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Card. Biffi: La città di San Petronio nel terzo millennio (12-09-2000)

INDICE

Parte Introduttiva Parte Introduttiva – Premessa – Una Nota che guarda al futuro – I destinatari

I – Il “volto” di Bologna – Un volto “cristiano” – La Madonna di – San Luca – San Petronio – San Petronio e le torri – La cattedrale – Santo Stefano – Le chiese dei nostri santi – I portici – Osservazione conclusiva

II – L’ “anima” di Bologna – L’ “anima” – Il gusto di vivere – Un gusto di vivere che deve essere ragionevole – La vocazione al sapere – La vera sapienza – L’amore per la libertà – Il cristianesimo “petroniano” – La vita ecclesiale – Il culto dell’Eucaristia – L’amore alla Vergine Maria – L’impegno di carità – L’antica unità spirituale – Un calo di tensione – La speranza cristiana

III – Le sfide del nostro tempo

1.La questione dell’immigrazione – Una sorpresa – L’annuncio del Vangelo – Approccio realistico – Considerazione generale – Cattolicesimo “religione nazionale storica” – Una sorpresa – L’annuncio del Vangelo – Approccio realistico – Considerazione generale – Cattolicesimo “religione nazionale storica” 2. Il diffondersi di una cultura non cristiana – La cultura estranea al cristianesimo – L’attacco esplicito al fatto cristiano – In conclusione – La cultura estranea al cristianesimo – L’attacco esplicito al fatto cristiano – In conclusione

IV – I capisaldi della vita cattolica bolognese

– Purificazione della fede – I cinque capisaldi – La cattedrale – San Petronio – San Luca – Santo Stefano – Villa Revedin

V – Indicazioni operative

– Ritorno alla normalità – I pellegrinaggi a San Petronio

Conclusione Parte Introduttiva Premessa

1. Essere bolognesi è un dono: vorrei che ne acquistassimo tutti una coscienza più viva. Senza dubbio questa persuasione può fiorire, rispettivamente, nella mente degli abitanti di ciascuna città. Ma ciò non toglie che il renderci conto della specificità e del pregio del “nostro” dono sia per noi gratificante e, crederei, anche doveroso.

Essere bolognesi è una fortuna che è opportuno saper riconoscere; ed è giusto, senza alcuna arroganza, esserne lieti e fieri.

2. E’ una fortuna e un dono, ma altresì un impegno e una responsabilità. E’ una eredità pervenutaci da una vicenda di secoli: una vicenda ricca di valori, determinata dai sacrifici e dalle fatiche dei nostri padri, animata e guidata da una passione generosa per questa terra che non è mai venuta meno.

Arrivata fino a noi che varchiamo la soglia del Terzo Millennio, questa eredità chiede di essere consegnata alle generazioni future.

Una Nota che guarda al futuro

3. La presente Nota pastorale è ispirata – oltre che da una sincera ammirazione per la nostra storia e dall’apprezzamento per le sue molte testimonianze ancora eloquenti e fruibili – anche dalla consapevolezza delle grandi possibilità della nostra realtà odierna, nonostante i molti problemi e le molte difficoltà.

Queste pagine, più che altro, intendono rasserenare e incoraggiare: desiderano convincere tutti che questa città – ammaestrata e motivata dal suo passato, edotta delle possibilità e delle energie (pur se talvolta latenti) del suo presente – può affrontare con fiducia e con decisione le sfide e le incognite del futuro. Ecco in sintesi ciò che qui ci proponiamo di dire.

I destinatari

4. A chi è diretta questa mia riflessione?

E’ ovvio che, essendo di natura “pastorale”, sia indirizzata a quanti si riconoscono senza ambiguità appartenenti al “gregge” di Cristo; a quel gregge che, anche quando dà l’impressione di essere “piccolo”, è sempre immenso agli occhi del “Principe dei pastori” (cf 1 Pt 5,4), dal momento che secondo la parola di Gesù “è piaciuto al Padre di dargli il suo Regno” (cf Lc 12,32).

I destinatari, in senso proprio e rigoroso, non possono dunque essere che i “credenti”; quelli cioè che non hanno obiezioni né teoriche né comportamentali nei confronti di questa precisa parola rivolta da Gesù agli apostoli (e quindi anche ai vescovi, che sono i successori degli apostoli): “Chi ascolta voi ascolta me” (Lc 10,16). E’ una parola che, all’alba del cristianesimo, è attualizzata così da sant’Ignazio di Antiochia: “Ascoltate il vescovo, se volete che Dio ascolti voi” (A Policarpo 6).

