Toscana

Chi sono e come vivono i testimoni di giustizia

di Mauro Banchini«Se Lei che è un potente afferma di aver sofferto e subìto, provi a immaginare cosa stanno vivendo questi disgraziati divenuti ormai scomodi per lo Stato». Quel «Lei … potente» che si dice perseguitato dalla giustizia è proprio Silvio Berlusconi. Chi gli si rivolge in quel modo («ascolti il gemito dei poveri») è un sacerdote pratese, don Marco Natali. A fine giugno 2003, e con il pieno appoggio del suo vescovo Gastone Simoni (un vescovo che si era trovato nel mezzo di una triste vicenda legata a un risvolto pratese di quel particolare gruppo di «disgraziati» e che da allora ha iniziato una pressoché solitaria battaglia per far conoscere una questione sconosciuta ai più), don Marco scrisse al presidente Berlusconi – che gli ha fatto rispondere dal sottosegretario Gianni Letta – per denunciare la situazione di disgraziati davvero singolari: i testimoni di giustizia. Non più di una settantina in tutta Italia e assolutamente da non confondere con l’altra – e forse più nota – categoria dei «collaboratori» o «pentiti», i testimoni di giustizia sono quelle persone che hanno reso testimonianze particolari in processi spesso legati alla criminalità organizzata. Non hanno nulla a che vedere con quel tipo di criminalità.

Non hanno commesso reati. Non hanno fiancheggiato camorristi o mafiosi. Sono stati testimoni o vittime di fatti criminosi. Magari gli è stato chiesto di pagare il «pizzo», ma hanno deciso di opporsi: di fare quello che in altri tempi si sarebbe chiamato «dovere civico» o qualcosa del genere. Non hanno messo la testa sotto la sabbia. Non hanno reagito in termini di viltà, ma hanno scelto di tenere dritta la schiena rendendo testimonianze processuali spesso risultate determinanti nel far condannare fior di delinquenti.

Né santi né eroi, verrebbe la voglia di dire, ma solo cittadini. Cittadini che meriterebbero riconoscenza ma che (ecco il problema) finiscono per subire la difficoltà di aver fatto il loro dovere. Avevano casa, lavoro, famiglia: ma in certi casi, dopo il processo, hanno perso tutto, compresa l’identità e la stabilità psichica. Da coraggiosi avversari del crimine, da essenziali testimoni in processi difficili sono diventati, almeno in qualche caso, ingombranti scomodità.

Lentamente sono scivolati in quella condizione di disgraziati che ha mosso don Natali e il vescovo Simoni a scrivere un accorato appello proprio all’inquilino di Palazzo Chigi. «Il loro contributo è stato leale e determinante – scrive don Natali – grazie a loro pericolose cosche malavitose si sono viste infliggere durissime condanne, anni di carcere e molti ergastoli: varrà la pena chiedersi come mai lottando contro la malavita si sono mantenuti lucidi e collaborando con lo Stato sono usciti di senno».

Paradossale quesito. Ma perché succedono cose simili?Bisogna sapere che la categoria dei «testimoni di giustizia» è definita da una legge dello Stato. Una legge recente, del febbraio 2001, che indica quali sono le speciali misure di protezione per quei cittadini che in processi di grande criminalità organizzata hanno avuto il coraggio di non stare zitti affrontando rischi personali talora non lievi.

Non vanno – i «testimoni» – confusi con i «collaboratori» perché questi ultimi, pure «pentiti», in precedenza hanno comunque partecipato ad attività criminose. I testimoni non hanno nulla di cui pentirsi, non sono stati delinquenti. Eppure finiscono per rinunciare alla vita normale cui avrebbero diritto. Finiscono, anzi, per essere uomini e donne… senza diritti.

Chi ha colpa di una situazione così paradossale? In questi casi la colpa finisce fanciulla. Ma, evidentemente, la legge del 2001 non era poi così perfetta, i decreti attuativi non sono mai usciti, lo Stato ha preferito una risposta burocratica che spesso finisce per diventare abbandono.

Chi ne soffre sono queste persone che, oltretutto, hanno pure il torto di essere una minoranza numericamente irrisoria.

