buon Samaritano (cfr Lc 10,25-37): per i discepoli di Cristo la scelta preferenziale per i poveri significa aprirsi con generosità alla forza di libertà e di liberazione che lo Spirito continuamente ci dona, nella Parola e nell’Eucaristia.
5. Uno sviluppo bloccato
La complessa e contraddittoria ristrutturazione delle relazioni tra le istituzioni nazionali e il mercato non ha interrotto le politiche di aiuti per il Sud, veicolate attraverso nuovi strumenti e competenze a livello locale, soprattutto regionale, anche se resta da verificare se e come queste risorse siano state effettivamente utilizzate. Con rinnovata urgenza si pone la necessità di ripensare e rilanciare le politiche di intervento, con attenzione effettiva ai «portatori di interessi»[11], in particolare i più deboli, al fine di generare iniziative auto-propulsive di sviluppo, realmente inclusive, con la consapevolezza che «sia il mercato che la politica hanno bisogno di persone aperte al dono reciproco»[12], di una cultura politica che nutra l’attività degli amministratori di visioni adeguate e di solidi orizzonti etici per il servizio al bene comune.
Il cambiamento istituzionale provocato dall’elezione diretta dei sindaci, dei presidenti delle province e delle regioni, non ha scardinato meccanismi perversi o semplicemente malsani nell’amministrazione della cosa pubblica, né ha prodotto quei benefici che una democrazia più diretta nella gestione del territorio avrebbe auspicato.
Accenti di particolare gravità ha assunto la questione ecologica: nel quadro dello stravolgimento del mondo dell’agricoltura, sono progressivamente venute alla luce forme di sfruttamento del territorio che, come dimostra il fenomeno delle ecomafie, spingono con evidenza a prendere in considerazione, in tutti i suoi aspetti, l’«ecologia umana»[13].
La globalizzazione, poi, vedendo accresciuta la competizione sui mercati internazionali, ha messo ancor più a nudo la fragilità del territorio, anche solo a motivo dell’allocazione delle industrie o comunque dei modelli economici adottati.
Il complesso panorama politico ed economico nazionale e internazionale − aggravato da una crisi che non si lascia facilmente descrivere e circoscrivere − ha fatto crescere l’egoismo, individuale e corporativo, un po’ in tutta l’Italia, con il rischio di tagliare fuori il Mezzogiorno dai canali della ridistribuzione delle risorse, trasformandolo in un collettore di voti per disegni politico-economici estranei al suo sviluppo.
6. Modernità e modernizzazione
«L’allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa è indispensabile per riuscire a pesare adeguatamente tutti i termini della questione dello sviluppo e della soluzione dei problemi socio-economici»[14]. In tale ottica, è necessario prendere in carico le non poche contraddizioni dei processi di modernizzazione, che negli ultimi vent’anni hanno subito un’ulteriore accelerazione e hanno messo in luce la necessità che il confronto e il dialogo, anche con quanti provengono da culture diverse, non prescinda dall’identità specifica degli uni e degli altri.
Il Sud ha recepito spesso acriticamente la modernizzazione, patendo lo sradicamento disordinato dei singoli soggetti da una civiltà contadina che, invece di essere distrutta, doveva evolversi attraverso un graduale rinnovamento e una seria modernizzazione. Preso atto dell’ineluttabile mutamento dei tempi, bisognerebbe considerare che un’agricoltura moderna, emancipata da ogni retaggio di sfruttamento, consentirebbe un più equilibrato rapporto tra uomo e natura e, in esso, prospettive di lavoro non più degradante ma di effettivo sviluppo umano per le nuove generazioni.
Dal punto di vista culturale, erano largamente presenti, accanto a valori di umanità e di religiosità autentici, forme di particolarismo familistico, di fatalismo e di violenza che rendevano problematica la crescita sociale e civile. Su questo terreno arcaico ha fatto irruzione la modernità avanzata che, paradossalmente, ha potenziato quegli antichi germi innestandovi la nuova mentalità, segnata dall’individualismo e dal nichilismo. L’assorbimento acritico di modelli comportamentali diffusi dai processi mediatici si è accompagnato al mantenimento di forme tradizionali di socializzazione, di falsa onorabilità e di omertà diffusa. In questo modo, una società che non aveva attraversato i processi della modernità si è trovata a superare tali prospettive senza averle assimilate in profondità.
Una considerazione specifica merita, in questo contesto, la condizione femminile. Erede di una storia spesso segnata da sofferenza ed emarginazione, la donna costituisce per il Sud un’importante risorsa per la crescita e l’umanizzazione della comunità. Molte però sono le barriere ancora da superare, sia sul versante culturale che su quello sociale. Sussistono infatti visioni inaccettabili, come quelle alla base di un certo familismo o di una svalutazione della maternità e, più di recente, del ruolo di primo piano che le donne vengono a rivestire nella criminalità organizzata. Analisi aggiornate attribuiscono inoltre alle donne posizioni di marcato svantaggio nel superamento della disoccupazione e dell’inattività, con il risultato di vedersi riconosciuti meno diritti e inferiori opportunità.
Ciononostante, la società meridionale è tuttora fortemente debitrice nei confronti della donna. Come scrivevamo nel 1989, essa «ha una ministerialità’ sociale straordinaria»[15]. Un insostituibile contributo nella direzione dell’emancipazione femminile e dello sviluppo collettivo è venuto in passato e tuttora va attribuito all’associazionismo religioso e alla preziosa opera svolta dalle donne nella comunità ecclesiale. Il Mezzogiorno non può fare a meno dell’originale e feconda partecipazione femminile per un suo sviluppo autentico e inclusivo.
7. Europa e Mediterraneo
In questo processo di incompiuta modernizzazione, il Mezzogiorno collocato all’incrocio tra l’Europa e il Mediterraneo si è trovato fortemente sollecitato dal già menzionato fenomeno della globalizzazione[16]. L’allargamento dell’Unione europea ha posto il Mezzogiorno di fronte a nuove opportunità ma anche a rischi inediti: da un lato, ha permesso l’accesso a canali finanziari e commerciali più ampi, dall’altro ha accresciuto la concorrenza, a causa dell’ingresso massiccio di Stati a basso reddito medio, più attraenti per le imprese in ragione del minor costo della manodopera.
Purtroppo i dati statistici mostrano che il Mezzogiorno non coglie gran parte delle nuove opportunità per una scarsa capacità progettuale, una ancor più bassa capacità di mandare a effetto i progetti e mantenere in vita le nuove realizzazioni e, comunque, una radicale fragilità del suo tessuto sociale, culturale ed economico e, non per ultimo, la frequente mancanza di sicurezza. Eppure le sue vaste risorse, tuttora non valorizzate, potrebbero diventare opportunità di sviluppo nel grande mercato europeo, aprendo maggiori possibilità di sbocco per le imprese meridionali e promuovendo una nuova centralità geografica del Mediterraneo.
