Toscana
Cattolici toscani, il cammino continua
Come possiamo dare, in Toscana, un segnale forte di Chiesa perché il popolo di Dio si senta meno smarrito davanti alla crisi e ai mutamenti che stanno segnando in modo pesante le famiglie, la politica, l’economia, il lavoro, la cultura e soprattutto i giovani e il futuro?. Parte da questa domanda la proposta per le Chiese della Toscana su cui, questa mattina a Firenze, si sono ritrovati un migliaio di laici cattolici toscani – di tutte le diocesi, i movimenti, le associazioni ecclesiali che hanno affollato un incontro nella basilica di San Lorenzo su iniziativa della Conferenza Episcopale Toscana (CET) e, in particolare, degli Uffici pastorali che si occupano di problemi sociali e di Lavoro.
L’amore che rompe gli schematismi. Cattolici protagonisti nella Toscana di oggi – questo il titolo dell’incontro si è concluso con una Messa presieduta dal cardinale Giuseppe Betori e concelebrata dai vescovi delle diocesi toscane. Nell’omelia, il presidente della Cet, commentando la prima lettura del giorno, tratta dal profeta Osea, ha invitato ad avere consapevolezza dichiarata delle radici che hanno condotto all’attuale involuzione economica e sociale e anche ad un impegno costruttivo per un volto nuovo della società, più ancorato agli irrinunciabili principi del rispetto della persona umana e della ricerca anzitutto del bene comune. Occorre anche pensare ha proseguito il Cardinale che il Dio dei cristiani e la fede in lui si pone come una presenza storica che ci svincola dai legami naturalistici e ci spinge a decisioni etiche in cui si rivela la potenza dell’amore come forza capace di rompere gli schematismi persino delle cosiddette leggi economiche.
Verso la prima settimana sociale dei cattolici toscani. Tre le relazioni della mattinata: il nuovo arcivescovo di Cagliari, Arrigo Miglio, il direttore del Centro per la pastorale della cultura della diocesi palermitana Giuseppe Savagnone, padre Antonio Airò responsabile toscano per la pastorale sociale. Ed è stato quest’ultimo a presentare la proposta su cui, adesso e per un anno, le singole diocesi saranno impegnate con iniziative locali che termineranno dal 1 al 5 maggio 2013 con la prima Settimana Sociale dei cattolici della toscana dove scrive il documento – potremo riunirci per la definizione e la divulgazione di una agenda di speranza per la Toscana. Sullo sfondo dell’intero cammino il ricordo, e il documento finale, dell’ultima Settimana Sociale dei cattolici italiani, che si svolse a Reggio Calabria due anni fa analizzando molti profili di attualità: economia e politica, immigrazione e scuola, riforme istituzionali e mondo giovanile. In questo anno di lavoro ogni diocesi è chiamata a studiare e a confrontarsi sulle questioni socio-politiche-economiche (cercando di coinvolgere in questo fermento tutti i soggetti della società civile, politica, economica, sociale e tutti gli uomini di buona volontà) per contestualizzare nei singoli territori quella che i cattolici chiamano agenda di speranza. Fra i primi appuntamenti toscani alcune iniziative su economia e nuovi stili di vita, lavoro e legalità, ambiente ed ecologia. Attivi un sito web (www.toscana.chiesacattolica.it) nonché pagine su Facebook e Twitter.
Caritas e bene comune. L’incontro si era aperto con la preghiera guidata dal vescovo delegato per la pastorale sociale e il lavoro, mons. Giovanni Santucci, che ha sottolineato la scelta del brano evangelico delle Beattitudini, come leit-motiv del cammino intrapreso dai cattolici toscani, invitando i presenti a chiedersi come vengono vissute oggi queste Beatitudini. Come cristiani, ha detto, siamo consapevoli che la Pasqua cambia il mondo, orienta la vita, fonda la speranza. Non c’è il politico cristiano, ma il cristiano che serve la sua comunità. Monsignor Arrigo Miglio ha inquadrato il cammino dei cattolici toscani all’interno di quello delle settimane sociali nazionali, illustrando il documento conclusivo della 47ª, tenutasi nel 2010 a Reggio Calabria, ma con lo sguardo già rivolto all’appuntamento della 48ª, che sarà nell’autunno del 2013. Ha sottolineato soprattutto la necessità del discernimento per dar vita ad una agenda di speranza per il Paese, ma anche la necessità di riscattare la parola Caritas e la nozione di bene comune, alla luce della Dottrina sociale della Chiesa. Per un cattolico onesto e competente ha osservato non solo è difficile individuare il bene comune, ma anche farlo capire alla gente. Da qui il compito di purificazione della ragione a cui è chiamato il cattolico, sviluppando quelle argomentazioni razionali che aiutino tutti a capire il vero nesso tra persona e bene comune.
