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Chiesa e abusi sessuali. L’intervento di mons. Crociata alla Commissione presbiterale

Riprendiamo dall’Osservatore Romano di venerdì 30 aprile 2010 gli ampi stralci pubblicati dell’intervento del segretario generale della Conferenza episcopale italiana, vescovo Mariano Crociata, alla riunione della Commissione presbiterale italiana.

di MARIANO CROCIATA

L’educazione umana e quella cristiana sono tra loro in un rapporto molto stretto, anche se non vanno confuse, così che un percorso educativo esemplare dà forma indivisibilmente ad un buon cittadino e ad un vero cristiano. Come presbiteri, dunque, abbiamo la responsabilità di avvertire l’intreccio di motivi apparentemente distanti in un servizio ministeriale che edifica la comunità ecclesiale facendo crescere mature persone credenti.

La composizione dei diversi apporti così segnalati dentro un unitario e convergente progetto educativo ecclesiale lascia intravedere un cammino fecondo per i prossimi anni, affidato alla nostra responsabilità e al nostro impegno. Una prospettiva non difforme disegnano altri momenti e temi significativi della vita della Chiesa in Italia. Un primo evento è costituito dal procedere coinvolgente e sistematico della preparazione della prossima Settimana Sociale, in programma dal 14 al 17 ottobre a Reggio Calabria, di cui è imminente la divulgazione del documento preparatorio. Un secondo momento riguarda la pubblicazione del «Vademecum per la pastorale delle parrocchie cattoliche verso gli orientali non cattolici» (23 febbraio 2010).

Mi sembra importante accennare anche ad una questione che travaglia ormai da decenni la nostra società e che tocca mentalità e cultura diffuse nel nostro Paese: mi riferisco al tema dell’aborto, nel quadro vasto e complesso dell’accoglienza della vita e dei problemi di tipo bioetico ad essa connessi, a cui non ha mancato di fare ripetuti riferimenti Benedetto XVI nel suo magistero anche recente. Ho voluto richiamare questo punto perché proprio nell’ultimo periodo è stato autorizzato l’uso della pillola RU486, seppure solo in regime ospedaliero. Inoltre è nota la produzione di farmaci il cui effetto consiste nel cancellare preventivamente ogni traccia di eventuale concepimento, con il risultato che la donna che ha assunto tali sostanze non saprà se sia avvenuta una fecondazione.

La questione educativa è a suo modo interpellata dai gravi e tristi episodi di pedofilia che hanno coinvolto alcuni ecclesiastici e hanno suscitato una vasta eco mediatica. Probabilmente siamo ancora condizionati dalla impressione suscitata dal flusso continuo di notizie e commenti. Tuttavia, sia pure consapevoli della delicatezza e della complessità del tema, dobbiamo cercare di condurre una riflessione pacata e il più possibile oggettiva. Il rischio è quello delle estremizzazioni e degli unilateralismi: da una difesa per partito preso e dalla giustificazione assolutoria al colpevolismo e al giustizialismo. Bisogna anzitutto correggere, tra i tanti, un luogo comune ricorrente, che vorrebbe il magistero ecclesiastico fino all’altro ieri tollerante verso certe pratiche, quando invece la condanna esplicita della pedofilia non è cosa di oggi, ma va ricondotta almeno a documenti del 1922 e del 1962, che ne stigmatizzavano in maniera inequivocabile la natura criminosa e aberrante. Chi ha favorito atteggiamenti di indulgenza o pratiche di rimozione non ha mai applicato direttive di Chiesa, ma semmai le ha tradite, stravolgendo la doverosa riservatezza in complice copertura.

Senza dubbio c’è stata una evoluzione nella sensibilità sociale, che ha portato da un lato ad una più netta e condivisa percezione della inaudita gravità della pedofilia e dall’altro all’esigenza di una totale trasparenza nella individuazione e nel contrasto di comportamenti e responsabilità. Si tratta dì una evoluzione positiva, che ha trovato una risposta adeguata e pronta nei documenti emanati sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, e, più recentemente, nella «Lettera pastorale ai cattolici d’Irlanda» (19 marzo 2010) di Benedetto XVI e nella «Guida alla comprensione delle procedure di base della Congregazione per la Dottrina della Fede riguardo alle accuse di abusi sessuali» (12 aprile 2010).

Bisogna dire però che l’evoluzione della sensibilità comune si muove, purtroppo, dentro una interna contraddizione etica e culturale che non può essere occultata. Infatti, pur senza evocare le posizioni estreme di chi vorrebbe legittimare dal punto di vista culturale la pratica della pedofilia e avendo presente la diffusione incontrollata di pratiche e di immagini connesse con la pedofilia, non è improprio osservare che la cultura pansessualistica ed edonistica tanto diffusa non aiuta certo a sviluppare il senso del rispetto delle persone, specialmente delle più fragili e indifese, ridotte a oggetto di desiderio e di piacere.

Posto che un solo caso di pedofilia è già di troppo, in qualsiasi ambiente, un tale comportamento è doppiamente condannabile quando a metterlo in atto è un uomo di Chiesa, un prete, una persona consacrata. Per questo non basta dire che, in proporzione numerica, i casi di pedofilia tra il clero sono uguali o addirittura inferiori a quelli che si verificano in altre categorie di persone. Non possiamo infatti sorprenderci se la reazione di fronte ad abusi commessi da ecclesiastici è stata così forte. Noi stessi siamo cultori della grandezza e della elevatezza del ministero che ci è stato affidato, e desideriamo diffondere questo senso di sacralità nei fedeli e attorno a noi: è comprensibile che chi ci incontra si aspetti dal sacerdote un comportamento corrispondente. La rabbia e l’amarezza hanno un significativo rapporto con la consapevolezza dell’alta qualità morale e umana del clero, nonché con l’affidabilità maggiore da noi offerta e attesa dagli altri, particolarmente in rapporto ai minori consegnati alla nostra guida e alla nostra responsabilità educativa. Le aspettative più alte alimentate dal nostro ministero rendono smisuratamente più intollerabile e condannabile un tradimento così grave e devastante.