Università e centri di ricerca, come anche imprese ed entità amministrative, hanno già stabilito in questi anni una serie di rapporti con realtà rivierasche affini sia europee sia nord-africane, in un confronto di modelli culturali, sociali ed economici tendenti a costruire una sorta di cittadinanza aperta, che può realizzarsi intorno al comune denominatore del Mediterraneo.
In questa ottica, esso accentua la centralità del Mezzogiorno per la movimentazione delle persone e delle merci provenienti dal Medio Oriente e dagli altri Paesi asiatici. Le nuove potenzialità di sviluppo diventano, così, occasioni concrete, soprattutto se accresciute dalle necessarie infrastrutture, anche per innescare effetti moltiplicativi sul territorio in termini di reddito e di investimenti. Possiamo pertanto considerare quella del Mediterraneo una vera e propria opzione strategica per il Mezzogiorno e per tutto il Paese, inserito nel cammino europeo e aperto al mondo globalizzato.
8. Per un federalismo solidale
«Il principio di sussidiarietà va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa, perché se la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell’assistenzialismo»[17]. La prospettiva di riarticolare l’assetto del Paese in senso federale costituirebbe una sconfitta per tutti, se il federalismo accentuasse la distanza tra le diverse parti d’Italia. Potrebbe invece rappresentare un passo verso una democrazia sostanziale, se riuscisse a contemperare il riconoscimento al merito di chi opera con dedizione e correttezza all’interno di un gioco di squadra. Un tale federalismo, solidale, realistico e unitario, rafforzerebbe l’unità del Paese, rinnovando il modo di concorrervi da parte delle diverse realtà regionali, nella consapevolezza dell’interdipendenza crescente in un mondo globalizzato. Ci è congeniale considerarlo come una modalità istituzionale atta a realizzare una più moderna organizzazione e ripartizione dei poteri e delle risorse, secondo la sempre valida visione regionalistica di don Luigi Sturzo e di Aldo Moro.
Un sano federalismo, a sua volta, rappresenterebbe una sfida per il Mezzogiorno e potrebbe risolversi a suo vantaggio, se riuscisse a stimolare una spinta virtuosa nel bonificare il sistema dei rapporti sociali, soprattutto attraverso l’azione dei governi regionali e municipali, nel rendersi direttamente responsabili della qualità dei servizi erogati ai cittadini, agendo sulla gestione della leva fiscale. Tuttavia, la corretta applicazione del federalismo fiscale non sarà sufficiente a porre rimedio al divario nel livello dei redditi, nell’occupazione, nelle dotazioni produttive, infrastrutturali e civili. Sul piano nazionale, sarà necessario un sistema integrato di investimenti pubblici e privati, con un’attenzione verso le infrastrutture, la lotta alla criminalità e l’integrazione sociale. L’impegno dello Stato deve rimanere intatto nei confronti dei diritti fondamentali delle persone, perequando le risorse, per evitare che si creino di fatto diritti di cittadinanza differenziati a seconda dell’appartenenza regionale.
In questo senso, l’imminente ricorrenza del centocinquantesimo anniversario dell’unità nazionale ci ricorda che la solidarietà, unita alla sussidiarietà, è una grande ricchezza per tutti gli italiani, oltre che un beneficio e un valore per l’intera Europa[18]. Proprio per non perpetuare un approccio assistenzialistico alle difficoltà del Meridione, occorre promuovere la necessaria solidarietà nazionale e lo scambio di uomini, idee e risorse tra le diverse parti del Paese. Un Mezzogiorno umiliato impoverisce e rende più piccola tutta l’Italia.
9. Una piaga profonda: la criminalità organizzata
Libertà e verità, e dunque giustizia e moralità, sono tra le condizioni necessarie di una vera democrazia, fondata sull’affermazione della dignità della persona e della soggettività della società civile[19]. Non è possibile mobilitare il Mezzogiorno senza che esso si liberi da quelle catene che non gli permettono di sprigionare le proprie energie. Torniamo, perciò, a condannare con forza una delle sue piaghe più profonde e durature − un vero e proprio «cancro»[20], come lo definivamo già nel 1989, una «tessitura malefica che avvolge e schiavizza la dignità della persona»[21] −, ossia la criminalità organizzata, rappresentata soprattutto dalle mafie che avvelenano la vita sociale, pervertono la mente e il cuore di tanti giovani, soffocano l’economia, deformano il volto autentico del Sud.
La criminalità organizzata non può e non deve dettare i tempi e i ritmi dell’economia e della politica meridionali, diventando il luogo privilegiato di ogni tipo di intermediazione e mettendo in crisi il sistema democratico del Paese, perché il controllo malavitoso del territorio porta di fatto a una forte limitazione, se non addirittura all’esautoramento, dell’autorità dello Stato e degli enti pubblici, favorendo l’incremento della corruzione, della collusione e della concussione, alterando il mercato del lavoro, manipolando gli appalti, interferendo nelle scelte urbanistiche e nel sistema delle autorizzazioni e concessioni, contaminando così l’intero territorio nazionale.
«La mafia sta prepotentemente rialzando la testa», hanno denunciato i Vescovi della Calabria. «Di fronte a questo pericolo, si sta purtroppo abbassando l’attenzione. Il male viene ingoiato. Non si reagisce. La società civile fa fatica a scuotersi. Chiaro per tutti il giogo che ci opprime. Le analisi sono lucide ma non efficaci. Si è consapevoli ma non protagonisti»[22].
In questi ultimi vent’anni le organizzazioni mafiose, che hanno messo radici in tutto il territorio italiano, hanno sviluppato attività economiche, mutuando tecniche e metodi del capitalismo più avanzato, mantenendo al contempo ben collaudate forme arcaiche e violente di controllo sul territorio e sulla società. Non va ignorato, purtroppo, che è ancora presente una cultura che consente loro di rigenerarsi anche dopo le sconfitte inflitte dallo Stato attraverso l’azione delle forze dell’ordine e della magistratura. C’è bisogno di un preciso intervento educativo, sin dai primi anni di età, per evitare che il mafioso sia visto come un modello da imitare.
L’economia illegale, peraltro, non si identifica totalmente con il fenomeno mafioso, essendo purtroppo diffuse attività illecite non sempre collegate alle organizzazioni criminali, ma ugualmente deleterie (usura, estorsione, evasione fiscale, lavoro nero ). Ciò rivela una carenza di senso civico, che compromette sia la qualità della convivenza sociale sia quella della vita politica e istituzionale, arrecando anche in questo caso un grave pregiudizio allo sviluppo economico, sociale e culturale.
In questa situazione, la Chiesa è giunta a pronunciare, nei confronti della malavita organizzata, parole propriamente cristiane e tipicamente evangeliche, come peccato, conversione, pentimento, diritto e giudizio di Dio, martirio, le sole che le permettono di offrire un contributo specifico alla formazione di una rinnovata coscienza cristiana e civile.
