Chiesa Italiana
Cei: card. Zuppi, “non siamo una minoranza residuale”
Nella prolusione al Consiglio permanente dei vescovi italiani il presidente della Cei e arcivescovo di Bologna, cardinale Maria Matteo Zuppi ha affrontato tutti i temi di più stretta attualità, dalla “Chiesa in Italia che è chiesa di popolo” al tema della denatalità, dalla povertà al sostegno delle famiglie, dai giovani all’educazione, dai migranti alla guerra in Ucraina. Ma anche del Sinodo e delle resistenze in seno alla Chiesa nei confronti di Papa Francesco
Si è aperto oggi con la prolusione del presidente della Cei, il cardinale Maria Matteo Zuppi, il Consiglio permanente dei vescovi italiani che si tiene a Roma fino a mercoledì 27 settembre. Tanti i temi di attualità che Zuppi ha toccato nel suo intervento
Di seguito la prolusione del presidente:
Cari Fratelli,
abbiamo un cammino scandito da tappe, appuntamenti, che sono per me motivo di gioia perché
rappresentano un’opportunità necessaria e gradita per riflettere, come Vescovi, in uno spirito di
sinodalità vissuta e di profonda fraternità, sul nostro Paese, sulla Chiesa in esso e, più
complessivamente, su quanto il mondo oggi sta vivendo.
Prima di entrare in medias res, mi sia consentito un ricordo doveroso ma cordiale del Presidente
Giorgio Napolitano. In particolare negli anni della sua presidenza della Repubblica, dal 2006 al 2015,
ha dimostrato grande sapienza non soltanto nella gestione delle crisi, ma anche nell’impegno
ordinario a far dialogare le varie componenti della politica italiana e a dare alle discussioni un
respiro almeno europeo, se non mondiale. Questo sforzo per il dialogo costante e per un
allargamento degli orizzonti resta un esempio significativo e molto attuale.
La Chiesa segno di unità e pace
In questo mondo, più di sempre, tutto si comunica: non si può pensare all’Italia isolata dall’Europa
e dal resto del mondo (lo si vede con la guerra in Ucraina e le migrazioni, e tant’altro); non si può
pensare la Chiesa isolata o separata dalla contemporaneità. Questo non significa che la Chiesa sia
“confusa”, sbattuta qua e là: non confusa, ma non separata. Preservare l’identità della comunità
ecclesiale non significa chiudersi in sé, nei nostri ambienti, nel nostro linguaggio. Non dobbiamo
isolarci per proteggerci dal rischio di essere contaminati. C’è chi ne teorizza la necessità e
soprattutto c’è chi lo pratica, con la convinzione di conservare così la verità altrimenti minacciata.
Non siamo una minoranza residuale ma, come dissi ricordando la felice espressione di Papa
Benedetto XVI, la Chiesa è chiamata a essere minoranza creativa. La creatività nutre la missione ed
è frutto del viverla, spinti dallo Spirito della Pentecoste, non subendo il mondo ma accettandone la
sfida con serena consapevolezza e responsabilità. La Chiesa in Italia, in vari aspetti, è una Chiesa di
popolo, realtà da coltivare, mai da disprezzare, i cui confini non debbono essere tracciati da noi con
il rischio di allontanare e rendere incomprensibile l’annuncio evangelico ma con la fiduciosa
speranza del seminatore. Dobbiamo annunziare e vivere il Vangelo, tutto il Vangelo e i
comportamenti conseguenti, questo sì! Lo Spirito Santo dà e darà forma alle comunità. Siamo in
ascolto dello Spirito. La Chiesa vive per il Vangelo e per gli altri, segno di unità e pace nelle città,
nelle periferie, nelle aree interne, nell’Italia intera, ricordandole il destino comune di popolo.