Detto questo, è doveroso aggiungere che ogni generalizzazione è indebita, e precisamente nelle due direzioni: nel far credere che in ogni prete si celi un potenziale pedofilo o, all’opposto, nel supporre che le accuse di pedofilia siano soltanto il frutto di un complotto architettato contro la Chiesa. Il fatto che qualche giornale o gruppo di pressione abbia intentato una campagna denigratoria, prendendo spunto da alcune notizie, non può far concludere che si tratti soltanto di una montatura mediatica. D’altra parte, l’emergere di casi puntuali non può dare adito a giudizi sommari, di per sé sempre superficiali. È necessario, invece, attenersi il più possibile ai fatti, senza lasciarsi sopraffare dal clamore delle notizie ad effetto né da un acritico garantismo, profondamente ingiusto rispetto alle vittime, che sono – non dimentichiamolo – nostri fratelli e sorelle nella fede e nella Chiesa.

Ci troviamo di fronte a persone da tutelare e da accompagnare: qui sta la sfida e la difficoltà di una condizione umana che interpella la responsabilità di tutti. Le vittime hanno bisogno di giustizia e di solidarietà; necessitano di essere protette e difese e poi accompagnate in un lungo cammino di recupero e di riconciliazione anzitutto con la loro storia. Dall’altra parte, anche gli autori degli abusi vanno accompagnati, senza falsa pietà, in un percorso di correzione e di contenimento che impedisca la reiterazione del male e ne favorisca il processo di redenzione.

La comunità cristiana, in tutto questo, si trova in una posizione peculiare, poiché è doppiamente colpita e danneggiata nei suoi membri, sia offensori che vittime; ma è ferita anche nella sua immagine pubblica in ordine all’esercizio della sua missione pastorale. A tutto ciò essa deve rispondere secondo lo stile di verità che le è proprio, ovvero secondo giustizia e misericordia. Ciò esige solidarietà e sostegno alle vittime, rigore e accompagnamento – nel rispetto delle leggi della Chiesa e dello Stato – verso chi si è reso responsabile di abusi, purificazione e penitenza al proprio interno, coraggio e rinnovato slancio nel condurre la propria missione.

Sempre, nel corso della storia, la Chiesa scopre nella prova di essere depositaria di una grazia, di una forza, di una integrità che non vengono dai suoi membri, ma dall’alto, cioè dal Signore. Perciò questo momento deve essere affrontato con coraggio e secondo verità. Non si deve aver paura di evidenziare e togliere il male di mezzo a noi, ma nello stesso tempo non si deve aver paura di annunciare il Vangelo. Si può aver vergogna di se stessi, ma non del Vangelo. E naturalmente, per non vergognarci del Vangelo, dobbiamo adoperarci per aderirvi con il cuore e con la vita, con tutto di noi stessi.

In conclusione, ritengo che si debbano avere due tipi di attenzioni. La prima riguarda la necessaria interazione e distinzione fra tre ambiti: lo spazio della giustizia umana, la competenza delle scienze, il regime della grazia e il suo ordinamento ecclesiale; in altre parole, il delitto, la malattia, il peccato. Di una persona che si macchia di abusi su minori può essere detto – ma va distintamente verificato – che ha compiuto un delitto, che è malata, che ha peccato. Una tale persona ha bisogno di sottoporsi alla giustizia, alla cura, alla grazia. Tutte e tre sono necessarie, ma non possono surrogarsi, sostituirsi, compensarsi: la pena per il delitto non guarisce né dà il perdono, ma anche, all’inverso, il perdono del peccato non guarisce la malattia né adempie le esigenze della giustizia, così come la cura non può sostituire la pena né tanto meno rimettere il peccato. Le indicazioni che vengono dalla Chiesa vanno proprio nella direzione della armoniosa interazione fra i tre livelli. C’è da sperare che, al di là delle polemiche mediatiche, si sia capaci di suscitare la cooperazione necessaria a lenire, se non a guarire, ferite così profonde.

Quanto alla seconda attenzione, la vicenda della pedofilia come indicato da Papa Benedetto XVI, deve costituire l’avvio di un percorso di purificazione e di rinnovamento profondo all’interno della Chiesa. Questo rinnovamento richiederà alcune condizioni. La prima è una particolare diligenza nel discernimento vocazionale dei ministri e delle persone consacrate e nella loro preparazione e formazione al ministero e alla consacrazione. Una seconda condizione è che l’esercizio dell’autorità nella Chiesa assicuri permanentemente una elevata qualità umana, spirituale, intellettuale e pastorale in chi esercita un ministero e, nello stesso tempo, vigili con senso di carità e di responsabilità. Una terza condizione tocca ciascuno di noi, chiamato a fuggire dalla tentazione dell’individualismo e della chiusura nel privato, per vivere la fraternità ministeriale, religiosa ed ecclesiale, in modo da sviluppare l’evangelica correzione fraterna: essa ci sostiene potentemente in quel cammino di santità, che è il senso dell’esistenza cristiana in ogni stato di vita.