Toscana
Caso Welby, il no del Vicariato
Quando ci sono casi di persone che rifiutano la vita, in situazioni in cui non sempre si riesce a comprendere quale sia lo stato di libertà, di consapevolezza, i funerali poi si fanno affidando sempre tutto alla misericordia di Dio, perché nessuno di noi è giudice. In questo caso, invece, c’è un discorso diverso, legato non tanto al voler essere noi i giudici – perché questo, lo ripeto, non spetta certo a noi – ma al modo in cui è stata condotta la vicenda di questa sofferenza e di questa morte, anche per prese di posizioni dello stesso malato, di coloro che sono entrati in questa vicenda e dei familiari stessi.
Spiega così, l’arcivescovo Luigi Moretti, vicegerente della diocesi di Roma, ai microfoni di Radio Vaticana, la decisione del Vicariato di non concedere funerali religiosi a Piergiorgio Welby, il malato di distrofia muscolare progressiva morto la notte del 20 dicembre. Nel suo comunicato, il Vicariato di Roma aveva spiegato che a differenza dai casi di suicidio nei quali si presume la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, la volontà di porre fine alla propria vita del dott. Welby era ripetutamente e pubblicamente affermata e ciò, si osserva nella nota, contrasta con la dottrina cattolica. Tuttavia, concludeva il comunicato, non vengono meno la preghiera della Chiesa per l’eterna salvezza del defunto e la partecipazione al dolore dei congiunti.
Per mons. Moretti a questo punto, il segno che la Chiesa poteva dare era semplicemente quello di riconoscere e prendere atto di una volontà espressa che, come tutte le scelte, ovviamente va a collocarsi all’interno di una responsabilità che porta con sé delle conseguenze. Non possiamo, quindi, dare dei segnali contraddittori anche per le persone.
A proposito delle polemiche scaturite per la decisione del Vicariato, mons. Moretti aggiunge: In questi casi, tutto serve ad alimentare le polemiche. Io credo che meriterebbe più rispetto il mistero della morte: non può diventare tutto oggetto di polemiche e di strumentalizzazioni. Io credo che l’appartenenza alla fede, l’appartenenza alla Chiesa non sia semplicemente un qualcosa di soggettivo. La scelta della fede è una scelta di libertà e la scelta della coerenza nella fede è il minimo che si possa chiedere e che ci chiede il Signore.
Ecco il testo integrale del comunicato diffuso venerdì sera dall’ufficio stampa e comunicazioni sociali del Vicariato di Roma: In merito alla richiesta di esequie ecclesiastiche per il defunto dott. Piergiorgio Welby, il Vicariato di Roma precisa di non aver potuto concedere tali esequie perché, a differenza dai casi di suicidio nei quali si presume la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, era nota, in quanto ripetutamente e pubblicamente affermata, la volontà del dott. Welby di porre fine alla propria vita, ciò che contrasta con la dottrina cattolica (vedi il Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2276-2283; 2324-2325). Non vengono meno però la preghiera della Chiesa per l’eterna salvezza del defunto e la partecipazione al dolore dei congiunti.
UN CASO POLITICIZZATO. A giudizio di mons. ELIO SGRECCIA, presidente dell’Istituto di bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, intervistato da Radio Vaticana, dal punto di vista etico, “rifiutare le cure, se le cure sono proporzionate, è una richiesta illecita; però se il paziente rifiuta queste cure non lo si può costringere”, ma “il medico, che stacca la spina, si espone al giudizio della legge”. Secondo Sgreccia, “non possiamo sapere se Welby ha fatto richiesta di interruzione delle cure perché rifiutava questo trattamento per lui insopportabile, e in qual caso la richiesta poteva essere moralmente lecita, oppure il paziente ne ha fatto richiesta per farne una battaglia politica e, quindi, per ottenere una legge che spiani la strada all’eutanasia”.
Anche per GIOVANNI GIACOBBE, presidente del Forum delle associazioni familiari e preside della facoltà di giurisprudenza della Lumsa, “Welby è stato strumentalizzato per ragioni politiche, che non ho minimamente condiviso”. “Facciamo tante battaglie sulla privacy – ha proseguito Giacobbe – mentre i media ogni giorno lo sbattevano in prima pagina o lo mandavano in onda senza rispettare la sua dignità di persona”. Dal punto di vista giuridico, conclude il presidente del Forum, “la vita umana non è nella disponibilità di nessuno, neanche del portatore”.
La morte di Welby, però, non può costituire un “precedente” dal punto di vista giuridico, secondo FRANCESCO D’AGOSTINO, presidente dell’Unione giuristi cattolici italiani: “La legislazione italiana in materia è assolutamente chiara e completa, e cioè no all’eutanasia, no all’accanimento terapeutico e sì, anche se si tratta di un sì tragico, al rifiuto di cure da parte dei pazienti”, per cui non vi è “alcuna ragione per parlare di precedenti”.
CASO SIMBOLO. Per il presidente dell’Associazione medici cattolici italiani (Amci), VINCENZO SARACENI, “si deve rilevare che nessuno può arrogarsi il diritto di interrompere con atto volontario una vita umana che per la sua preziosità e unicità rimane comunque un bene indisponibile”. “Non è bene attestarci sul caso Welby e sulla sua morte per affrontare adeguatamente l’eutanasia perché siamo di fronte ad un caso limite, molto problematico”: di quest’opinione è GIUSEPPE SAVAGNONE, docente di filosofia e responsabile della pastorale della cultura di Palermo, per il quale “la lotta all’eutanasia è sacrosanta”. Il rischio, però, a giudizio di Savagnone, è che “attraverso Welby i radicali vogliano ottenere un caso simbolo attraverso il quale far passare l’idea, nell’opinione pubblica, che l’eutanasia sia una cosa giusta, mentre essa, non dobbiamo dimenticarlo, significa far morire una persona”. Per il MOVIMENTO DEI LAICI DI DON ORIONE, “dopo mesi di polemiche, ora è il momento per il silenzio, per la riflessione e soprattutto per pregare per l’anima di Welby”.
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