5. Ma le mie considerazioni sono offerte anche a tutti i bolognesi, nel pieno rispetto delle loro convinzioni e della loro autonomia di giudizio. Mi lusingo anzi che non mancheranno coloro che non si dispiaceranno di apprendere il pensiero di uno che, nato altrove, sotto un certo profilo è il “bolognese più antico”, dal momento che non c’è in Bologna né una dinastia familiare né una magistratura che possa attribuirsi un’origine remota e una continuità storica pari a quella della cattedra di san Petronio, del quale io sono in ogni senso l’ultimo successore.

Ciò che conta e tutti auspichiamo, è che ciascuno dei bolognesi ricerchi con interiore rettitudine e senza pregiudizi il vero bene di questa nostra amata città.

I. Il “volto” di Bologna

Un volto “cristiano”

6. Un centro multimillenario, che ha avuto tante vicissitudini, conserva in sé le vestigia delle varie epoche che l’hanno successivamente plasmato, ognuna secondo il suo genio e la sua capacità: villanoviani, etruschi, celti, romani hanno via via dato consistenza e figura a questo luogo, che non è mai andato deserto. E’ stato sempre animato da un’umanità vivace e operosa, che qui si è insediata, ha lavorato, ha sofferto, ha forgiato il suo presente e ha sognato, auspicato, progettato un miglior avvenire per i suoi figli e nipoti.

Ma sono, per la più parte dei casi, spenti residui e reliquie sepolte di mondi che non esistono più: sono, diciamo così, “memorie del sottosuolo”.

7. La Bologna che appare ai nostri occhi – la Bologna che oggi è viva – nasce ed è progressivamente formata in una cultura che trae luce e vigore dall’annuncio evangelico ed è segnata dal magistero e dall’intraprendenza della Chiesa Cattolica; ed è una cultura che ancora oggi è vitale. Il “volto” di questa città – nei suoi lineamenti più marcati e caratteristici, nei tratti che più sono immediatamente percepibili e più colpiscono – è incontestabilmente un volto “cristiano”.

Possiamo perfino congetturare che sia stata volontà esplicita dei nostri padri di riplasmare il vecchio nucleo abitato in modo che richiamasse il Regno di Dio: le dodici porte antiche evocavano anche nel numero quelle della Città celeste descrittaci dalla visione dell’Apocalisse (cf Ap 21,12).

Ed è un atteggiamento che si è mantenuto per secoli e ha orientato molti comportamenti e molte scelte. Sicché il visitatore non distratto si avvede subito che Bologna canta la sua fede anche dai muri. Quante strade, quanti crocicchi sono vigilati dalla Madonna e dai santi, che dalle antiche edicole guardano benignamente l’affaccendato convivere dei bolognesi e sembrano quasi voler elevare verso il mondo eterno i nostri svagati pensieri! Questa è una città che – a saperla leggere – da ogni suo angolo rimanda alla verità e al primato del mondo invisibile.

8. Tutto ciò si fa ancora più evidente in alcune sedi imponenti e mirabili di preghiera e di vita liturgica, che sono anche gli edifici più tipici e i più ammirati; e, tra l’altro, sono anche i più ricercati dai forestieri, i quali intuiscono che proprio da questi monumenti, più che da altri, traluce la bellezza e la grandezza propria di questa città.

Tenteremo di farne una rassegna piccola e per forza di cose incompleta.

La Madonna di San Luca

9. La vista che per prima si impone a chi si avvicina a Bologna è il colle della Guardia con il suo santuario mariano. E’ una vista che emoziona sempre anche il bolognese, reduce da un qualunque viaggio; e il notarlo è quasi un luogo comune: quando intravede da lontano l’inconfondibile capolavoro del Dotti, egli sente il sollievo e la gioia di essere finalmente “a casa”. Verso questa dimora della Vergine Maria la città si protende con un portico così straordinario da sembrare, specialmente con le sue luci notturne, quasi un incredibile sogno: un portico che è, vien da dire, un architettonico slancio d’amore. Quel santuario è oggettivamente un appello a innalzare lo sguardo alla dimora di Dio, dove la Madre del Signore risorto ci aspetta e nel frattempo, con affettuosa sollecitudine, ci aiuta nella difficile ascesa.

San Petronio

10. Sulla Piazza Maggiore, che è il massimo arengo della nostra vita associata, si erge il tempio dedicato a san Petronio, nostro principale patrono: esempio insigne del gotico italiano, di una bellezza luminosa, sobria insieme e imponente. In grazia di questa grandiosa costruzione, i nomi di Bologna e di Petronio sono nella fama universale inscindibilmente connessi: è l’opera che nel mondo più ci notifica e ci rappresenta. “Dire San Petronio è dire Bologna, dire Bologna è dire San Petronio”, osservava già il cardinal Lercaro. Ogni bolognese trova qui il simbolo più espressivo della sua identità.

