Toscana
Chi sono e come vivono i testimoni di giustizia
Non hanno commesso reati. Non hanno fiancheggiato camorristi o mafiosi. Sono stati testimoni o vittime di fatti criminosi. Magari gli è stato chiesto di pagare il «pizzo», ma hanno deciso di opporsi: di fare quello che in altri tempi si sarebbe chiamato «dovere civico» o qualcosa del genere. Non hanno messo la testa sotto la sabbia. Non hanno reagito in termini di viltà, ma hanno scelto di tenere dritta la schiena rendendo testimonianze processuali spesso risultate determinanti nel far condannare fior di delinquenti.
Né santi né eroi, verrebbe la voglia di dire, ma solo cittadini. Cittadini che meriterebbero riconoscenza ma che (ecco il problema) finiscono per subire la difficoltà di aver fatto il loro dovere. Avevano casa, lavoro, famiglia: ma in certi casi, dopo il processo, hanno perso tutto, compresa l’identità e la stabilità psichica. Da coraggiosi avversari del crimine, da essenziali testimoni in processi difficili sono diventati, almeno in qualche caso, ingombranti scomodità.
Lentamente sono scivolati in quella condizione di disgraziati che ha mosso don Natali e il vescovo Simoni a scrivere un accorato appello proprio all’inquilino di Palazzo Chigi. «Il loro contributo è stato leale e determinante scrive don Natali grazie a loro pericolose cosche malavitose si sono viste infliggere durissime condanne, anni di carcere e molti ergastoli: varrà la pena chiedersi come mai lottando contro la malavita si sono mantenuti lucidi e collaborando con lo Stato sono usciti di senno».
Non vanno i «testimoni» confusi con i «collaboratori» perché questi ultimi, pure «pentiti», in precedenza hanno comunque partecipato ad attività criminose. I testimoni non hanno nulla di cui pentirsi, non sono stati delinquenti. Eppure finiscono per rinunciare alla vita normale cui avrebbero diritto. Finiscono, anzi, per essere uomini e donne senza diritti.
Chi ne soffre sono queste persone che, oltretutto, hanno pure il torto di essere una minoranza numericamente irrisoria.
«Lei potrà capire ha scritto i primi giorni dello scorso settembre il solito don Natali al sottosegretario Letta che alcuni di questi uomini sono alla disperazione, altri hanno avuto un crollo del sistema nervoso e infine per alcuni di loro temiamo gesti estremi non solo per sé ma anche per la collettività».
In un modo o in un altro alcuni di loro (a Prato i fratelli Verbaro, in Calabria Giuseppina Cordopatri) sono riusciti a captare attenzione. Ma lo Stato deve fare molto di più e qualcosa dovrebbe fare l’intera comunità civile per evitare un fenomeno già bene evidenziato da un prezioso documento (Educare alla legalità) voluto dai vescovi italiani nel lontano 1991: il fenomeno di molte vittime della criminalità che non sporgono denuncia ritenendola del tutto inutile; ciò scrivevano i vescovi «rivela una rassegnazione e una sfiducia che vanificano il senso della legalità».
C’è da aggiungere, per completezza, che rispondendo al vescovo di Prato il sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano che presiede la Commissione centrale per l’applicazione delle misure speciali minimizza il problema: per lui la legge su collaboratori e testimoni funziona bene, lo Stato sta facendo il suo dovere, i testimoni di giustizia sono adeguatamente garantiti, la situazione è tranquilla, i fratelli Verbaro si sono messi da soli dalla parte del torto. Il vescovo Simoni prende atto della risposta, ma prende pure atto del «divario» che esiste almeno nel caso dei fratelli calabresi e, aggiunge, almeno in altri casi da lui conosciuti fra le rassicurazioni istituzionali e il dramma di alcuni fra i testimoni. Con tenacia chiede che la questione sia riesaminata e che le istituzioni abbiano un approccio diverso nei confronti di persone aggiunge con amarezza che ormai sono finite pure loro nella categoria dei «pentiti». Ma pentiti per un altro verso: pentiti per aver testimoniato, cioè per aver fatto niente altro che il loro dovere di cittadini.