Cultura & Società
Carnevale: divertirsi è un piacere, basta saperlo far bene
di Umberto Folena
Tempo di divertimento. Di spasso. Di riso. Su un settimanale cattolico Impresa apparentemente impossibile. Non c’è abitudine, non c’è tradizione. La prova? Le case editrici cattoliche sono più di cento. Producono migliaia di libri ogni anno, tra novità e ristampe. Ma nessuna ha una collana umoristica. Per capirci, una Bur cattolica è inconcepibile. Sembra che le editrici cattoliche siano convinte che una collana del genere non venderebbe una copia. Convinte che il pubblico cattolico non abbia voglia di divertirsi. Di pregare, riflettere, piangere, meditare, studiare sì. Ma di ridere no, mai.
Ovviamente si sbagliano, ma prova a spiegarglielo. In gran parte i cattolici sono causa del loro male. In modo implicito, sottile, sottinteso fin da bambini ci fanno capire che il tempo del divertimento non ha valore in sé, ma è una inevitabile necessità per poter tornare a studiare e produrre, insomma alle cose serie. Potessimo farne a meno Il divertimento fine a se stesso, come momento di gioia, creatività, invenzione, in cui tutto è gratuito e senza altro fine se non fare il pieno di gioia e spensieratezza, questo no. Oppure molto ma molto raramente.
E il Carnevale? Una dura necessità per rendere più sopportabile la Quaresima. Ma sarà proprio così? Il teologo Karl Barth è dell’idea opposta: «Ridere garantisce ci avvicina a Dio». E il poeta Pablo Neruda, che ignorava Barth, ci spiega il perché: «Ridere è il linguaggio dell’anima». Se Neruda ha ragione, e sottolineiamo se, chi non sa ridere ha un’anima muta; e come potrà, allora, dialogare con Dio?
Si fa presto però a dire divertirsi Semplificando al massimo, ci sono almeno 6 modi per divertirsi. E soltanto uno, l’ultimo, ci piace.