Queste parole sono state proferite con singolare veemenza da Giovanni Paolo II il 9 maggio 1993, nella Valle dei Templi, presso Agrigento e − mostrando una straordinaria forza profetica − sono state capaci di dare visibilità alla testimonianza di quanti hanno fatto, in questi ultimi vent’anni, della resistenza alla mafia il crocevia − spesso bagnato di sangue − del loro anelito alla giustizia e alla santità. Anche il Santo Padre Benedetto XVI ha rivolto, in occasione della 43ª Giornata Mondiale della Pace, un forte appello «alle coscienze di quanti fanno parte di gruppi armati di qualunque tipo. A tutti e a ciascuno dico: fermatevi, riflettete, e abbandonate la via della violenza! Sul momento, questo passo potrà sembrarvi impossibile, ma, se avrete il coraggio di compierlo, Dio vi aiuterà, e sentirete tornare nei vostri cuori la gioia della pace, che forse da tempo avete dimenticata»[23].
Vogliamo ricordare i numerosi testimoni immolatisi a causa della giustizia: magistrati, forze dell’ordine, politici, sindacalisti, imprenditori e giornalisti, uomini e donne di ogni categoria. Le comunità cristiane del Sud hanno visto emergere luminose testimonianze, come quella di don Pino Puglisi, di don Giuseppe Diana e del giudice Rosario Livatino, i quali − ribellandosi alla prepotenza della malavita organizzata − hanno vissuto la loro lotta in termini specificamente cristiani: armando, cioè, il loro animo di eroico coraggio per non arrendersi al male, ma pure consegnandosi con tutto il cuore a Dio.
Riflettendo sulla loro testimonianza, si può comprendere che, in un contesto come quello meridionale, le mafie sono la configurazione più drammatica del male e del peccato. In questa prospettiva, non possono essere semplicisticamente interpretate come espressione di una religiosità distorta, ma come una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione: le mafie sono strutture di peccato[24]. Solo la decisione di convertirsi e di rifiutare una mentalità mafiosa permette di uscirne veramente e, se necessario, subire violenza e immolarsi.
Si deve riconoscere che le Chiese debbono ancora recepire sino in fondo la lezione profetica di Giovanni Paolo II e l’esempio dei testimoni morti per la giustizia. Tanti sembrano cedere alla tentazione di non parlare più del problema o di limitarsi a parlarne come di un male antico e invincibile. La testimonianza di quanti hanno sacrificato la vita nella lotta o nella resistenza alla malavita organizzata rischia così di rimanere un esempio isolato. Solo l’annuncio evangelico di pentimento e di conversione, in riferimento al peccato-mafia, è veramente la buona notizia di Cristo (cfr Mc 1,15), che non può limitarsi alla denuncia, perché è costitutivamente destinato a incarnarsi nella vita del credente.
10. Povertà, disoccupazione, emigrazione
La Chiesa in Italia continua a spendersi di fronte alle emergenze rappresentate dalla povertà, dalla disoccupazione e dall’emigrazione interna. Accanto alla risposta diretta della carità, non minore attenzione merita la via istituzionale della ricerca del bene comune, inteso come «esigenza di giustizia e di carità. Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città»[25]. La povertà è un fenomeno generale complesso e multidimensionale, che tocca aree dell’intero Paese. I dati negativi si concentrano però nelle regioni del Mezzogiorno, caratterizzate dalla presenza di molte famiglie monoreddito, con un alto numero di componenti a carico, con scarse relazioni sociali ed elevati tassi di disoccupazione. Questa situazione è favorita dalla bassa crescita economica e da una stagnante domanda di lavoro, che a loro volta provocano nuove povertà e accentuano il disagio sociale.
La disoccupazione tocca in modo preoccupante i giovani e si riflette pesantemente sulla famiglia, cellula fondamentale della società. Non è facile individuare quali possano essere le migliori politiche del lavoro da realizzare nel Mezzogiorno: certamente, però, si deve onorare il principio di sussidiarietà e puntare sulla formazione professionale. I giovani del Meridione non devono sentirsi condannati a una perenne precarietà che ne penalizza la crescita umana e lavorativa.
La disoccupazione non è frenata o alleggerita dal lavoro sommerso, che non è certo un sano ammortizzatore sociale e sconta talune palesi ingiustizie intrinseche (assenza di obblighi contrattuali e di contribuzioni assicurative, sfruttamento, controllo da parte della criminalità, ecc.). Il problema del lavoro, soprattutto giovanile, è attraversato da una zona grigia che si dibatte tra il non lavoro, il lavoro nero e quello precario; ciò causa delusione e frustrazione e allontana ancora di più il mercato del lavoro del Sud dagli standard delle altre aree europee.
Il flusso migratorio dei giovani, soprattutto fra i venti e i trentacinque anni, verso il Centro-Nord e l’estero, è la risultante delle emergenze sopra accennate. Oggi sono anzitutto figure professionali di livello medio-alto a costituire la principale categoria dei nuovi emigranti. Questo cambia i connotati della società meridionale, privandola delle risorse più importanti e provocando un generale depauperamento di professionalità e competenze, soprattutto nei campi della sanità, della scuola, dell’impresa e dell’impegno politico.
Anche le comunità ecclesiali subiscono gli effetti negativi di tale fenomeno, sperimentando al loro interno inedite difficoltà pastorali che pregiudicano considerevolmente la trasmissione della fede alle nuove generazioni.
II. PER COLTIVARE LA SPERANZA
11. Un nuovo protagonismo della società civile e della comunità ecclesiale
Il decennio successivo al 1989 è stato caratterizzato nelle regioni meridionali da un tasso di crescita che ha fatto sperare, anche se per poco, in una riduzione del divario con il resto dell’Italia. Tale tendenza positiva è stata parallela a una crescita della società civile, maggiormente consapevole di poter cambiare gradualmente una mentalità e una situazione da troppo tempo consolidate. Le coscienze dei giovani, che rappresentano una porzione significativa della popolazione del Mezzogiorno, possono muoversi con più slancio, perché meno disilluse, più coraggiose nel contrastare la criminalità e l’ingiustizia diffusa, più aperte a un futuro diverso.
Sono soprattutto i giovani, infatti, ad aver ritrovato il gusto dell’associazionismo tuttora particolarmente vivace in queste regioni , dando vita a esperienze di volontariato e a reti di solidarietà, non volendo più sentirsi vittime della rassegnazione, della violenza e dello sfruttamento. Per questo sono scesi in piazza per gridare che il Mezzogiorno non è tutto mafia o un luogo senza speranza. I loro sono volti nuovi di uomini e donne che si espongono in prima persona, lavorano con rinnovata forza morale al riscatto della propria terra, lottano per vincere l’amarezza dell’emigrazione, per debellare il degrado di tanti quartieri delle periferie cittadine e sconfiggere la sfiducia che induce a rinviare nel tempo la formazione di una nuova famiglia. Sono volti non rassegnati, ma coraggiosi e forti, determinati a resistere e ad andare avanti.
