Cultura & Società
Casa Medici, l’immagine al potere
Il giovanotto e la signora di cui sopra per la verità non proprio uno splendore, almeno esteticamente parlando sono solo due dei personaggi che danno vita alla mostra «I volti del potere. La ritrattistica di corte nella Firenze Granducale» di scena fino al 28 luglio nella corte della Sala delle Reali Poste agli Uffizi. Sono 32 in tutto i protagonisti della mostra: membri della Famiglia Medici ma anche alcuni esponenti legati alla loro corte. Dopo il successo riscosso Oltreoceano da una antologia di queste opere esposte a Providence nel ’99 e a Philadelphia l’anno scorso prima che molte di esse rientrino a tempo indefinito nel chiuso dei Depositi degli Uffizi, ecco dunque questa tappa fiorentina. Sono ritratti provenienti dalla ricca collezione iconografica della famiglia Medici che è andata accumulandosi nel corso dei secoli tra Palazzo Vecchio, gli Uffizi, Palazzo Pitti, le ville medicee e il Corridoio vasariano (aperto, fra l’altro, proprio in occasione delle nozze di Francesco I con Giovanna d’Austria). Lavori che non sono dunque visibili nel normale percorso museale e che rappresentano dunque una rara occasione per conoscere ed apprezzare lo stile di vita ufficiale nella Firenze che va dal XVI fino al XVIII secolo. Un’opportunità, soprattutto per i fiorentini, di riscoprire le proprie tradizioni culturali, artigianali, artistiche.
La selezione delle opere, ulteriormente potenziata con qualche aggiunta di rilievo, è stata curata da Caterina Caneva, responsabile agli Uffizi del Dipartimento dell’arte dal Sei all’Ottocento. Alla studiosa, che per gli argomenti specialistici della storia del costume, dei gioielli e delle armature ha potuto giovarsi della competenza di Costanza Contu, Alberto Corti, Roberta Orsi Landini e Maria Sframeli, si deve anche il catalogo dell’esposizione.
Fra i volti in mostra vi sono quelli di cinque dei sei figli di Cosimo II (entrando nel cortile sulla destra), c’è lo stesso Cosimo con la moglie Maria Maddalena d’Austria e il figlio Ferdinando II, c’è Vittoria della Rovere, Isabella de’Medici, Clelia Farnese, c’è persino il cardinale Leopoldo in tre versioni diverse: bimbo, giovinetto e in abito cardinalizio (colore che richiama gli imponenti cavalletti su cui troneggiano i protagonisti). E ciò a dimostrazione che la ritrattistica di questo periodo seguiva i personaggi «dalla culla fino alla tomba».
Ma l’esposizione agli Uffizi pone l’accento anche sul rapporto di reciproca dipendenza tra i committenti, in questo caso i signori di Firenze, e la folta schiera di artigiani artisti (come il Giambologna, il Poggini, Alessandro Allori, Santi di Tito) che si celavano dietro questa immagine di potere e di ricchezza e che contribuirono in maniera sostanziale a diffondere la gloria di Firenze nell’indiscusso primato nel campo delle arti e del collezionismo. Erano loro che eseguivano le vesti, i ricami, i gioielli e le armature che indossavano principi e principesse, i mobili e i tessuti che adornavano le stanze e che venivano riprodotti nei dipinti. Nessuno di questi oggetti o indumento o armatura era collocato a caso. Tutto aveva un significato e doveva trasmettere un messaggio ben preciso.
«I volti del potere mediceo trasferiti all’ombra degli Uffizi scrive nel saggio introduttivo al catalogo il Soprintendente al Polo museale fiorentino Antonio Paolucci ci obbligano a riflettere sulle conseguenze gloriose, sul lascito stupefacente di quell’antico potere. Nei quasi tre secoli di dominio mediceo, grande, grandissima è stata la gloria di Firenze e del Granducato in Italia e in Europa, ma quasi insignificante è stato il potere reale della dinastia». Fra la presa del potere di Cosimo e la morte di Giangastone dobbiamo registrare infatti un diagramma di lento declino e di sempre maggiore insignificanza politica.
Eppure, come osserva Paolucci i sovrani di questo stato marginale riuscirono a compiere il miracolo. Nessuna dinastia d’Europa ha saputo sfruttare con tanta intelligenza le formidabili risorse pubblicitarie che l’arte e la cultura portano con sé. Ancora oggi viviamo di quel lascito. Ancora stacchiamo i dividendi, apparentemente inesauribili, di un investimento tre volte secolare. Un potere debole ha prodotto una gloria grande e, quel che più conta, fruttuosa e duratura».
I più grandi sovrani del Cinquecento erano soliti donarle ai propri figli maschi fin dalla tenera età e facevano a gara per aggiudicarsi le creazioni delle botteghe più famose. L’abito di Cristina di Lorena è di colore spento, indicato per vestiti giornalieri, mentre per i ritratti ufficiali si preferivano le decorazioni importanti e le tinte pregiate. La lunghezza della gonna rispetto al busto fa pensare all’uso di calzature alte con zeppe.
Ma soprattutto quello che colpisce nel ritratto della granduchessa sono i tre fili di perle attorno al collo, che facevano parte del tesoro granducale e che sono ancora oggi registrati nell’inventario delle Gioie di Stato fatto redigere da Maria Luisa de’ Medici il 10 marzo 1741: «Tre fila di Ottantadue perle grosse tonde per ciascheduno, che in tutte sono Dugento Quarantasei Perle grosse tonde Perle, e pesano Once quindici e Denari dodici che sono Carati Duemila Dugento Trentadue». Il dipinto ne raffigura 62 sul filo più lungo, 52 in quello di mezzo e 44 nel filo più corto.
A proposito di sfarzo, l’immagine di Maria de’ Medici, regina di Francia, testimonia la smodata passione della sovrana per le perle e i diamanti, di cui sono piene le cronache del tempo. Basta pensare che un suo abito del 1606 risulta trapuntato da 32 mila perle e da 3 mila diamanti. Non solo: nel ritratto in mostra, la chioma riccia della regina è impreziosita da una corona fatta di perle e di diamanti. All’orecchio pende una grande perla a goccia, il collo è cinto da un filo di grosse perle. La veste regale è tempestata da una serie di bottoni-gioiello. Anche la cintura è realizzata con diamanti alternati a perle. Infine, al centro del corpetto di ermellino la signora sfoggia una croce pettorale formata da 14 diamanti. Non c’è dubbio: la passione della regina era proprio… smodata.