“I bolognesi hanno sempre amato e amano questa basilica – ha detto nell’apertura del sesto centenario l’allora sindaco Renzo Imbeni – perché l’hanno sempre sentita come una delle grandi ‘case comuni’ della propria storia, nei cui complessi e ricchissimi significati vive la più autentica tradizione della città”. E in effetti, da quando nel cuore dell’abitato domina questo sacro edificio, Bologna è più certa di sé e del suo destino, più consapevole dei suoi valori, più caratterizzata e più viva: Bologna è più Bologna.

11. Questo è per tutti innegabile, indipendentemente dalle appartenenze ideologiche o religiose. Nessuno però può disattendere l’indole originaria e inalienabile di San Petronio, che è di essere una casa di Dio e quindi della famiglia di Dio, cioè degli appartenenti alla Chiesa Cattolica. Come tale, è nativamente immagine appunto della Chiesa, Sposa e Corpo di Cristo, che riconosce nel Signore Gesù il suo centro, il suo fondamento, il suo autentico altare; e nei fedeli ravvisa le pietre ben connesse del tempio più vero e destinato a essere eterno. Anzi nelle sue strutture murarie si può e si deve leggere l’allegoria dell’intera creazione che, nata dall’inspiegabile amore del Padre, è chiamata a ricongiungersi a lui nell’adorazione, nella lode, nella volonterosa e totale obbedienza.

San Petronio e le torri

12. Nel “volto” della nostra città spiccano anche le torri. Sono anch’esse famose e anch’esse ci sono care. Manifestano, tra l’altro, la grande perizia costruttiva di un’età che, chissà perché, si persiste a ritenere totalmente barbara e buia. Erano, prima del generale abbattimento, numerosissime: ogni famiglia, si può dire aveva la sua, perché ogni famiglia si sentiva potenziale nemica di tutte le altre.

Come si vede, la Bologna delle torri è la Bologna delle fazioni, della diffidenza, della discordia, delle lotte intestine. La Bologna di San Petronio invece – che riesce a concepire e a realizzare quell’opera gigantesca – è la Bologna che ha raggiunto finalmente la concordia civica, che può avvalersi di una sostanziale unità di intenti e di ideali, che è capace di guardare al bene comune, oltrepassando rivalità e particolarismi.

La cattedrale

13. La cattedrale non è il più famoso degli edifici sacri bolognesi. Eppure tra i nostri luoghi storici è il più illustre, il più carico di memorie, ecclesialmente il più rilevante; e resta il centro propulsore dell’intera vita diocesana.

Oggi è stata riscattata dalla malinconia di un dignitoso declino e sta godendo, oseremmo affermare, di una seconda giovinezza. Dopo l’insperata rinascita, molti nostri concittadini l’hanno riscoperta e hanno cominciato ad apprezzarla. In realtà, è un’aula splendente di una sua opulenta bellezza che risulta anche dalle pitture, dalle statue, dai fregi, dalla policromia dei pavimenti; ed è dotata di una funzionalità pastorale che teme pochi confronti.

Qui e non altrove – secondo la storiografia più recente e aggiornata – ha pulsato dai primordi il cuore della comunità dei credenti in Cristo. Da qui Petronio esercitò tanto bene e tanto efficacemente la sua missione episcopale, che l’indole e lo spirito della nostra gente ne restarono segnati per sempre.

Tra queste mura si conservano le testimonianze dell’intelligenza apostolica e del fervore sacerdotale dei nostri vescovi, in particolare del cardinal Gabriele Paleotti e del cardinal Prospero Lambertini. Quest’ultimo è – ritengo si possa dire – il più caro e il più ricordato dei nostri grandi concittadini, tanto da essere riconosciuto come il rappresentante più tipico dell’umanità bolognese. Ebbene, nella cattedrale di San Pietro, tutto parla di lui e della sua generosità: l’architettura, l’ornato delle pareti, la più parte degli arredi che impreziosiscono il nostro culto e adesso sono felicemente raccolti ed esposti al pubblico nel “Tesoro”. C’è perfino la sua tomba, che egli – divenuto papa e perciò sepolto in Vaticano – ha voluto fosse conservata, pur vuota, con il suo nome e la sua iscrizione.

14. In questo tempio, ci imbattiamo anche nella figura di san Pietro, che dalla nostra gente è stato venerato fin dal principio del cristianesimo bolognese con un affetto e una devozione senza eclissi. E così appare chiaro che tra gli elementi originari dell’identità bolognese c’è anche il desiderio di comunione con la Sede Apostolica e l’amore per il successore del Principe degli apostoli.

