Opinioni & Commenti
C’è un cimitero in fondo al mare
C’è un cimitero in fondo al mare. Non vi sono lapidi, marmi o crisantemi, ma lo adornano gorgonie, posidonie e coralli. Non si sente lo scalpiccio di passi veloci nella ghiaia, né il chiacchiericcio sommesso di visitatori frettolosi, ma nella quiete del blu profondo nuotano lenti e silenziosi pesci e polpi. Sul fondo del Mediterraneo giacciono migliaia di vite umane affondate insieme alla speranza, mentre cercavano di raggiungere se non la terra promessa, almeno un approdo sicuro. Solo a settembre, nel giro di tre drammatici giorni, per mille salvati si sono contati quasi altrettanti dispersi, un bilancio in tragico disavanzo, fatto di morti affogati di cui spesso non si saprà nulla, senza identità e senza storia. Scomparsi senza nome, senza una tomba su cui piangerli, come i soldati di due guerre mondiali che dormono nei campi di grano e papaveri.
Oggi non c’è chi canta i migranti che riposano sul fondo del mare, vittime di una guerra non combattuta, fuggiti dai conflitti e dalla carestia per soccombere per mano dei mercanti di uomini. Il 3 ottobre del 2013 al largo di Lampedusa è affondata un’imbarcazione proveniente dalla Libia: 366 morti, 20 dispersi, 155 superstiti. Un anno dopo, le immagini girate dal fotoreporter Francesco Zizola, ci restituiscono la straziante e muta testimonianza di ciò che è accaduto, di quel che rimane, con la nave adagiata a 50 metri di profondità sul fondale sabbioso, giocattolo abbandonato spezzato da un gigante fanciullo. Il relitto giace sul fondo, piccolo Titanic senza la prima e la seconda classe, senza le sale da ballo e le porcellane, senza il salone delle feste e l’orchestra. Piuttosto traghetto di Caronte, la si immagina stipata di uomini, donne e bambini impauriti, affamati, disperati. Di loro restano pochi resti, dispersi. Nell’azzurro uniforme una ripresa inquadra un incongruo luccichio rosso: una tenda damascata appesa a un oblò, che resiste e ondeggia con la marea non col vento. Nel silenzio si sente solo il respiro regolare e profondo del sub, si intuisce il rumore delle bolle che salgono verso la luce, si immagina il fremito veloce delle pinne dei pesci che passano e corrono via. Il peschereccio è inclinato di lato, le reti ad ancorarlo sul fondo, ricoperto di alghe e incrostazioni di molluschi che vi hanno trovato e fatto casa. Inesorabile e indifferente, la natura ha preso il sopravvento e ha reso il relitto parte del paesaggio, come se nulla fosse accaduto.
Come da noi in superficie. Le incrostazioni del quotidiano e l’avanzare di altre emergenze hanno steso la patina del dimenticato su quanto accaduto. In fondo, si dice, gli sbarchi continuano, chissà quanti affondano e non lo sappiamo, e poi sono già tanti qui che non sappiamo più cosa farcene. Che importa di chi è morto? Non lo conoscevamo. “Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro – ha detto Papa Francesco proprio a Lampedusa –. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti ‘innominati’, responsabili senza nome e senza volto”. L’indifferenza è un killer silenzioso, che cresce nella mancanza di empatia e sfocia nell’individualismo egoista, consumando la coscienza di ciascuno. L’antidoto risiede anche nella capacità di sentirsi parte della stessa umanità, che si costruisce con gesti concreti di aiuto, ma prende l’avvio dal riconoscersi fratelli, anche nel dolore. Il 2 novembre, ogni famiglia si appresta a ricordare i “suoi” morti e a onorarli con una visita al camposanto e un’invocazione più intima, più profonda. Un rito di amore per non dimenticare chi non c’è più ma non cessa di essere presente. E allora, proviamo ad “adottare” un defunto ignoto: un pensiero, una preghiera. Come il piatto in più che su tante tavole si mette per l’angelo, per l’ospite inatteso, perché anche nel cimitero più silenzioso c’è sempre una campana che rintocca.
John Donne