Manca la pace
Il nostro mondo ha bisogno di pace e unità. La guerra continua in Ucraina e non ci abituiamo ad
essa. Il dolore di questa guerra è stampato su volti precisi: quelli dei morti, soprattutto tra i civili, e
dei feriti per i bombardamenti; quello delle persone barbaramente violentate; quello delle
popolazioni sfollate e costrette a migrare; quello dei bambini lontani dai propri familiari o dalle
proprie case. Si tratta di un dramma alle porte dell’Europa che ci riguarda tutti, come uomini e
donne di questo tempo, prima ancora che come cittadini europei. Capiamo con evidenza come
siamo davvero tutti sulla stessa barca e apparteniamo alla stessa famiglia umana. Fratelli tutti.
L’azione del Santo Padre per la pace, oltre alle sue parole, ci ricorda che tutti dobbiamo agire e
pregare per la pace. Ho personalmente sentito quanto la preghiera per la pace abbia accompagnato
anche la mia missione degli ultimi mesi e ne sono intimamente grato ed edificato. Sono certo che è
un valore che misteriosamente, ma efficacemente, spingerà la missione nella direzione auspicata.
San Giovanni Crisostomo insegna: “Nulla è più potente della preghiera e nulla le è pari”. La
solidarietà aiuta la resistenza degli ucraini in una situazione tragica, venendo incontro a molteplici
e drammatiche necessità. Soprattutto – come ho detto recentemente al Sinodo della Chiesa greco-
cattolico – ci ricordiamo sempre degli ucraini e continuiamo a sostenerli in Ucraina o in Italia, esuli
dalla loro terra. Desidero ringraziare le tante famiglie che hanno dato disponibilità per accogliere i
bambini ucraini. Mi auguro che l’anno prossimo questa accoglienza dei minori ucraini possa trovare
un ulteriore e sempre più diffuso sviluppo, per garantire ai più piccoli, feriti intimamente dalla
guerra, un periodo di protezione e gioia. Ripetiamo, con il Papa, l’esortazione a trovare vie di pace
nella giustizia, perché siano abbreviate le sofferenze di tanti e salvate tante vite. L’appassionato
impegno per l’Ucraina non fa dimenticare altri Paesi che soffrono guerra, tensioni e instabilità.
Dovremmo scorrere i nomi dei Paesi in guerra nella preghiera, come i grani del Rosario. Penso al
terribile conflitto in Sudan, dove 5 milioni di abitanti su 45 hanno dovuto lasciare le loro case. In
questi giorni si è riaccesa una preoccupante violenza nel Nagorno Karabakh per il quale auspichiamo
che la vita dei cristiani e la convivenza siano pienamente rispettate. Pensando a questa e a
tantissime situazioni di conflitto, sentiamo l’urgenza della pace. Il Santo Padre ha detto: “È tempo
di trovare il cambiamento della pace, il cambiamento della fraternità. È tempo che le armi cessino.
È tempo di tornare al dialogo, alla diplomazia. È tempo che cessino i disegni di conquista e di
aggressione militare. Per questo ripeto: no alla guerra. No alla guerra”.
Migranti e rifugiati
Le guerre, il degrado ambientale, l’insicurezza, la miseria, il fallimento di non pochi Stati sono
all’origine dei flussi di rifugiati e migranti. Si tratta di gestire con umanità e intelligenza un vasto
fenomeno epocale. L’errore – non da oggi – è stato politicizzare il fenomeno migratorio, anche
condizionati dal consenso e dalle paure. Si tratta di esseri umani prima di tutto; si tratta del futuro
dell’Italia, in crisi demografica; si tratta di coinvolgere la popolazione in un fenomeno che crea
scenari nuovi e non semplici. Richiede coraggio politico e responsabilità sociale. La questione
migratoria dovrebbe essere trattata come una grande questione nazionale, che richiede la
cooperazione e il contribuito di tutte le forze politiche. Papa Francesco a Marsiglia – incontro che è
stato in piena continuità con quelli di Bari e Firenze e che chiede una progettazione perché il
Mediterraneo sia per tutta la Chiesa, per la nostra Conferenza, un ambito decisivo di riflessione –
ha richiamato “la tragedia di chi non ce l’ha fatta, di chi è morto in mare”. E ha ricordato alla nostra
coscienza che “sono vite spezzate e sogni infranti”. “Siamo di fronte a un bivio”: o scegliamo la
cultura della fraternità o la cultura dell’indifferenza. In questo è davvero necessaria una
concertazione tra le forze politiche e sociali indispensabile per creare un sistema di accoglienza che
sia tale, non opportunistico, non solo di sicurezza perché la vera sfida è governare un fenomeno di
dimensioni epocali e renderlo un’opportunità così come esso è. Non dimentichiamo la necessità
anche di una comune visione europea, per la quale è necessario forse un ulteriore sforzo da parte
nostra e delle Chiese europee, anche con maggiore collaborazione con il CCEE e la COMECE.