Santo Stefano

15. Il complesso delle così dette “Sette chiese” è uno degli ambienti più sacri e più suggestivi: sacri per l’evocazione, nello stesso suo disegno costruttivo, dei luoghi di Gerusalemme che sono stati teatro dell’azione redentrice del Figlio di Dio e per le memorie che vi sono custodite; suggestivo per l’antica origine (che risale presumibilmente allo stesso san Petronio), per la sua storia plurisecolare che l’ha accresciuto progressivamente senza fargli perdere l’armonia dell’insieme e l’unità di ispirazione, per il sovrano incanto dell’architettura medievale.

Chiunque entra in Santo Stefano – anche se proviene da patrie spiritualmente e culturalmente remote – non può sottrarsi al fascino di questa singolare atmosfera, mentre ogni bolognese avverte che qui, più che altrove, è custodita l’anima antica della sua città.

Le chiese dei nostri santi

16. A integrazione di questa rapida rassegna, mi pare giusto segnalare almeno alcune delle più belle chiese dedicate ai santi che, a diverso titolo, più ci sono vicini. Essi, anche attraverso il pregio di queste costruzioni, ci diventano familiari e pare vogliano farsi nostri concittadini. Ricordiamo in primo luogo “San Giovanni in Monte”, chiesa che è stata voluta come richiamo e ripresentazione del Monte degli Ulivi, quasi a completamento della Jerusalem bononiensis del complesso stefaniano. E’ un tempio di rara eleganza, arricchito da una straordinaria quantità di opere d’arte.

San Domenico, fondatore dell’Ordine dei Predicatori, riposa addirittura tra noi, nella basilica a lui intitolata, dopo che nell’ultima parte della sua esistenza ha fatto della nostra città il centro irradiatore della sua azione evangelizzatrice e riformatrice. La sua “arca” incomparabile è quasi un compendio della grande scultura tra il secolo XIII e il secolo XVI, da Nicola Pisano e Niccolò di Bari fino al giovane Michelangelo e ad Alfonso Lombardi.

Da un’ariosa e nitida chiesa gotica che porta il suo nome, è tenuta viva la memoria di Francesco d’Assisi, un altro grande santo che sentiamo particolarmente “nostro”. Egli, nel giorno dell’Assunta del 1222 – scrive un testimone oculare – predicò “sulla piazza antistante il palazzo comunale, ove era confluita quasi tutta la città”, riuscendo con le sue calde esortazioni “a spegnere le inimicizie e a gettare le fondamenta di nuovi patti di pace” (Fonti Francescane 2252).

L’apostolo Giacomo, patrono dei pellegrini, è un santo particolarmente venerato nella cristianità bolognese, che lungo i secoli gli ha dedicato ben diciannove chiese parrocchiali e non parrocchiali appunto perché sul nostro territorio passavano le più frequentate strade “romee”. Il tempio a lui intitolato nel cuore della città, insigne anche per i molti capolavori e per le memorie storiche che custodisce, attesta – con la sua prossimità alla sede centrale dell’Università che ha sempre richiamato studenti di tutte le nazioni – la nostra vocazione a diffondere nell’Europa il messaggio unificante della cultura giuridica, della scienza e dell’arte. Ricordiamo per ultima la chiesa del “Corpus Domini”, dove Caterina de Vigri, “la Santa” per eccellenza (come la chiamano familiarmente i bolognesi), si offre incorrotta da cinque secoli alla nostra stupita e devota contemplazione.

I portici

17. Bologna infine è la citta dei portici. Questo è uno dei dati esteriori che più vistosamente entrano a determinarne l’aspetto. A differenza di quanto abbiamo notato fin qui, il portico a prima vista non pare possedere direttamente una finalità religiosa, anche se per la verità è stato spesso realizzato fin dai primi tempi per favorire l’accesso a luoghi sacri particolarmente cari, come San Luca e Santa Maria Lacrimosa degli Alemanni.

E’ probabile che alla fortuna di questo elemento architettonico abbiano contribuito anche motivazioni economiche e perfino fiscali. Ma è indubbio che esso oggettivamente rivela un’attenzione agli altri che è consentanea allo spirito del Vangelo. I proprietari che, erigendo le loro case e i loro palazzi, costruiscono anche il portico, non pensano solo a se stessi: si preoccupano altresì di agevolare chi percorre la via che è loro antistante. Le strade antiche, che non avevano marciapiedi, erano dominio incontrastato dei cavalli e delle carrozze: affiancarle di passaggi coperti e riparati significa essere solleciti dell’agio e dell’incolumità dei cittadini più comuni, che di regola possono andare solo a piedi.