Un terreno tipicamente laicale. Disastro antropologico e desertificazione valoriale. Giuseppe Savagnone è partito da queste recenti espressioni del card. Bagnasco per descrive la crisi del nostro sistema politico, in cui destra e sinistra sembrano ormai accomunate da idee tardo-liberiste, che mettono al centro i bisogni e le pretese dei singoli, innalzati al rango di diritti individuali. E questa è la fine della comunità, della politica intesa come ricerca del bene comune. Tocca ai cattolici riportare idee e speranza. Ma non è che i cattolici arrivino oggi sulla scena politica. Anche loro sono responsabili di questa situazione. E’ perciò necessario per Savagnone – un atto penitenziale, che non significa rimestare il passato o rimanere progionieri dei sensi di colpa, ma capacità di conversione. Capacità di prender coscienza delle nostre ferite e trasformarle in feritoie da cui far entrare un po’ di luce. I vescovi hanno il diritto e dovere di richiamare i principi e indicare valori, anche coniugandoli a situazioni concrete. Dopodiché si apre l’immenso spazio della politica, che è compito dei laici, senza per questo che depositino la loro fede all’attacapanni, ma comportandosi da cittadini cristiani. Se oggi c’è un eccessivo protagonismo della gerarchia, per Savagnone, è perché si opera una forma di supplenza. La Dc nel dopoguerra poteva contare su un 70% di dirigenti che provenivano dall’associazionismo e il 70% di chi la votava era un cristiano praticante. Oggi quel mondo non c’è più. E può essere inutile tentare di costruire dighe contro leggi sbagliate, quando la mentalità corrente, anche dei cattolici, è ormai favorevole a quelle leggi. Il lavoro da fare è quello di base, attraverso la formazione di coscienze mature sul piano civile e ecclesiale.
Con l’incontro di sabato 17 marzo a Firenze, le comunità ecclesiali della Toscana si sono assunte il compito di partecipare al progetto indicato dalla Chiesa italiana nella settimana sociale di Reggio Calabria (ottobre 2010), dove furono proposte alla riflessione del popolo di Dio che vive in Italia tre parole impegnative: unità, responsabilità, speranza. Su queste tre parole, anche in relazione a quello che abbiamo ascoltato a Firenze, dobbiamo sintonizzare il nostro comune modo di vivere la fede in Gesù Cristo nella temperie di questo nostro tempo, come sempre tempo di crisi e di Grazia.
Unità. Da tempo la Chiesa ripete che il Paese si salverà solo attraverso una rinnovata coesione sociale, sul tipo di quella che consentì all’Italia distrutta dalla guerra di avviare un grande progetto di ricostruzione. Fu del resto la coesione sociale, sorretta da grandi valori di solidarietà, a consentire che la forte dialettica politica non degenerasse mai in contrapposizioni insanabili. L’unità ci richiama tuttavia anche ad un grande compito interno alla comunità ecclesiale, dove spesso le varie realtà che la compongono si muovono con logiche di competizione anziché con spirito di comunione. L’unità significa anche comunione tra coloro che esercitano nella comunità ecclesiale funzioni e ministeri diversi, senza ad es. confusione di ruoli tra laici e pastori, con questi che svolgono talvolta «supplenza politica» e gli altri compiaciuti di svolgere a volte «supplenza clericale».
Responsabilità. La responsabilità è oggi una delle parole tanto più abusate quanto meno comprese nelle loro implicazioni. La responsabilità è infatti l’unico modo di riempire di significato la libertà, che senza responsabilità diventa una pura possibilità di scelta senza dover rendere conto a nessuno, nemmeno alla propria coscienza. Responsabilità, per la Chiesa e per i credenti, significa rispondere alle domande di senso, di valori e di solidarietà che provengono da tutte le articolazioni della vita sociale. Abbiamo pensato per molti anni di vivere in una società felice e ci accorgiamo improvvisamente di vivere, come è stato detto, in una società dalle «passioni tristi». La forza del Vangelo, che è forza di parola e di vita, ci invita a rispondere a questa sfida in atteggiamento di «timore e tremore».
Speranza. Raccogliendo l’invito della Settimana sociale di Reggio Calabria, anche per la Toscana si parla di un’agenda di speranza. La speranza è quella molla spirituale che fa affrontare le situazioni con il coraggio del nuovo. Chiediamoci dunque: la comunità ecclesiale è sempre una comunità di speranza, o non prevale in essa, almeno ogni tanto, la paura del nuovo, lo scoramento, la rassegnazione e quindi l’inerzia?