È solo la legalità che contrasta l’illegalità e può permettere una seria e indispensabile inclusione. La
Conferenza Episcopale Italiana resta fedele all’intuizione e allo spirito dell’iniziativa “Liberi di
partire, liberi di restare” e ai corridoi umanitari, esperienza che offre importanti indicazioni per
affrontare responsabilmente il problema. In questo contesto è stata possibile l’apertura del primo
canale legale di ingresso per minori stranieri non accompagnati attraverso un permesso di studio
(progetto Pagelle in tasca) dal Niger all’Italia, specificatamente in Piemonte. È stato un percorso
molto difficile e lento, ma i risultati raggiunti per i pochi minori che si è riusciti a far arrivare – una
decina in circa due anni – sono estremamente incoraggianti. Tutti sono entrati con un permesso di
studio e sono stati inseriti in famiglie affidatarie: forse varrebbe la pena aumentare questo tipo di
possibilità, ad esempio per i MSNA che si trovano in Libia.
Seguiremo con attenzione e vigilanza i provvedimenti e la loro attuazione, perché sia rispettata la
dignità di ogni persona, basandoci sui criteri che il Papa ha offerto: accogliere, proteggere,
promuovere e integrare.
La società italiana non è in pace
La società italiana non è in pace. Penso ai femminicidi, spesso amara conclusione di un processo di
violenza sulla donna. La strage delle donne continua spesso causata dalla ricerca di libertà da un
rapporto violento e possessivo (38 sono morte per mano di compagni o ex partner). Sono 79 le
donne assassinate dall’inizio dell’anno: 61 in ambito familiare-affettivo. C’è in gioco il rispetto verso
le donne, ma ancora più in profondità il nostro modo di essere famiglia, di vivere in una trama di
relazioni. Abbiamo il compito di fornire strumenti per aiutare a guarire dalla malattia mortale che
è il disprezzo del più debole e la volontà di sottomissione. Al contempo, dobbiamo trovare nuovi
modi per tutelare i più deboli e fragili, per identificare il disagio e trovare soluzioni in grado di
prevenire tanta violenza.
Il mondo dei giovani è coinvolto dalla violenza: risse, bullismo, atti vandalici, violenze sessuali, ma
anche spaccio, furti e rapine, a volte di baby gang. I social sono il tam-tam dove si documentano le
gesta. Violenze verso minorenni o adulti, compiute da minori: segnali di una tendenza in atto da
anni, amplificata dalla pandemia. I dati della Direzione centrale della polizia criminale mostrano,
nei primi dieci mesi del 2022, un incremento di più del 14% dei minori denunciati o arrestati. Sono
aumentati i reati commessi da minori e le violenze sessuali, rispetto allo stesso periodo del 2021,
più del 15,7%. In forte crescita gli omicidi commessi dai minorenni, più del 35,3%. Si segnala una
crescita dei disturbi di ansia, ritiro sociale e isolamento, autolesionismo, rabbia, aggressività,
problemi alimentari, disturbi del sonno e depressione. Drammatici sono i dati sui suicidi degli
adolescenti che stanno lievitando: per noi non devono essere solo numeri, ma sono persone, volti,
storie. Ci segnalano un disagio diffuso che ci deve interpellare.