Come si vede, anche questa caratteristica bolognese può essere valutata come un risultato o almeno un indizio di una mentalità imbevuta di cristianesimo.

Osservazione conclusiva

18. C’è una verità storica che purtroppo le nuove generazioni dalla cultura dominante sono quasi costrette a ignorare. Ci piace collocarla qui a mo’ di osservazione conclusiva: non solo a Bologna, ma in tutta la penisola le opere che più illustrano la nostra nazione – tanto che essa viene spesso identificata nel mondo come la sede e quasi la patria della bellezza – nascono per la più parte dalla committenza ecclesiale; una committenza che in ogni tempo si è fatta interprete della fede cristiana delle genti italiche. Nascono quindi da una corale adesione al Vangelo, dalla certezza che Gesù di Nazaret è l’unico Signore e l’unico Salvatore, dalla singolare affettuosa venerazione per la sua e nostra madre, la santa Vergine Maria.

19. Mette conto qui di rilevare incidentalmente che perfino il “Nettuno” – monumento che spicca nel “volto” della città ed è comunemente ritenuto il più “laico” – è il prodotto di una “committenza ecclesiale”. E’ stato eretto nel 1563 (l’anno in cui si conclude il Concilio di Trento) per volontà del papa Pio IV e soprattutto del cardinale legato, che si chiamava Carlo Borromeo.

Nasce, come si vede, nel pieno della così detta Controriforma a opera del più austero degli uomini di Chiesa di quel tempo. La statua del Giambologna è una evidente glorificazione del corpo umano e raffigura una divinità pagana chiamata, come tutto il mondo classico, a mettersi al servizio della visione cattolica del committente. Il quale dimostra così una libertà di spirito e una larghezza di vedute, che dovrebbero mettere un po’ in crisi qualche convenzionale giudizio storico e molti luoghi comuni.

II. L'”anima” di Bologna

L'”anima”

20. Non solo del “volto”: si può parlare anche dell’ “anima” di Bologna. E’ evidentemente una metafora per indicare l’indole morale, le propensioni innate, il carattere del popolo bolognese; tutte cose che si possono desumere – oltre che dalla sua vicenda e dall’indole delle sue istituzioni – dai comportamenti più comuni, dai sentimenti più ampiamente condivisi, dai tratti salienti del suo temperamento spirituale.

Questa seconda indagine appare più difficile della prima e sarà necessariamente parziale, esemplificativa, quasi rapsodica. Essa approderà verosimilmente a esiti che potranno essere giudicati opinabili, se non addirittura arbitrari. E tuttavia non può essere tralasciata, se non si vuole che il discorso perda di consistenza e rimanga soltanto superficiale.

La nostra attenzione si porterà sia sulla “umanità” bolognese in genere sia sugli aspetti propri del nostro “cristianesimo” e “cattolicesimo”.

Il gusto di vivere

21. C’è da noi il gusto e la gioia di vivere, e l’attitudine ad assaporare senza riserve il dono dell’esistenza. La nostra mentalità conosce da sempre la fresca e convinta esaltazione di questi giorni terreni, del loro valore, delle loro occasioni di festa.

Ritengo che, pur nella prospettiva evangelica, si possa e si debba in partenza riconoscere la positività di tale atteggiamento. Apprezzare i beni dell’esistenza creata vuol dire implicitamente – anche se non ci si pensa – lodare il Creatore dell’universo, il datore “di ogni buon regalo e di ogni dono perfetto” (cf Gc 1,17).

Al fondo di questo stato d’animo c’è, a ben vedere, la stima e la valorizzazione dell’uomo e della sua sorte; dell’uomo che, secondo la parola di sant’Ambrogio, è “il capolavoro del mondo” (“mundani operis summa”), “il culmine dell’universo e la suprema bellezza di ogni essere creato” (“summa quaedam universitatis et omnis mundanae gratia creaturae” (Exameron VI,75). Nei confronti di questo “umanesimo” noi non abbiamo obiezioni di principio. San Paolo non aveva persuasioni diverse quando scriveva: “Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Fil 4,8). O quando con insistenza esortava: “Fratelli miei, state lieti nel Signore…Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi” (cf Fil 3,1; 4,4).

Un gusto di vivere che deve essere ragionevole

22. Bisogna piuttosto rendersi conto che, specialmente sotto l’influsso dell’edonismo che imperversa ormai a tutte le latitudini, è facile che su questa strada si oltrepassi la soglia del giusto e del ragionevole. Si può così arrivare a una ricerca del piacere a ogni costo, tanto ossessiva e tanto sguarnita di prospettive trascendenti da risultare praticamente atea.