In questo impegno di promozione umana e di educazione alla speranza si è costantemente spesa la parte migliore della Chiesa nel Sud, che non si è solo allineata con la società civile più coraggiosa, rigettando e stigmatizzando ogni forma di illegalità mafiosa, ma soprattutto si è presentata come testimone credibile della verità e luogo sicuro dove educare alla speranza per una convivenza civile più giusta e serena[26]. Le Chiese hanno fatto sorgere e accompagnato esperienze di rinnovamento pastorale e di mobilitazione morale, che hanno coinvolto numerosi laici e tante aggregazioni laicali, sia tradizionali sia di recente creazione, come le associazioni antiusura e antiracket. Espressione di tale vitalità è anche la fecondità di vocazioni alla vita consacrata e al ministero ordinato che esse conoscono pure in questo tempo.
Così la Chiesa accoglie e ripropone con coraggio l’annuncio del Vangelo. Esso è veramente la buona notizia per chi è povero, umiliato, escluso e nello stesso tempo suona come monito ai superbi e ai prepotenti. È in forza di questo annuncio che il buon seme di Cristo, per vie tutte sue, comincia a germogliare e a portare frutto (cfr Mc 4,26-27) anche nelle terre del Sud. Quando la Chiesa e i singoli cristiani agiscono per svegliare dallo stato di torpore (cfr Sal 49,21) e dal rilassamento morale, che procura l’indurimento del cuore e la perdita del santo timore di Dio (cfr Is 63,17), dando voce a chi non ha voce, allora testimoniano la stessa opera di speranza compiuta dai profeti e da Cristo Signore, venuto anzitutto a salvare «le pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15,24).
La comunità ecclesiale, guidata dai suoi pastori, riconosce e accompagna l’impegno di quanti combattono in prima linea per la giustizia sulle orme del Vangelo e operano per far sorgere «una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile»[27]. Bisogna dunque favorire in tutti i modi nuove forme di partecipazione e di cittadinanza attiva, aiutando i giovani ad abbracciare la politica, intesa come servizio al bene comune ed espressione più alta della carità sociale[28].
12. Un esempio: il Progetto Policoro
Tra i segnali concreti di rinnovamento e di speranza che hanno per protagonisti i giovani, vogliamo citare in particolare per tutti il Progetto Policoro[29], avviato dall’incontro dei rappresentanti delle diocesi di Calabria, Basilicata e Puglia, a cui si unirono successivamente le diocesi di Campania, Sicilia, Abruzzo-Molise e Sardegna, con l’intento di affrontare il problema della disoccupazione giovanile, attivando iniziative di formazione a una nuova cultura del lavoro, promuovendo e sostenendo l’imprenditorialità giovanile e costruendo rapporti di reciprocità e sostegno tra le Chiese del Nord e quelle del Sud, potendo contare sulla fattiva collaborazione di aggregazioni laicali che si ispirano all’insegnamento sociale della Chiesa.
Il Progetto Policoro costituisce una nuova forma di solidarietà e condivisione, che cerca di contrastare la disoccupazione, l’usura, lo sfruttamento minorile e il lavoro nero. I suoi esiti sono incoraggianti per il numero di diocesi coinvolte e di imprese sorte, per lo più cooperative, alcune delle quali lavorano con terreni e beni sottratti alla mafia. Il Progetto rappresenta uno spazio di evangelizzazione, formazione e promozione umana per sperimentare soluzioni inedite al problema della disoccupazione. Così le nostre comunità ecclesiali investono sulle capacità dei giovani di promuovere un autentico sviluppo e di dare una testimonianza cristiana caratterizzata dalla solidarietà e dal rispetto della legalità. Esso ha una finalità essenzialmente educativa: ha reso possibile la formazione di animatori di comunità e ha promosso iniziative di scambio e forme di reciprocità. Come tale, costituisce un modello e uno stimolo a promuovere iniziative analoghe.
Del resto, non mancano certo esperienze di carattere locale e non solo in ambito lavorativo, suscitate e sostenute dalle Caritas diocesane, nella forma di organizzazioni di volontariato e di centri di accoglienza per immigrati.
13. Da un Sud differenziato un impegno unitario
L’ultimo decennio del secolo passato ha visto sorgere in talune aree del Sud imprese efficienti, distretti industriali funzionanti, microimprenditorialità diffuse, agricoltura specializzata. Purtroppo tale periodo rischia di rappresentare solo una parentesi, se non si interviene anche con infrastrutture, servizi e istituzioni adeguate.
Giova ricordare che il Mezzogiorno, dal punto di vista socio-economico, non è una realtà uniforme. Senza enfatizzare le differenze fra le diverse aree, bisogna riconoscere che si sono man mano create nel tempo condizioni per uno sviluppo diversificato, anche se i problemi e le emergenze comuni consentono ancora di parlare in maniera unitaria di Mezzogiorno. Perciò le regioni meridionali devono saper trovare una unità strategica, coordinandosi di fronte alle esigenze sociali in vista di una politica economica che porti effettivamente alla crescita.
Non bisogna perdere di vista, in tal senso, ciò che di buono è stato fatto in questi anni, assicurando un intreccio, spesso virtuoso, tra intervento pubblico e iniziativa privata, tenendo conto anche delle mutate condizioni del contesto internazionale con l’allargamento dell’Unione europea e l’entrata sul mercato mondiale di nuovi protagonisti. Il Mezzogiorno può trovare una sua nuova centralità in primo luogo per la ricchezza di risorse umane inutilizzate e per la possibilità concreta di specializzare produttivamente il territorio. Solo così sarà possibile riscoprire e valorizzare le risorse tipiche del Meridione: la bellezza dell’ambiente naturale, il territorio e l’agricoltura, insieme al patrimonio culturale, di cui una parte rilevante è espressione della tradizione cristiana, senza trascurare quel tratto umano che caratterizza il clima di accoglienza e solidarietà proprio delle genti del Sud[30].
Non si può omettere un accenno al problema demografico, gravissimo per tutto il Paese. Il Sud, pur in mezzo a difficoltà economiche, continua, per ora, ad avere un tasso di natalità superiore alla media nazionale. Questa preziosa risorsa esprime fiducia verso il futuro ed è la prima concreta attuazione della speranza nell’accoglienza della vita, manifestando peraltro il legame inscindibile tra condizioni sociali ed economiche e questione antropologica[31]. È perciò necessario favorire questa linea di tendenza in tutto il Paese, ma soprattutto al Sud, dove più numerose sono le giovani donne e più forte il capitale culturale della famiglia.