Tutto avviene diversamente dal passato in pubblico: nella “fornace” dei social, spietati e agonistici.
Nessuna generazione prima ha conosciuto quest’esperienza: ci si deve autodefinire, si deve mettere
il volto e il corpo in mostra, si misurano quanti ti seguono. È facile sui social sbagliare e finire alla
gogna, segnati dall’ansia, alimentata dalla crisi dei grandi sogni collettivi e da reti educative e
relazionali molto più fragili. “L’“Evaporazione del padre” è il tratto costitutivo del nostro tempo”,
dice Recalcati. Si ripropone con forza il problema dell’educazione, su cui costantemente la Chiesa
in Italia ha riflettuto, riflette ed è necessario continuare a riflettere. L’educazione non è
un’emergenza ma è la quotidianità della vita della Chiesa. Abbiamo un potenziale straordinario di
gente che lavora per l’educazione da anni e in tante parti d’Italia. C’è qui un aspetto significativo
della nostra vocazione, espressa non solo nelle istituzioni educative, ma in tutti gli ambiti della
Chiesa e nel rapporto con i giovani.
Non dobbiamo aver timore di fronte alle nuove generazioni. Abbiamo risorse profonde, un’umanità
che si mette al servizio dei più giovani. Abbiamo un tesoro di vita e di senso. Vorrei ricordare come
Padre Pino Puglisi sia per certi verso un martire dell’educazione, perché mostra come si cambia un
quartiere oppresso dall’“educazione” mafiosa proprio offrendo alternative serie, coinvolgenti,
migliori. Lo ha fatto come sacerdote, maestro, uomo, a mani nude, con fede e passione, fino al dono
della vita. Diceva don Pino agli educatori: “Dio ci ama, ma sempre tramite qualcuno”.
Recenti provvedimenti governativi hanno cercato di rispondere a queste urgenze. A noi spetta il
compito di gettare uno sguardo evangelico su questo tema, ma – direi – soprattutto di aiutare ad
allargare l’orizzonte della riflessione e della discussione perché i provvedimenti diano risposte
efficaci a medio termine, diventino impegno ordinario e continuativo per non creare ulteriori
delusioni e rafforzare la diffusa convinzione di essere abbandonati.
Penso in primis ai genitori, a quanti, cioè, hanno la gioia e la responsabilità di educare la prossima
generazione. Occorre profondere uno sforzo almeno pari a quello dell’iniziazione cristiana nei
confronti dei genitori e degli adulti in generale. In realtà sono loro i veri educatori con il loro stile di
vita, con i “sì” e i “no” su cui basano la propria vita ancor prima di trasmetterli ai figli.
Sotto la pressione degli ultimi eventi, si torna oggi a parlare di “educazione affettiva” dei giovani.
Per noi la persona è una realtà unica e complessa, la cui affettività è in dialogo con il corpo e il suo
sviluppo, con la mente e le sue conoscenze, con il cuore e i suoi valori. Forse è tempo perché anche
noi credenti troviamo il coraggio di parlare di sessualità senza infingimenti, nella prospettiva
dell’integrazione tra vita umana e vita spirituale. L’educazione all’affettività nasconde infatti
un’esigenza ancora più profonda: l’educazione alla vita interiore, all’incontro con le profondità di
sé stessi.
Da pochi giorni in tutta Italia si sono aperte le scuole e tra pochi giorni inizieranno le lezioni nelle
Università. Vorrei rivolgere per questo un augurio speciale di buon anno scolastico e accademico a
tutti: ai docenti, agli studenti e al personale amministrativo. Che sia un anno di crescita intellettuale
e umana. Dalla scuola dell’infanzia ai Centri di ricerca universitari siano questi i luoghi in cui si possa
fare esperienza di un sapere che edifica la comunione e la pace.
