Vita Chiesa
Caso Cantini: un’archiviazione che sa di condanna impropria alla Chiesa
DI RICCARDO BIGI
La sentenza di archiviazione del caso Cantini ha fatto riemergere in questi giorni vecchie storie e vecchi dolori. Ed è paradossale che proprio l’atto finale che avrebbe dovuto chiudere, mandandola in archivio, l’inchiesta giudiziaria, abbia finito per riaprire una ferita profonda per la Chiesa fiorentina. Ma i paradossi, se ben si guarda, sono più di uno. Primo fra tutti quello che il provvedimento di archiviazione appaia piuttosto una sentenza di condanna: ma una sentenza impropria, pronunciata senza processo e senza mai ascoltare tutti i diretti interessati.
I fatti dicono che la Chiesa ha aperto su Cantini un processo canonico ben prima della giustizia statale, per non parlare dei giornali, e che ha fatto il proprio dovere arrivando – a differenza della giustizia statale a una sentenza di condanna. Una sentenza più blanda, quando ancora le accuse (quelle contenute nei primi memoriali) erano incomplete; una condanna dura e definitiva (riduzione allo stato laicale e domicilio coatto) quando le accuse dopo il 2007 si sono fatte più precise, più gravi e circostanziate. Due sentenze cui la Chiesa è arrivata autonomamente e che non hanno avuto bisogno della «spinta» dei mass media o di un’inchiesta giudiziaria (vedi prima sentenza e seconda sentenza).
La magistratura dello Stato, invece, che non ha potuto condannare Cantini pur riconoscendo la gravità dei suoi atti, lancia allo stesso tempo accuse di «inerzia» verso la Chiesa. Nella richiesta e nel decreto di archiviazione, non ci si limita elencare gli elementi raccolti a carico di Cantini, ma si dà anche una lettura soggettiva (e parziale) di gran parte della vicenda. La richiesta del Pm fa riferimento, ad esempio, alle prime accuse presentate fin dal 1992: non si dice che allora però l’accusatore era uno solo e che la denuncia non era circostanziata. Tutte condizioni che non consentivano l’apertura di un procedimento canonico. Proprio per questo, quando nel 2005 si aggiunsero nuove testimonianze e nuove rivelazioni, fu consigliato alle vittime di scrivere dei memoriali: è stata questa la strada (ben prima dell’uscita della vicenda sui giornali) che ha consentito poi di arrivare alla condanna di Cantini da parte della Chiesa.
In queste carte poi il Pm trova il modo di inserire una vicenda che riguarda incontri di carattere omosessuale. Una vicenda che, per sua stessa ammissione, è ininfluente ai fini dell’inchiesta. E di fatto non c’entra niente. Una vicenda che emerge dalle dichiarazioni spontanee rese da una persona che, come prova della veridicità del suo racconto, porta la ricevuta di un bonifico bancario: soldi che avrebbe avuto in cambio del silenzio. Il Pm presenta questo bonifico come «principio di riscontro». Peccato che si dimentichi di dire che il Ros dei Carabinieri ha accertato che il conto da cui è stato fatto il bonifico non è riconducibile in nessun modo a monsignor Maniago, ma riguarda invece un soggetto ecclesiastico di altra diocesi. Sorprende anche il fatto che, in una inchiesta che suscita tanta attenzione nei mass media, sia passato del tutto inosservato il fatto che l’indagine per la fuga di notizie, che era stata aperta dopo la pubblicazione di questa denuncia su alcuni giornali, sia stata archiviata, sebbene risultassero dai tabulati telefonici contatti frequenti tra i giornalisti che per primi ne hanno scritto e ambienti investigativi. Anche in questo caso, quindi, c’è il paradosso di una vicenda che finisce di nuovo sui giornali, pur essendo non solo penalmente irrilevante, ma dai contorni molto confusi e tale da suscitare non pochi dubbi su come (e con quali finalità) sia stata fatta emergere. C’è da precisare, a questo proposito, che anche presso la Congregazione per la Dottrina della Fede, dove sono arrivate lettere di denuncia, non c’è nessun fascicolo aperto sul Vescovo ausiliare di Firenze e il fatto che monsignor Maniago sia ancora al suo posto è un segnale evidente che il suo mandato mantiene tutta la sua validità.
Di tutto quello che è emerso in questi giorni, la cosa che merita davvero attenzione è la voce delle vittime, che chiedono ascolto dalla Chiesa e invocano un «gesto di accoglienza e di pacificazione». A questo riguardo bisogna ricordare (e anche le vittime lo hanno sottolineato in questi giorni) che l’arcivescovo Giuseppe Betori ha già avuto su questa vicenda parole chiare e forti. Lo ha fatto nel giorno del suo arrivo a Firenze, quando ricordò che la Chiesa, anche la Chiesa fiorentina, è fatta di uomini che in quanto tali possono essere «segnati dal peccato». «Ciascuno disse allora – è chiamato a rispondere personalmente delle proprie colpe di fronte alla comunità ecclesiale e alla società. Ma se queste cose accadono, è anche perché l’attenzione e la vigilanza di tutti si sono in qualche modo affievolite. Ognuno di noi, e io per primo, secondo il proprio ruolo e responsabilità, siamo chiamati a impegnarci attivamente a risalire la china, in un percorso di purificazione che non ammette alibi».
L’Arcivescovo è poi tornato a parlare degli abusi compiuti da Cantini in più riprese: l’ultima nella Messa crismale del Giovedì Santo, appena pochi giorni fa. Accennando allo «splendore di un presbiterio ricco di luminose e pur tra loro varie figure» che contrassegna la Chiesa fiorentina, ha ricordato anche che «non sono mancate debolezze in questa storia, alcune anche di uno spessore tragico, per le quali non ci stancheremo mai di chiedere perdono, di sentirci vicini alle vittime che ne hanno sofferto e di impegnarci per rimuoverne le cause». «Ma le tenebrose infedeltà di alcuni ha aggiunto – non possono oscurare la luminosa fedeltà dei più». Alle parole pubbliche vanno sommati gli incontri privati che Betori ha avuto con le vittime.
A tutto questo potrebbe aggiungersi un gesto più solenne, un gesto che coinvolga tutta la diocesi. Tenendo conto, però, che sia davvero un momento di pacificazione che nasce dalla verità e non dalle recriminazioni o dalla pretesa di un’assunzione di responsabilità da parte della Chiesa. Perché la presa di coscienza degli abusi terribili compiuti da una persona è giusta e necessaria, così come è doveroso agire perché fatti così gravi non possano più accadere. Ma tutto questo non può trasformarsi nella colpevolizzazione di una intera diocesi. Se un «gesto» serve, deve essere un gesto che partendo dalla doverosa richiesta di perdono ed esplicitando una reale volontà di conversione, simboleggi il cammino di espiazione e di purificazione su cui si vuole procedere: un momento da vivere nel silenzio e nella preghiera, aperto più al futuro che al passato, incentrato sulla carità verso le persone coinvolte in questa tragica vicenda, sulla fiducia e la speranza nello Spirito che sana le ferite.