III. LE RISORSE DELLA RECIPROCITà E LA CURA PER L’EDUCAZIONE
14. La missione pastorale della Chiesa
Le comunità cristiane costituiscono un inestimabile patrimonio e un fattore di sviluppo e di coesione di cui si avvale l’intero tessuto sociale. Lo sono in quanto realtà ecclesiali, edificate dalla Parola di Dio, dall’Eucaristia e dalla comunione fraterna, dedite alla formazione delle coscienze e alla testimonianza della verità e dell’amore. Fedeli alla loro identità, costituiscono anche un prezioso tessuto connettivo nel territorio, un centro nevralgico di progettualità culturale, una scuola di passione e di dedizione civile.
Nelle comunità cristiane si sperimentano relazioni significative e fraterne, caratterizzate dall’attenzione all’altro, da un impegno educativo condiviso, dall’ascolto della Parola e dalla frequenza ai sacramenti. Sono luoghi «dove le giovani generazioni possono imparare la speranza, non come utopia, ma come fiducia tenace nella forza del bene. Il bene vince e, se a volte può apparire sconfitto dalla sopraffazione e dalla furbizia, in realtà continua ad operare nel silenzio e nella discrezione portando frutti nel lungo periodo»[32]. Questo è il rinnovamento sociale cristiano, «basato sulla trasformazione delle coscienze, sulla formazione morale, sulla preghiera; sì, perché la preghiera dà la forza di credere e lottare per il bene anche quando umanamente si sarebbe tentati di scoraggiarsi e di tirarsi indietro»[33].
È questo il primo, insostituibile apporto che le Chiese nel Sud hanno da offrire alla società civile: le risorse spirituali, morali e culturali che germogliano da un rinnovato annuncio del Vangelo e dall’esperienza cristiana, dalla presenza capillare nel territorio delle parrocchie, delle comunità religiose, delle aggregazioni laicali e specialmente dell’Azione Cattolica, delle istituzioni educative e di carità, fanno vedere e toccare l’amore di Dio e la maternità della Chiesa, popolo che cammina nella storia e punto di riferimento per la gente, di cui condivide giorno dopo giorno le fatiche e le speranze.
Nell’esperienza delle popolazioni del Mezzogiorno un ruolo importante svolge la pietà popolare, di cui la Chiesa apprezza il valore, vigilando nel contempo per ricondurne a purezza di fede le molteplici manifestazioni, in particolare le feste religiose dei santi patroni. In essa bisogna riconoscere un patrimonio spirituale che non cessa di alimentare il senso del vivere di tanti fedeli, infondendo loro coraggio, pazienza, perseveranza, solidarietà, capacità di resistenza al male e speranza oltre ogni ostacolo e difficoltà.
Le comunità ecclesiali devono avvertire l’urgenza di testimoniare questa attesa di novità per una speranza che guardi con fiducia al futuro. A esse, a cominciare dal tessuto delle parrocchie, è affidata la missione di curare la qualità della vita spirituale e dell’azione pastorale, promuovendo forme di condivisione e di scambio che accrescano il senso della comunione ecclesiale e fermentino la coscienza e la responsabilità in tutti gli aspetti della vita sociale e civile.
Il cristiano non si rassegna mai alle dinamiche negative della storia: nutrendo la virtù della speranza, da sempre coltiva la consapevolezza che il cambiamento è possibile e che, perciò, anche la storia può e deve convertirsi e progredire.
15. Condivisione ecclesiale
Nello scambio tra le Chiese va promosso ogni impegno a superare le chiusure prodotte da inerzie e stanchezze, da una prassi pastorale ripetitiva, per giovarsi delle reciproche ricchezze, sperimentando la bellezza di essere Chiese con qualità e beni spirituali differenti, che attendono di poter donare e ricevere quanto il Signore ha suscitato e fatto crescere in ciascuna di esse.
D’altra parte, se non saranno per prime le nostre comunità a sentire il desiderio dello scambio e del mutuo aiuto, come potremo aspettarci che le disuguaglianze e le distanze siano superate negli altri ambiti della convivenza nazionale? Al contrario, proprio la forza di questo intreccio di volontà di condivisione e di arricchimento reciproco sul piano spirituale e pastorale diventa fermento, motivazione e incoraggiamento perché tutta la vita sociale, anche nelle sue dimensioni economiche e politiche, sia spinta verso traguardi sempre più alti di giustizia e di solidarietà.
La Chiesa, che nasce dalla relazione d’amore attuata nello Spirito tra Gesù e il Padre, vive e si arricchisce nello scambio tra singoli fedeli, comunità e Chiese sorelle. A partire dalla comunione di fede e di preghiera, potrà realizzarsi anche in Italia un mutuo scambio di sacerdoti, di diaconi permanenti e di laici qualificati che, spinti dalla carità, guardano oltre il proprio campanile e si prendono a cuore le sorti di chi è lontano. Qualcosa del genere è già in atto, dal momento che, a motivo dell’emigrazione, forze ecclesiali vive del Meridione si trasferiscono in altre parti del Paese. Non mancano, in senso inverso, presenze ed esperienze ecclesiali che affluiscono dal Nord verso il Sud.
Ogni Chiesa custodisce una ricchezza spirituale da condividere con le altre Chiese del Paese, tutte cariche di esperienze pastorali e capaci di iniziativa. Grazie alla reciproca interazione, esse potranno rispondere alle attese del tempo presente, per divenire fermento di una società rinnovata nella qualità delle persone e nella gestione delle dinamiche comunitarie.
Siamo consapevoli che il patrimonio di fede e di comunione ecclesiale è in vari modi minacciato da processi culturali e sociali di secolarizzazione e da fenomeni di incremento del pluralismo ideale e religioso. Non dimentichiamo, nondimeno, che proprio le regioni meridionali attestano ancora largamente un forte radicamento popolare del senso religioso e cristiano della vita. Le difficoltà del tempo presente possono diventare un motivo in più per vincere la tentazione dello scoraggiamento, accrescendo il senso di responsabilità dei credenti.
16. Le sfide culturali
Il problema dello sviluppo del Mezzogiorno non ha solo un carattere economico, ma rimanda inevitabilmente a una dimensione più profonda, che è di carattere etico, culturale e antropologico: ogni riduzione economicistica specie se intesa unicamente come politica delle opere pubbliche’ si è rivelata e si rivelerà sbagliata e perdente, se non perfino dannosa.
Cultura del bene comune, della cittadinanza, del diritto, della buona amministrazione e della sana impresa nel rifiuto dell’illegalità: sono i capisaldi che attendono di essere sostenuti e promossi all’interno di un grande progetto educativo. La Chiesa deve alimentare costantemente le risorse umane e spirituali da investire in tale cultura per promuovere il ruolo attivo dei credenti nella società. Infatti «per la Chiesa il messaggio sociale del Vangelo non deve essere considerato una teoria, ma prima di tutto un fondamento e una motivazione per l’azione»[34].
Ai fedeli laici, in particolare, è affidata una missione propria nei diversi settori dell’agire sociale e nella politica. «Il compito immediato di agire in ambito politico per costruire un giusto ordine nella società non è dunque della Chiesa come tale, ma dei fedeli laici, che operano come cittadini sotto propria responsabilità: si tratta di un compito della più grande importanza, al quale i cristiani laici italiani sono chiamati a dedicarsi con generosità e con coraggio, illuminati dalla fede e dal magistero della Chiesa e animati dalla carità di Cristo»[35].