La compassione per le folle in una Chiesa più familiare
Proprio pensando ai giovani, alle donne e uomini del nostro Paese, vorrei fare riferimento a una
pagina del Vangelo, a me sempre molto cara, in cui emerge la “compassione” di Gesù: “Vedendo le
folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse
ai suoi discepoli: ‘La messe è molta, ma gli operaisono pochi. Pregate dunque il padrone della messe
che mandi operai nella sua messe’” (Mt 9, 37-38). Nel vangelo di Marco si legge come “Gesù
percorreva i villaggi intorno a Nazareth, insegnando. Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due
a due e dava loro potere sugli spiriti impuri” (Mc 6,6-7). Vorrei evocare brevemente l’antefatto di
questa celebre scena. Ed è un antefatto triste. Gesù si era dedicato alla predicazione proprio nella
sinagoga di Nazareth (Mc 6,1-2), la sua città di residenza. Ma aveva dovuto constatare il fallimento
della sua iniziativa: qualcuno si era limitato ad ammirarlo (“Da dove gli vengono queste cose? E che
sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani?”, Mc 6, 2),
altri invece lo avevano semplicemente ridimensionato evocando la sua parentela (“Non è costui il
falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle
non stanno qui da noi?”, Mc 6,3a). Di fatto, nessuno capisce la portata salvifica del suo agire. Nel
linguaggio di Marco: “Era per loro motivo di scandalo” (Mc 6,3b). Gesù non resta a Nazareth, magari
per interpretare i problemi oppure per convincerli o semplicemente catturato dalla polemica ma
facendosi anche imporre da loro il limite. Si mette in cammino e costringe i suoi a incontrare la folla,
a misurarsi con la messe abbondante che richiede sempre tanti operai se la guardiamo con
compassione. Gesù decide di mandare gli apostoli a predicare perché vede le folle stanche e sfinite
e ne ha compassione (cfr. Mt 9,36). Lo Spirito di Gesù dona a noi tutti, se l’accogliamo, la
commozione per folle di persone di qualunque tipo, talvolta spaesate, sole, stanche, ammalate o
impoverite. L’espressione “folla” ben si adegua alla realtà sociale, composta sovente da donne e
uomini, soli o impoveriti nelle relazioni, privi di reti. Anche spaesati, spaventati di un futuro che non
aspettano con nessuno. C’è troppa infelicità e insoddisfazione. Scrive Zygmunt Bauman, “la vera
funzione del mercato consumistico è provocare insoddisfazione”.
La compassione è amare non un popolo anonimo, ma persone di cui si comincia a conoscere il
nome, che hanno volti e storie. Evangelizzare, uscendo dai nostri recinti, non è proselitismo verso
una folla. Evangelizzare è incontrare, conoscere, comunicare personalmente la Parola di Dio,
divenire amici e fratelli. In questa prospettiva, cogliendo l’opportunità del processo sinodale, non
dobbiamo interrogarci su come la Chiesa possa più essere famiglia? Su come le nostre comunità
possano essere familiari, accoglienti, fraterne? Non solo interrogarci, ma vivere una corrente di
simpatia umana, che trasmetta affezione e compassione. La Chiesa è anzitutto comunità, famiglia,
dimensione domestica, personale, di relazione, perché solo così sapremo educare i giovani e
trovare uno spazio per tutti nella loro diversità. Papa Francesco ha ripreso nella Fratelli tutti alcune
sue belle parole: la Chiesa è “una famiglia tra le famiglie – questo è la Chiesa… Una casa con le porte
aperte. La Chiesa è una casa con le porte aperte, perché è madre”.