«Lei potrà capire – ha scritto i primi giorni dello scorso settembre il solito don Natali al sottosegretario Letta – che alcuni di questi uomini sono alla disperazione, altri hanno avuto un crollo del sistema nervoso e infine per alcuni di loro temiamo gesti estremi non solo per sé ma anche per la collettività».

In un modo o in un altro alcuni di loro (a Prato i fratelli Verbaro, in Calabria Giuseppina Cordopatri) sono riusciti a captare attenzione. Ma lo Stato deve fare molto di più e qualcosa dovrebbe fare l’intera comunità civile per evitare un fenomeno già bene evidenziato da un prezioso documento (Educare alla legalità) voluto dai vescovi italiani nel lontano 1991: il fenomeno di molte vittime della criminalità che non sporgono denuncia ritenendola del tutto inutile; ciò – scrivevano i vescovi – «rivela una rassegnazione e una sfiducia che vanificano il senso della legalità».

C’è da aggiungere, per completezza, che rispondendo al vescovo di Prato il sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano – che presiede la Commissione centrale per l’applicazione delle misure speciali – minimizza il problema: per lui la legge su collaboratori e testimoni funziona bene, lo Stato sta facendo il suo dovere, i testimoni di giustizia sono adeguatamente garantiti, la situazione è tranquilla, i fratelli Verbaro si sono messi da soli dalla parte del torto. Il vescovo Simoni prende atto della risposta, ma prende pure atto del «divario» che esiste – almeno nel caso dei fratelli calabresi e, aggiunge, almeno in altri casi da lui conosciuti – fra le rassicurazioni istituzionali e il dramma di alcuni fra i testimoni. Con tenacia chiede che la questione sia riesaminata e che le istituzioni abbiano un approccio diverso nei confronti di persone – aggiunge con amarezza – che ormai sono finite pure loro nella categoria dei «pentiti». Ma pentiti per un altro verso: pentiti per aver testimoniato, cioè per aver fatto niente altro che il loro dovere di cittadini.

A Prato, ospiti del vescovo, i fratelli «abbandonati dallo Sato»Titolari di un avviato panificio a Reggio Calabria, i fratelli Giuseppe e Domenico Verbaro testimoniarono, anni fa, in un processo contro una feroce cosca di malavita organizzata. A fine processo furono comminati diversi ergastoli. Diventati testimoni di giustizia, da tempo i Verbaro vivono a Prato e sostengono di essere stati abbandonati dallo Stato. La vicenda è finita in Parlamento e sulle pagine dei giornali con una netta contrapposizione dei giudizi tra i fratelli e le autorità dello Stato. Nel marzo 2003 i Verbaro furono protagonisti di una clamorosa protesta: si asserragliarono, nel centro di Prato, in un appartamento minacciando di farsi saltare con bombole di gas. Dopo 30 ore il caso venne risolto anche grazie al diretto intervento del questore e del vescovo Gastone Simoni. Da allora il presule, che ha anche fornito concreta ospitalità ai due fratelli, ha proseguito ad interessarsi alla loro vicenda sollecitandone una revisione. La schedaA cosa hanno dirittoI testimoni di giustizia hanno diritto a:• misure di protezione fino alla effettiva cessazione del pericolo per sé e per i familiari;l• misure di assistenza, anche successive alla protezione, per garantire un tenore di vita non inferiore a quello esistente prima;• vedersi capitalizzato il costo dell’assistenza, in alternativa alla stessa;• mantenere il posto di lavoro, se dipendenti pubblici;• vedersi corrisposta una somma a titolo di mancato guadagno;• mutui agevolati per un completo reinserimento nella vita economica e sociale Come sono protettiIl programma di protezione comprende:• misure di tutela a cura degli organi di polizia• accorgimenti tecnici di sicurezza• trasferimento in Comuni diversi da quelli di residenza• cambiamento delle generalità Educare alla legalità«Il senso della legalità non è un valore che si improvvisa. Esso esige un lungo e costante processo educativo. La sua affermazione e la sua crescita sono affidate alla collaborazione di tutti, ma in modo particolare alla famiglia, alla scuola, alle associazioni giovanili, ai mezzi di comunicazione sociale, ai vari movimenti che nel Paese hanno un potere di aggregazione e un compito educativo, ai partiti politici e alle varie istituzioni pubbliche» (Educare alla legalità, nota pastorale Cei, 4 ottobre 1991).