In una prospettiva di impegno per il cambiamento, soprattutto i giovani sono chiamati a parlare e testimoniare la libertà nel e del Mezzogiorno. Non sembri un paradosso evocare il bisogno di riappropriarsi della libertà e della parola in una società democratica, ma i giovani del Sud sanno bene che cosa significhino omertà, favori illegali consolidati, gruppi di pressione criminale, territori controllati, paure diffuse, itinerari privilegiati e protetti. Ma sanno anche che le idee, quando sono forti e vengono accompagnate da un cambiamento di mentalità e di cultura, possono vincere i fantasmi della paura e della rassegnazione e favorire una maturazione collettiva. Essi possono contribuire ad abbattere i tanti condizionamenti presenti nella società civile.
L’esigenza di investire in legalità e fiducia sollecita un’azione pastorale che miri a cancellare la divaricazione tra pratica religiosa e vita civile e spinga a una conoscenza più approfondita dell’insegnamento sociale della Chiesa, che aiuti a coniugare l’annuncio del Vangelo con la testimonianza delle opere di giustizia e di solidarietà.
«La maggiore forza a servizio dello sviluppo è un umanesimo cristiano»[36]. Per questa ragione, rivendichiamo alla dimensione educativa, umana e religiosa, un ruolo primario nella crescita del Mezzogiorno: uno sviluppo autentico e integrale ha nell’educazione le sue fondamenta più solide, perché assicura il senso di responsabilità e l’efficacia dell’agire, cioè i requisiti essenziali del gusto e della capacità di intrapresa. I veri attori dello sviluppo non sono i mezzi economici, ma le persone. E le persone, come tali, vanno educate e formate: «lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l’appello del bene comune»[37].
17. La questione educativa, priorità ineludibile
Sin dal 1996 i Vescovi siciliani hanno additato la sfida educativa come la più decisiva per lo sviluppo integrale del Sud[38]. Essi hanno spiegato chiaramente che le metamorfosi sociali ed economiche che si sono attuate anche nel Mezzogiorno hanno reso sempre più incerto sia il senso della socialità sia quello della legalità. Il deficit di senso della socialità «ha prodotto tendenze egoistiche, gonfiando il catalogo dei diritti e delle pretese dei singoli, esaltando l’individualismo, lasciando in ombra i doveri, le relazioni, le responsabilità»[39]. L’indebolimento del senso di legalità, poi, «ha prodotto un inquinamento esteso e profondo che investe non soltanto la devianza penale, ma la stessa cultura delle regole di una convivenza ordinata»[40]. Questa analisi rimane tuttora valida, così come la proposta di rilanciare un serio e vigoroso processo educativo, destinato specialmente ai giovani, perché siano formati a dare un contributo qualificato alla società.
Di fatto è nel campo dell’educazione delle giovani generazioni, a livello scolare, ma anche universitario e post-universitario, nonché professionale, che si riscontra oggi una tendenza al ribasso, che omologa in negativo tutte le regioni d’Italia. Si deve reagire urgentemente contro questo progressivo degrado.
Il Mezzogiorno può divenire un laboratorio in cui esercitare un modo di pensare diverso rispetto ai modelli che i processi di modernizzazione spesso hanno prodotto, cioè la capacità di guardare al versante invisibile della realtà e di restare ancorati al risvolto radicale di ciò che conosciamo e facciamo: al gratuito e persino al grazioso, e non solo all’utile e a ciò che conviene; al bello e persino al meraviglioso, e non solo al gusto e a ciò che piace; alla giustizia e persino alla santità, e non solo alla convenienza e all’opportunità.
Per far maturare questa particolare sensibilità, spirituale e culturale a un tempo, è necessario impegnarsi in una nuova proposta educativa, rigenerando e riordinando gli ambiti in cui ci si spende per l’educazione e la formazione dei giovani. La questione scolastica dev’essere affrontata come espressione della questione morale e culturale che preoccupa tutti in Italia e che nel Mezzogiorno raggiunge livelli drammatici.
Una concreta espressione di attenzione pastorale potrebbe consistere nella definizione di percorsi mirati per i giovani più dotati, in particolare per quelli che si trasferiscono nel Centro-Nord per continuare gli studi. Quest’azione dovrebbe coinvolgere anche le autorità civili, come forma di investimento per disporre domani di una classe dirigente adeguatamente preparata, valorizzando tutte le risorse nazionali ed europee. Un ruolo educativo particolare riveste la famiglia e, al suo interno, in particolare la presenza tradizionale e ricca di sapienza della donna.
A maggior ragione ci sentiamo provocati dalla sfida educativa sul versante intraecclesiale della catechesi. Questa pure, nelle parrocchie e in ogni realtà associativa, va ripensata e rinnovata. Essa dev’essere dotata il più possibile di una efficacia performativa: non può, cioè, limitarsi a essere scuola di dottrina, ma deve diventare occasione d’incontro con la persona di Cristo e laboratorio in cui si fa esperienza del mistero ecclesiale, dove Dio trasforma le nostre relazioni e ci forma alla testimonianza evangelica di fronte e in mezzo al mondo. Da essa dipende non soltanto la corretta ed efficace trasmissione della fede alle nuove generazioni, ma anche lo stimolo a curare e maturare una qualità alta della vita credente negli adolescenti e nei giovani.
In questo quadro trova spazio l’esigenza di ripensare e di rilanciare le scuole di formazione sociale e politica, come pure le iniziative di formazione comunitaria intensiva.
18. Alla scuola dei testimoni
Nello svolgimento della nostra missione educativa, un ruolo di prima grandezza è svolto dall’insegnamento e dalla testimonianza dei santi, che sono «come una parola di Dio» incarnata, rivolta a noi qui e ora[41]. Accanto a loro, rifulgono non poche grandi personalità spirituali, rappresentative anche ai nostri giorni della Chiesa del Mezzogiorno.
Fra queste, abbiamo già ricordato don Pino Puglisi, prete palermitano, parroco nel quartiere Brancaccio, dove fu ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993. Egli seppe magistralmente coniugare, soprattutto nell’impegno educativo tra i giovani, le due istanze fondamentali dell’evangelizzazione e della promozione umana[42], che configurano l’orizzonte di quell’umanesimo integrale, che trova nell’Eucaristia origine e compimento.