La comunione
Per questo, sono tristi e sterili le polarizzazioni nella Chiesa. Nel 1972, nel post Concilio, il teologo
Karl Rahner aveva parlato, riguardo alla Chiesa tedesca di allora, della polarizzazione come grande
pericolo (Trasformazione strutturale della Chiesa come compito e chance, pp.48 ss). Allora era una
polarizzazione infuocata di dibattiti e polemiche. Oggi, oltre le polemiche, si rischia la polarizzazione
dell’indifferenza, spesso accentuata dalla disillusione, per cui le altre realtà o personalità ecclesiali
sono ignorate o deprecate. Sinodalità vuol dire rimettere in discussione le arroccate solitudini
ecclesiali nell’incontro, nella comunione, nell’ascolto, nell’impegno missionario enorme che ci
attende confrontandoci con la folla e le sue sofferenze. In fondo è la malattia della società che
prende la Chiesa e isola gli uni dagli altri, magari nella contrapposizione. Invece mai senza l’altro!
Umberto Eco ha espresso una visione valida per tutti: “Non possiamo comprendere chi siamo senza
lo sguardo e la risposta dell’altro”. Il processo sinodale è una grande occasione di rinnovamento e
affratellamento.
Ci misuriamo con la realtà in cui siamo, la città, il territorio, il quartiere. Questa realtà è il centro
della nostra cura e del nostro impegno. Sinodalmente: anche se viviamo in prospettive diverse,
abbiamo attitudini, responsabilità e storie differenti. Niente e nessuno sono il centro. Nemmeno la
parrocchia. Il centro è Gesù e il prossimo che ci affida: sono gli altri con cui vivere, cui comunicare
il Vangelo. Cambia la geografia della Chiesa. Tanti sono i suoi volti su un territorio: la parrocchia, i
movimenti, i religiosi e le religiose, gli stessi santuari e quanto lo Spirito ci dona. Tutte risorse per
una stessa missione.
A Lisbona, alla GMG, cui erano presenti alcuni di noi, in un “oceano di giovani” – come ha detto il
Papa –, abbiamo sperimentato la gioia di essere popolo di diverse generazioni e di vedere una
giovane generazione vivere l’entusiasmo dell’incontro con Gesù. Nella Chiesa per i giovani, non
esistono i confini che separano. Abbiamo vissuto a Lisbona la gioia di essere popolo, contenti della
numerosa partecipazione di giovani italiani. Il primo dato da registrare sono le 65.000 presenze:
una sorpresa rispetto alle previsioni. Lisbona era stata posticipata di un anno e la distanza con
Cracovia (2016) faceva temere una dispersione e una fatica nel coinvolgimento dei ragazzi. Ma così
non è stato. Il secondo dato e motivo di speranza è che buona parte di questi ragazzi erano alla loro
prima esperienza di GMG.
I giovani sono venuti per un’esperienza di fede e per stare insieme: hanno detto la forza della
giovinezza in una società, che li comprime, dove gli adulti non vogliono invecchiare lasciando loro
spazio. La Chiesa è lo spazio dei giovani. Questi sono venuti anche per Papa Francesco, un anziano
padre che ha parlato al loro cuore. Chi ha vissuto l’esperienza di Lisbona non può non ringraziarlo.
I giovani hanno colto il significato del ministero del Papa e il valore delle parole e del carisma di
Francesco. Lo voglio ribadire di fronte a troppe resistenze verso di lui e il suo messaggio, spesso
espresse in uno spirito di contrapposizione, favorito dai social, che affievolisce la comunione e
intristisce la vita ecclesiale.
Mi sono tornate in mente le parole di don Mazzolari, nel piccolo libro, Anch’io voglio bene al papa:
“Come sono corti certi apprezzamenti sulla missione storica del papa! Come lo rendono male!”.
Poco si è capito l’impegno originale del Papa per la pace, la sua compassione per le sofferenze delle
vittime della guerra. L’affetto per il Papa tocca in profondità la comunione nella Chiesa e la sua
unità: specie per noi Vescovi italiani, per cui egli è Primate d’Italia. La sinodalità è anche un cammino
di comprensione piena del ministero del Vescovo di Roma. Un ministero tanto importante per la
fede, l’unità della Chiesa, che si esprime anche al servizio dell’unità dei popoli in un periodo di così
grandi lacerazioni.