In tal caso, la frenesia di vivere e di godere – divenuta puro egoismo – finisce col negare se stessa, magari approdando all’autoannientamento dei singoli (come ci insegna il fenomeno orrendo della droga) o addirittura di interi popoli (basti pensare allo sfacelo demografico).

23. Quanto alla gioia, va detto che aspirarvi è legittimo, anzi è intrinseco allo spirito umano e perciò ineluttabile. “L’uomo non può vivere senza gioia”, ha detto icasticamente Giovanni Paolo II (Redemptor hominis 10)

Noi perciò non rimproveriamo alla società trasgressiva di mirare al godimento e al benessere; le rimproveriamo piuttosto di non riuscirci, perché se si gode senza significato alcuno non si gode affatto, e un benessere che non si accompagni con la proposta di qualche ideale plausibile alla fine si tramuta in malessere.

La vocazione al sapere

24. La nostra città ha da sempre una connaturale inclinazione al sapere. Già Marziale – che ogni tanto veniva da Roma a soggiornare a Imola (“Forum Cornelii”) – in un suo epigramma parla di “culta Bononia” (Ep. III, 59). Questa vocazione “ab immemorabili” è poi sfociata con l’epoca cristiana nell’istituzione dell’Università, che nel Medio Evo ha reso celebre il nome di Bologna nel mondo soprattutto per gli studi giuridici.

Incidentalmente è interessante notare che, finché era una realtà che si poteva ben dire “ecclesiale” – tanto che le lauree erano conferite in arcivescovado per mano dell’arcidiacono – il nostro Ateneo ammetteva anche le donne tra i suoi insegnanti (cosa che non avveniva né alla Sorbona né nelle università tedesche) . Così Benedetto XIV ha potuto offrire alla celeberrima Gaetana Agnesi la cattedra di matematica; così del corpo accademico bolognese hanno potuto far parte la fisica Laura Bassi Veratti e la grecista Clotilde Tambroni. Solo quando s’impose l’ideologia progressista d’Oltralpe, il maschilismo assoluto prevalse fino al secolo XX inoltrato.

La vera sapienza

25. E’ senza dubbio encomiabile che nello spirito e nella tradizione bolognesi ci siano l’amore alla scienza nel significato più vasto del termine, la curiosità della ricerca intellettuale, la determinazione a vincere con la luce della conoscenza le tenebre dell’ignoranza e dell’arretratezza.

E’ però un talento che va ben trafficato in modo che il sapere non si ripieghi su se stesso e risulti poi incapace di condurre l’uomo verso qualche mèta realmente saziante e salvifica: fatalmente in tal caso si inaridirebbe, mettendosi al servizio della vacuità esistenziale. Perché la saggezza che davvero importa non sta tanto nell’affinamento delle investigazioni scientifiche, nell’elaborazioni di tecniche sempre più sofisticate, nelle complicazioni cerebrali, ma nell’arrivare almeno a intravedere un fine ultimo che a tutto dia senso e sapore.

L’amore per la libertà

26. Da un intelligente e sostanziale umanesimo è alimentata la passione per la libertà. Non è fortuito che nello stemma del nostro comune, fin dal secolo XIV, sia iscritta la parola “libertas”. La nostra città ha riconosciuto e fattivamente sancito l’incompatibilità della schiavitù con la dignità inalienabile dell’uomo; ed è stato nella cristianità quasi un primato. Nel 1256 il Consiglio del popolo bolognese “ad amore di Cristo nostro Redentore” – così testualmente è registrato – delibera l’affrancamento dei servi della gleba, assumendo su di sé l’onere del riscatto.

27. I nostri padri hanno saputo onorare la libertà umana con lucida e concreta determinazione, perché erano profondamente convinti che nessuno può opprimere o anche solo intimidire quelli che sono tutti ugualmente figli di Dio e tutti ugualmente riscattati dal sangue di Cristo. “Tu solo il Signore”: chi prega e canta così, non può tollerare uomini che ritengano di poter farsi padroni di altri uomini. Se questo fondamento è negato o ignorato, allora non c’è più sufficiente garanzia contro il rischio che compaia a un certo momento un totalitarismo liberticida (come ci hanno purtroppo insegnato le multiformi tragedie del Novecento appena concluso) o tutto degeneri in un libertarismo privo di senso e di finalizzazione (ed è ciò che si sta profilando in questi anni).

Il cristianesimo “petroniano”

28. Possiamo parlare di un cristianesimo “petroniano”, nato, sviluppato, plasmato nell’ “humus” di questa sontuosa e tipica umanità? Crederei che sia lecito rispondere affermativamente e che si possa tentare di darne pochi e piccoli cenni in qualche misura probativi. Appartiene al cristianesimo “petroniano” la consapevolezza che dalla fede la sapienza umana non è negata o insidiata, ma al contrario è avvalorata e difesa. Non per niente qui appunto, nella temperie concordemente e vivacemente cattolica del Medioevo, nasce un’università che poi diventa anticipazione e modello degli istituti consimili dell’Europa.