Dalla vicenda eucaristica di don Puglisi, come di chiunque ha reso testimonianza a Cristo fino al dono della propria vita, si può ricavare, appunto, la consapevolezza credente che pane e Vangelo non possono essere disgiunti né nelle attese della nostra gente, né nella volontà di Dio. Il pane dà l’idea della quotidianità nel sostentamento di ciascuno: è simbolo della possibilità di vivere, a volte di sopravvivere, che invochiamo ogni giorno nella preghiera che Cristo ci ha consegnato (cfr Lc 11,3). Il Vangelo ci è donato e spiegato da colui che lo ha annunciato per primo, con la sua stessa Pasqua, come un granello di senapa (cfr Mc 4,30-32), come un pizzico di sale (cfr Mt 6,13), come un frammento di lievito (cfr Mt 13,33), come un chicco di frumento che marcisce per poi germogliare tra le zolle di un terreno altrimenti destinato a restare sterile (cfr Gv 12,24): cioè come appello esigente all’umile ma coraggioso dono di sé. Don Pino Puglisi lo sapeva e lo insegnava ai giovani che partecipavano agli incontri e ai campi vocazionali da lui organizzati per la diocesi di Palermo, come pure ai ragazzi della sua parrocchia.
Si può ben dire ai giovani del Mezzogiorno che pane e Vangelo non possono e non devono essere separati: l’impegno sociale di don Puglisi non può essere separato dalla fede cristiana che lo animò e lo sostenne, non solo in mezzo a tante difficoltà, ma persino di fronte alla morte violenta presentita e accettata.
Invito al coraggio e alla speranza
19. Un invito
Giunti alla conclusione, noi Vescovi rivolgiamo un invito alla speranza alle comunità ecclesiali del Paese, in particolare del Mezzogiorno, e a tutti gli uomini di buona volontà. Contro ogni tentazione di torpore e di inerzia, abbiamo il dovere di annunciare che i cambiamenti sono possibili. Non si tratta di ipotizzare scenari politici diversi, quanto, piuttosto, di sostituire alla logica del potere e del benessere la pratica della condivisione radicata nella sobrietà e nella solidarietà.
Proprio per dare ragione della speranza che ci guida, noi, Pastori del gregge di Cristo, ci siamo fatti carico di una valutazione della situazione sociale ed ecclesiale che caratterizza oggi, tra luci e ombre, la condizione delle genti del Sud. La consolazione che ci viene dalle Scritture (cfr Rm 15,4) e la consapevolezza di essere Chiesa ci donano, nonostante tutto, uno sguardo fiducioso, perché siamo certi che Dio ha a cuore progetti di vita e di crescita per tutti. Sappiamo anche che l’amore di Cristo ci spinge a ricercare il bene comune, nel rispetto della dignità di ogni persona, senza cedere a paure ed egoismi che alimentano miopi interessi di parte e mortificano la nostra tradizione solidaristica.
Vorremmo consegnarvi quel tesoro di speranza e di carità che è già all’opera per la potenza dello Spirito nelle nostre Chiese, contrassegnate da una ricchezza di umanità e di ingegno, cui deve corrispondere una rinnovata volontà di dedizione e un più convinto impegno. Sono risorse preziose, che stenteranno a sprigionarsi fino a quando gli uomini e le donne del Sud non comprenderanno che non possono attendere da altri ciò che dipende da loro e che va contrastata ogni forma di rassegnazione e fatalismo. Una mentalità inoperosa e rinunciataria può rivelarsi un ostacolo insormontabile allo sviluppo, più dannoso della mancanza di risorse economiche e di strutture adeguate.
Per le comunità cristiane e per i singoli fedeli un atteggiamento costruttivo rappresenta lo spazio spirituale entro cui progettare e attivare ogni iniziativa pastorale per crescere nella speranza. Svelare la verità di un disordine abilmente celato e saturo di complicità, far conoscere la sofferenza degli emarginati e degli indifesi, annunciando ai poveri, in nome di Dio e della sua giustizia, che un mutamento è possibile, è uno stile profetico che educa a sperare. Occorre però che il senso cristiano della vita diventi fermento e anima di una società riscattata da ritardi e ingiustizie, capace di stare al passo del cammino economico, sociale e culturale del Paese intero.
Ci rivolgiamo, perciò, alle comunità ecclesiali italiane, affinché accrescano la coscienza condivisa della responsabilità di tutti nei confronti di ciascuno e di ciascuno nei confronti di tutti. Consapevoli che la pratica della solidarietà, lungi dall’impoverire, arricchisce e moltiplica, dobbiamo adoperarci perché chi è rimasto indietro si adegui al passo degli altri. Il nostro non è un ottimismo di facciata, ma una speranza radicata nel segno sacramentale dell’Eucaristia. La predicazione profetica di Gesù suscitava stupore perché annunciava un’esistenza degna, diversa, rinnovata, una moralità più giusta e praticabile, attivando energie altrimenti trascurate e sprecate, innescando l’attesa di una trasformazione possibile.
20. e un appello
Ecco allora il nostro appello: bisogna osare il coraggio della speranza!
Vorremmo congedarci da voi incoraggiandovi a uno a uno, carissimi, con le stesse esortazioni della Scrittura.
Anzitutto scriviamo a voi, sacerdoti, come a figli e amici[43], perché ricordandovi dei vostri fratelli presbiteri la cui vita è stata immolata, considerando attentamente l’esito finale della loro vita, ne imitiate la fede (cfr Eb 13,7), perseverando nel vostro annuncio per confortare i miseri e per fasciare le piaghe dei cuori spezzati (cfr Is 61,1).
A voi associamo nel nostro ricordo e nella nostra preghiera quanti faticano a servizio del santo Vangelo e dei poveri, cominciando dai diaconi, eletti dispensatori della carità, e dagli altri ministri, abbracciando pure l’Azione Cattolica, le altre associazioni, i movimenti e le aggregazioni ecclesiali. In tutti lo Spirito Santo sia effuso come gioia e speranza, perché nessuno si abbatta a causa delle difficoltà e delle incomprensioni e proceda con la forza del Signore per ricostruire le vecchie rovine e rialzare gli antichi ruderi (cfr Is 61,4), infondendo in quanti sono nella prova la pace che solo il Signore può dare (cfr Gv 14,33).
Scriviamo a voi, consacrati e consacrate all’amore del Signore, lampade di speranza che ardete nel santuario di Dio, che è la Chiesa: non venga meno la preghiera in voi, che rammentate le promesse al Signore, perché egli non abbandoni l’opera delle sue mani (cfr Sal 138,8).
Scriviamo a voi, famiglie, che siete cellule vive della Chiesa, indirizzandovi una parola di speranza, perché abbiate coraggio nelle tribolazioni del mondo (cfr Gv 16,33) e non vi lasciate intimorire dai messaggi di morte e di terrore. State saldi in un solo spirito e combattete unanimi per la fede del Vangelo (cfr Fil 1,27). A questo educate i vostri figli, perché crescano nel timore del Signore amando questa nostra terra come madre e non come luogo conteso da privilegi, avidità ed egoismi.
Scriviamo a voi giovani, perché sappiate che in voi Cristo vuole operare cose grandi: rivestitevi perciò di speranza e costruite la casa comune nel vincolo dell’amore fraterno e nella fede salda. Se la parola di Dio dimora in voi, potete vincere il maligno in tutti i suoi volti (cfr 1Gv 2,14) e dare un futuro alla nostra terra.