Le fatiche della nostra gente
Quante sofferenze della nostra gente che suscitano la nostra compassione e, quindi, la nostra scelta
concreta di evangelizzazione e promozione umana. I dati forniti dall’Istat, a questo proposito, non
possono essere taciuti. La povertà in Italia può dirsi ormai un fenomeno strutturale, visto che tocca
quasi una persona su dieci: il 9,4% della popolazione residente vive, infatti, in una condizione di
povertà assoluta. Solo quindici anni fa, il fenomeno riguardava appena il 3% della popolazione.
Inflazione, crescita dei prezzi, caro bollette, lavoro povero sono i nuovi pesi che gravano in misura
crescente sulle famiglie già più povere, per le quali occorre proporre politiche concrete che le
aiutino a vivere dignitosamente e a far fronte a una precarietà che assume volti diversi.
Un problema specifico concerne la casa. Il rincaro dei prezzi degli affitti, dei mutui e delle utenze
domestiche rende sempre più oneroso il mantenimento dell’abitazione, molte persone e nuclei
familiari sono alla ricerca di un alloggio. Nel corso del tempo, molte comunità parrocchiali hanno
messo a disposizione degli spazi cercando di stare a fianco a quanti non avevano più la possibilità
un proprio alloggio. Questa disponibilità di accoglienza, nata come risposta momentanea a
un’emergenza, con il solo impegno ecclesiale non è più sostenibile! Vanno sollecitati interventi
pubblici per affrontare il problema.
Un altro aspetto della precarietà che si vive è quello legato alla denatalità. Occorrono servizi
integrati sul territorio a sostegno delle famiglie, non solo aiuti materiali. Molte famiglie rinunciano
anche alla cura della propria salute perché i tempi di attesa delle ASL sono lunghi e non tutti
possono permettersi di rivolgersi al privato.
Il lavoro ha conosciuto, negli ultimi mesi, una ripresa in termini di occupazione, ma conosce ancora
molta sofferenza circa la sua qualità. Lo segnala il fenomeno degli working poor: non è garantito,
come in passato, a chi lavora di sentirsi al sicuro fuori dalla soglia di povertà. Incidono la precarietà
dei contratti, l’incapacità di adeguamento degli stipendi al costo della vita, lo sfruttamento e la
diffusione del lavoro nero in alcuni contesti. Sono tutti fattori che destano preoccupazione. Anche
il fenomeno delle dimissioni dal lavoro, soprattutto nei giovani, fa riflettere.
È in corso un cambiamento culturale senza precedenti che dobbiamo comprendere e
accompagnare, ribadendo quanto sia irrinunciabile la centralità della persona per la dottrina sociale
della Chiesa. A conferma conosciamo un continuo ripetersi quotidiano di incidenti sul lavoro che
fanno aumentare, giorno dopo giorno, le vittime. Alcuni tragici recenti episodi, come quello
ferroviario a Brandizzo nel torinese, non ci devono far dormire sonni tranquilli. La sicurezza nei
cantieri e nei luoghi di lavoro è segno di civiltà. Non è barattabile con la fretta di consegnare
un’opera, né con le limitazioni degli investimenti sulla sicurezza e tanto meno con la superficialità
e l’irresponsabilità. È in gioco la nostra dignità umana. Nei primi sette mesi del 2023 abbiamo visto
559 vittime sul lavoro, mentre lo scorso anno ne abbiamo contate 1.090. A questi numeri
drammatici si aggiungano gli infortunati: il lavoro deve essere custodito come luogo di vita e le
vittime sono un “oltraggio alla convivenza civile”, secondo una giusta valutazione del Presidente
Mattarella. Come Chiesa, non basta sposare la facile lamentela o invocare genericamente maggiore
sicurezza, se non ci facciamo interpreti di una diversa cultura del lavoro e della consapevolezza che
l’insicurezza del lavoro è morte sociale.