Appartiene al cristianesimo “petroniano” l’intuizione che l’adesione a Cristo, Figlio di Dio e unico Salvatore, non deprime ma sorregge la nobiltà dell’uomo, il suo progresso integrale, la sua giusta autonomia, come si evince dall’episodio or ora considerato della generale emancipazione.

Appartiene al cristianesimo “petroniano” l’abitudine – di cui facciamo quotidiana esperienza – a convivere pacificamente pur nella diversità delle opinioni e degli interessi, e a praticare una cortesia nei rapporti tra cittadini che non esclude, anzi apprezza la franchezza di chiamare le cose con il loro nome.

La vita ecclesiale

29. A dare un’anima inconfondibile a Bologna contribuisce, e in modo eminente, anche la presenza ecclesiale. La nostra è una Chiesa che serve fedelmente il suo Signore, è attiva nella storia e al tempo stesso è in tensione verso il possesso pieno e svelato del Regno di Dio. In tal modo, irradia innegabilmente sull’intera città, sia pure con diversa intensità e risultati diversi, la vita di fede, di speranza, di carità.

Qui ci sarebbero molte cose encomiabili da rilevare, specialmente l’amore senza intemperanze e senza arcaicismi verso la santa liturgia, l’attenzione intelligente e cordiale alla Sacra Scrittura, il rispetto sostanziale e sereno di quella che Giovanni Paolo I ha chiamato “la grande disciplina della Chiesa”. Certo – come tutti prima dell’ingresso nella vita eterna – anche noi in molti campi “potremmo fare di più”. Ma complessivamente possiamo ringraziare il Signore: abbiamo avuto dei buoni maestri, e ce ne accorgiamo.

Mi limiterò quindi a rilevare tre ricchezze “cattoliche” (che sono perciò di ogni Chiesa), le quali però assumono, come qui si presentano, delle connotazioni caratterizzanti: il culto dell’Eucaristia, la devozione alla Madonna, la fattiva sollecitudine verso i fratelli.

Il culto dell’Eucaristia

30. Tipico dell’esperienza ecclesiale bolognese è che la centralità dell’Eucaristia viene richiamata e ravvivata da una scadenza decennale di celebrazioni; celebrazioni che sono al tempo stesso straordinarie e consuete, eccezionali e programmate, così che hanno insieme i vantaggi di ciò che è speciale (e perciò solenne) e di ciò che è normale e prevedibile.

Per le parrocchie urbane questa organizzazione periodica risale al secolo XVI, ed è dovuta alla genialità pastorale del cardinal Gabriele Paleotti. E’ stata poi estesa dal cardinal Nasalli Rocca ai Congressi Eucaristici Diocesani, e determina adesso anche i ritmi dei Congressi Eucaristici Vicariali. Come ho già scritto, sarebbe auspicabile che, come lascito del Congresso Nazionale del 1997 (del quale non si è ancora spenta nelle regioni italiane l’eco lusinghiera), tale usanza provvidenziale cominciasse a essere seguita e a dare i suoi frutti anche nelle parrocchie del forese (cf Dal Congresso al Giubileo 46).

L’amore alla Vergine Maria

31. La nostra devozione alla Madonna di San Luca è argomento di ammirazione nei discorsi dei forestieri che hanno avuto la sorte di vederne le manifestazioni.

Da lei i bolognesi si sentono singolarmente amati, forse anche per l’origine stessa del santuario. La venerata icona, che era senza dubbio ben più antica, è giunta dall’Oriente verso la metà del secolo XII: non è nata qui, è misteriosamente arrivata. Ci ha in qualche modo “cercato”, ha voluto lei stessa la nostra città come sua residenza, ha scelto lei stessa questo popolo perché fosse irrevocabilmente suo. La sua discesa annuale sempre nei medesimi giorni e nei medesimi orari, che si ripete da secoli, dà luogo a una settimana di grazia che puntualmente si rinnova.

Ma in ogni stagione i bolognesi guardano a lei come alla loro Signora, alla loro sicura difesa, al loro bellissimo vanto. E molto si deve a questo affetto, tanto ampiamente condiviso, se Bologna nella sua lunga vicenda ha potuto conservare la fede cristiana e una vivace militanza ecclesiale anche nelle condizioni umanamente più sfavorevoli.