Scriviamo a voi, uomini e donne di buona volontà, cercatori di giustizia e di pace, perché, anche se sconosciuti al mondo, siete conosciutissimi da Dio (cfr 2Cor 6,9) e affrettate con la vostra fatica la venuta del Signore (cfr 1Pt 3,12).
Su tutti scenda la nostra benedizione di pace e di grazia nel Signore.
Roma, 21 febbraio 2010
Prima Domenica di Quaresima
[1] Conferenza Episcopale Italiana, Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno, 18 ottobre 1989, n. 1. «Tale documento disse Giovanni Paolo II il 9 novembre 1990 a Napoli, incontrando la popolazione in piazza Plebiscito può ben essere considerato la traduzione non solo pastorale, ma anche politica, nel senso più alto del termine, del progetto di organizzazione della speranza nella vasta area del Mezzogiorno» (n. 3). Esso richiamava, a distanza di quarant’anni, la Lettera collettiva dell’Episcopato dell’Italia meridionale del 25 gennaio 1948 I problemi del Mezzogiorno, che, a sua volta, dopo aver analizzato la religiosità delle popolazioni del Sud, poneva in evidenza le profonde esigenze di giustizia nei rapporti di lavoro soprattutto in riferimento all’economia agraria meridionale, auspicando una «religione più pura ed una giustizia più piena» (n. 1).
[2] L’espressione fu desunta dal documento del Consiglio Episcopale Permanente La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, 23 ottobre 1981, n. 8.
[3] Secondo le parole di Benedetto XVI, nella Lettera enciclica Caritas in veritate, 29 giugno 2009, il bene comune è «il bene di quel noi-tutti, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale. Non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene» (n. 7).
[4] Ib., n. 19.
[5] «Se l’amore è intelligente, sa trovare anche i modi per operare secondo una previdente e giusta convenienza» (ib., n. 65).
[6] Discorso al III Convegno Ecclesiale Nazionale, Palermo 23 novembre 1995, n. 5.
[7] Cfr Russo A. (a cura di), Chiesa nel Sud Chiese del Sud. Nel futuro da credenti responsabili, Bologna 2009.
[8] Cfr Benedetto XVI, Esortazione apostolica Sacramentum caritatis, 22 febbraio 2007, n. 21.
[9] Cfr Conferenza Episcopale Siciliana Facoltà Teologica di Sicilia, Per un discernimento cristiano sull’Islam, Palermo 2004.
[10] Cfr Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Centesimus annus, 1° maggio 1991, nn. 22-29. Cfr anche Caritas in veritate, n. 37.
[11] Ib., n. 40.
[12] Ib., n. 39.
[13] Ib., n. 97.
[14] Ib., n. 31.
[15] Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno, n. 31.
[16] Cfr Caritas in veritate, n. 57.
[17] Ib., n. 58.
[18] Cfr Giovanni Paolo II, Discorso al Parlamento italiano in seduta pubblica comune, 14 novembre 2002.
[19] Cfr Centesimus annus, nn. 46-47.
[20] Cfr Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno, n. 14.
[21] Giovanni Paolo II, Incontro con i giovani nello stadio San Paolo, Napoli, 10 novembre 1990, n. 3.
[22] Conferenza Episcopale Calabrese, Lettera alle nostre Chiese di Calabria nel fascino dei nostri santi meridionali, 13 febbraio 2005.
[23] Angelus, 1° gennaio 2010. Nella Nota pastorale Nuova evangelizzazione e pastorale, pubblicata nell’aprile 1994, la Conferenza episcopale siciliana affermava: «La mafia appartiene, senza possibilità di eccezioni, al regno del peccato e fa dei suoi operatori altrettanti operai del maligno. Per questa ragione, tutti coloro che in qualsiasi modo deliberatamente fanno parte della mafia e ad essa aderiscono o pongono atti di connivenza con essa debbono sapere di essere e di vivere in insanabile opposizione al Vangelo di Gesù Cristo e, per conseguenza, di essere fuori dalla comunione della sua Chiesa» (n. 12).
[24] Cfr Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia, 2 dicembre 1984, n. 16.
[25] Caritas in veritate, n. 7.
[26] «Come non riconoscere che la gente del meridione, in tanti suoi esponenti, viene da tempo riproponendo le ragioni di una cultura della moralità, della legalità, della solidarietà, che sta progressivamente scalzando alla radice la mala pianta della criminalità organizzata? Io non posso non ripetere, a questo proposito, il grido che mi è uscito dal cuore ad Agrigento, nella Valle dei Templi: Non uccidere’. Nessun uomo, nessuna associazione umana, nessuna mafia può cambiare e calpestare il diritto alla vita, questo diritto santissimo di Dio» (Giovanni Paolo II, Discorso al III Convegno Ecclesiale Nazionale, Palermo, 23 novembre 1995, n. 5).
[27] Benedetto XVI, Omelia nella Celebrazione eucaristica sul sagrato del Santuario di Nostra Signora di Bonaria, Cagliari, 7 settembre 2008.
[28] Cfr Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 581.
[29] Nato all’indomani del Convegno Ecclesiale di Palermo su iniziativa di mons. Mario Operti, allora Direttore dell’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro, con il coinvolgimento del Servizio Nazionale per la pastorale giovanile e di Caritas Italiana. Il primo incontro si svolse a Policoro (MT) il 14 dicembre 1995.
[30] Già il documento del 1989 annoverava tra le caratteristiche dell’antropologia meridionale un’etica del lavoro, inteso come «fatica», sacrificio, ricerca sofferta di un posto di lavoro anche all’estero, l’amore alla vita e il culto dell’amicizia, il gusto della diversità e della pluriformità, il senso della famiglia come centro di affetti, di fecondità ed espressione di solidarietà, infine una sentita religiosità popolare (cfr Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno, nn. 10-11).
[31] Cfr Caritas in veritate, n. 75.
[32] Benedetto XVI, Omelia nella Celebrazione eucaristica sul piazzale del Santuario di S. Maria de finibus Terrae, S. Maria di Leuca, 14 giugno 2008.
[33] Ib.
[34] Centesimus annus, n. 57.
[35] Benedetto XVI, Discorso al IV Convegno Ecclesiale Nazionale, Verona, 19 ottobre 2006.
[36] Caritas in veritate, n. 78.
[37] Ib., n. 71.
[38] Conferenza Episcopale Siciliana, «Finché non sorga come stella la sua giustizia». Riflessione dei Vescovi di Sicilia nel 50° anniversario dello Statuto della Regione Siciliana, 15 maggio 1996.
[39] Ib., n. 14.
[40] Ib.
[41] Cfr Lumen gentium, n. 50b.
[42] Cfr Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, 8 dicembre 1975, n. 31.
[43] Cfr Christus Dominus, n. 16.