La fase sapienziale
Guardando alla vita delle nostre Chiese che sono in Italia, non si può non fare alcuni rilievi sul
Cammino sinodale, che è entrato nella seconda fase: sapienziale. I primi due anni ci hanno
insegnato innanzitutto quanto sia necessario e decisivo alimentare la radice spirituale della nostra
azione pastorale, quanta richiesta di ascolto ci sia nelle nostre comunità e nei nostri territori, quanto
desiderio vi sia nelle persone di incontri autentici, quanto sia forte l’aspirazione a una Chiesa aperta
e che dà forma alla corresponsabilità, quanto sia diffusa l’attesa di rinnovamento di molti aspetti
della nostra vita ecclesiale. Abbiamo vissuto un profondo esercizio di ascolto, certo diversificato nei
modi e nei risultati. Questo esercizio è un processo ormai acquisito: non è quindi terminato, ma
continua ad alimentare la nuova fase, quella sapienziale, in cui vogliamo crescere insieme nel
discernimento ecclesiale.
Nella nuova fase i confini non si restringono: al contrario, siamo chiamati ad affrontare le tematiche
e i nodi che sono emersi in questi due anni con alcune attenzioni. Tra queste c’è l’ascolto ancora
più allargato, a partire dai giovani che da tempo ci diciamo non possono essere considerati solo
destinatari e dagli esperti che potranno aiutarci ad andare in profondità nella lettura e nel
discernimento delle varie questioni emerse. Anche in queste dinamiche il Comitato nazionale potrà
svolgere un servizio prezioso.
Sin dall’inizio il nostro Cammino sinodale è stato poi in dialogo con il Sinodo dei Vescovi: è un
raccordo delicato che richiede la pazienza del coordinamento, ma che ci aiuta a tenere sempre lo
sguardo rivolto anche alla Chiesa universale.
Nei prossimi giorni giungeranno a Roma i partecipanti alla XVI Assemblea Generale Ordinaria del
Sinodo, che avrà inizio con una Veglia di preghiera ecumenica presieduta da Papa Francesco in
Piazza San Pietro il prossimo 30 settembre. È un’altra occasione di grazia per la Chiesa, un tempo
per certi versi simile a quello che è stato il tempo dell’ultimo Concilio, in cui è riecheggiata in
maniera insistente la domanda: “Chiesa, cosa dici di te stessa?”. La prossima Assemblea del Sinodo
dei Vescovi si troverà a far risuonare una domanda simile, sulla natura e sulla missione di una Chiesa
che voglia essere tutta sinodale, declinando insieme comunione, partecipazione e missione.
Il nostro Cammino sinodale, con le sue tipicità, rappresenta il contributo specifico delle Chiese in
Italia a quello scambio dei doni che costruisce la comunione delle Chiese. Non si tratta, infatti, di
un percorso parallelo a quello della Chiesa universale ma, in seno al cammino della Chiesa tutta
intera, le nostre Chiese in Italia stanno offrendo il contributo delle loro peculiarità ecclesiali.
Riteniamo matura la discussione di un cambiamento anche delle strutture stesse della CEI, del suo
snellimento e ripensamento che recepisca le importanti indicazioni contenute nella riforma della
Curia Romana e del Vicariato di Roma, della quale la Segreteria Generale si farà carico di presentare
un primo progetto per opportuna valutazione del Consiglio Permanente e dell’Assemblea Generale.
Conclusione
Questo anno di discernimento desidero sia un’appassionante discussione per aiutare a trovare
soluzioni adeguate e innovative. La prospettiva resta sempre la stessa: guardare con la compassione
di Gesù, sentire la sua chiamata e il suo invio perché la folla possa incontrare l’annuncio del Vangelo
e diventare una comunità.