Il cammino intrapreso a Firenze prospetta un anno di lavoro nelle realtà locali. Da questo lavoro dipenderà il risultato della prima settimana sociale dei cattolici della Toscana che si terrà dal 1° al 5 maggio maggio 2013. Scarsamente significativo sarebbe un itinerario che si svolgesse solo attraverso piccole iniziative locali riservate agli addetti ai lavori. Dobbiamo tutti assieme intraprendere un cammino di vera conversione ecclesiale, che significa rimettere in movimento l’energia del Vangelo sociale, ovvero la capacità delle fede di essere non il freno conservatore della dinamica sociale ma l’additivo innovatore di coloro che, come dice san Paolo riferendosi ad Abramo, continuano a sperare contro ogni speranza.
Quando ha evocato il diario spirituale di Dossetti per opporlo ad immaginari «diari spirituali» di Berlusconi, Giuseppe Savagnone è involontariamente scivolato dal facile, dalla boutade, ad un punto cruciale. Al prestigio della forte intelligenza di Giuseppe Dossetti la politica italiana e la cultura cattolica devono, infatti, non poco dei loro limiti: dalla sopravvalutazione del significato della sfida comunista, a quello che si chiama oggi lo «statalismo» della Prima repubblica, alla deriva moralistica e al «fondamentalismo costituzionale» di resti della Dc negli anni Novanta; quelli almeno che non si erano già trasformati in indistinguibili politici (amministratori, saggisti, ideologi) di sinistra. Non è dalla «spiritualità» che si deduce una buona politica cattolica.
Sennonché, dopo Tangentopoli, alla «politica cattolica» derivata o derivabile dalla ispirazione «dossettiana» i cittadini si sono sottratti, affidandosi ad un nuovo progetto politico (al «berlusconismo»). L’immobilizzazione che ha colpito i governi di centrodestra fino alla crisi recente non è l’effetto di un «tardo liberalismo», ma della tenacia delle patologie «stataliste» che hanno ostacolato (anche dal basso) un programma di modernizzazione.
Savagnone ha anche ricordato (da un libro di Sandro Magister) una Dc degli anni Cinquanta-Sessanta i cui quadri erano costituiti prevalentemente da uomini di Ac e l’elettorato prevalentemente da praticanti regolari. Ebbene: questa classe politica e, in certa misura, élite religiosa, è nel suo insieme quella che non ha retto (in termini di carattere, non meno che di fermezza ideale e intellettuale) né la lunga crisi del dopo Sessantotto né le svolte critiche (a livello di storia profonda) del divorzio e dell’aborto, rifugiandosi in improvvisate «laicità» o in «scelte religiose». La prova che «i liberi e forti», fatte salve delle minoranze, hanno dato nel corso dell’ultimo ventennio della Prima Repubblica, ha segnato il tracollo non solo della «mediazione» della Dc ma anche della affidabilità cattolica delle organizzazioni «formative» di Ac. Ed è proprio in questo clima, tra disordine culturale e illusioni emancipatorie, che la Dottrina sociale è sembrata perdere di legittimità, anzi plausibilità, ed è scomparsa per un ventennio (1970-1991) dal linguaggio e dalle iniziative pubbliche del «mondo cattolico» italiano.
Non i cattolici sono scomparsi politicamente; ne sono andate in pezzi formazioni e rappresentanze storiche. Sono rimaste «politiche» e cattoliche (credenti ordinari, non di élite, non di filiera Ac) le maggioranze del paese, presenti di fatto nei partiti, nelle istituzioni, nei quadri della società civile e negli elettorati. Su queste maggioranze (non tutti praticanti, non «obbedienti» in tutto, difformi dalle minoranze parrocchiali qualificate) si è esercitata, nei limiti del possibile, la diretta guida delle gerarchie, sul modello di Giovanni Paolo II. E su chi avrebbero dovuto contare? Sui residui di ciò che nell’arco di un cinquantennio era diventata una costellazione disorientata e incontrollabile? E questa transizione (indicata anche come la «stagione ruiniana») non è una supplenza né è provvisoria: la grande vicenda otto-novecentesca dei laicati organizzati è conclusa, assieme al quadro e alla sfida della sfera pubblica statuale (liberale) che l’aveva resa necessaria.
Esiste invece una politicità, come esiste una cristianità, cattolica diffusa quanto differenziata, non rappresentata se non minimamente dai «politici cattolici» né, poniamo, dai «volontariati»; e non potrebbe esserlo. Ieri nella maggioranza (quadri e elettorato) di centrodestra, oggi inaspettatamente ma non paradossalmente attiva nel governo Monti. La riflessione deve partire da qui. Se non prendiamo atto delle cose non ci eviteremo l’impolitica, equivocata per «politica futura».
Due repliche all’intervento del professor De Marco
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Economia, politica, società, riforme: dove sono i cattolici? (di Andrea Bucelli)
Giovani, sciogliere i lacci che soffocano la creatività (di Giovanni Soldani)
Per un’economia pulita (di Stefano Biondi)
Il percorso dei cattolici toscani per un’«Agenda di speranza»
La Chiesa esperta di economia (di Leonardo Salutati)