L’impegno di carità

32. La nostra Chiesa ha conosciuto nei secoli tutta una fioritura di opere al servizio dei fratelli e in soccorso delle varie necessità umane. Non è possibile elencare qui nemmeno sommariamente tutto il cumulo di iniziative, di enti, di confraternite, di associazioni che sono nate da questo ardore di carità. Basti pensare al sorgere dei vari ospedali, tra cui quello famoso “della vita”. A combattere l’usura qui è stato istituito, a opera del francescano Michele Carcano, il Monte di Pietà, uno dei primissimi in Italia e nel mondo.

Per il secolo scorso è sufficiente citare il nome di don Giuseppe Bedetti e dei fratelli Gualandi, nonché le molteplici iniziative sociali e caritative di Giovanni Battista Acquaderni.

Ed è uno slancio che non si è esaurito. Sono, per esempio, di questi ultimi decenni le Case della carità, il Centro San Petronio, il Centro Cardinal Poma, e molte altre testimonianze di un’attenzione evangelica al “prossimo” sempre viva, tra le quali si segnala particolarmente per la sua lunga e ininterrotta attività la “Mensa” dell’Antoniano.

L’antica unità spirituale

33. La fortuna storica di questa città è stata di aver posseduto per secoli un’unità culturale certa, non contestata, dinamica, che ha consentito il sorgere di una tipica civiltà bolognese e il raggiungimento di eccezionali traguardi in vari settori. Per esempio in quella Bologna spiritualmente unificata – dove la fede in Cristo assicurava la buona salute della ragione, il convincimento della comune fraternità e il senso creativo della bellezza – è potuto prosperare un centro di studi universalmente famoso, si è conosciuto uno straordinario rigoglio di opere assistenziali, si è instaurato il clima propizio all’arte di Guido Reni e dei Carracci. Noi viviamo ancora di questa straordinaria eredità e ne siamo ancora gratificati.

E non ci è mai mancato il conforto e l’esempio di uomini e di donne che hanno raggiunto i vertici della perfezione cristiana. Ci piace qui collocare i nomi di coloro che più recentemente hanno avuto la massima gloria degli altari: santa Clelia Barbieri e il santo martire Elia Facchini.

Un calo di tensione

34. A questo punto però non possiamo più nasconderci oltre che c’è nella Bologna dei nostri giorni, come del resto nell’intero mondo attuale, come un innegabile calo di tensione.

Si sono bruciati molti degli ideali che avevano un tempo infiammato i cuori e le fantasie: ideali magari un po’ inconsistenti, se sottoposti all’esame di una ragione davvero rigorosa e spregiudicata, ma nondimeno rispettabili e generosi. Ci riferiamo, per esempio, all’ideale di una patria nobilitata e resa grande dalla concorde passione dei cittadini; all’ideale di una società dove le riforme di strutture (o addirittura le rivoluzioni) riuscissero a debellare l’egoismo dei privati e a instaurare finalmente la giustizia; l’ideale di una assoluta libertà concessa al singolo che assicurasse a tutti la felicità; l’ideale di una convivenza umana senza squilibri, senza miseria, senza disperazione. Adesso invece si ha l’impressione che nessuno proponga più niente di magnifico e di affascinante, e anche i giovani sembrano rassegnati a vivere alla giornata. Abbiamo tutti bisogno di speranza: una speranza vera, che valga per tutte le età dell’uomo e sappia sorreggerci in tutte le ore, anche le più difficili e buie.

La speranza cristiana

35. Questa è per la proposta cristiana una stagione che può diventare veramente fausta e incoraggiante: davanti ai profeti del vuoto e agli imbonitori del niente il Vangelo di Gesù – anzi il suo “evento” di totale salvezza – appare come ciò che può efficacemente esaudire le attese più radicali ed esaudire tutte le aspirazioni insopprimibili del cuore umano.

Questa Chiesa, questo popolo, questa città non hanno smarrito la sorgente della loro antica vitalità. Bologna può ritornare a essere il luogo dove si ami autenticamente la vita, dove la gente abbia ancora il gusto di guardare avanti e la voglia di avere un futuro, dove zampilli ancora l’energia necessaria a costruire per le generazioni che verranno una società intimamente pacificata, più aperta a capire il senso ultimo delle cose, decisa a riconoscere e a esaltare i veri valori dell’esistenza. Come ci ha detto Giovanni Paolo II in Piazza Maggiore nel 1997: “Bologna può presentarsi all’appuntamento del Terzo Millennio con una fisionomia caratteristica: un volto umano e cristiano, che le consenta di affrontare con serena fiducia le difficili sfide del nostro tempo”.

III. Le sfide del nostro tempo

36. Le “difficili sfide del nostro tempo” sono già in atto, e la città di san Petronio deve commisurarsi con loro senza panico e senza superficialità: i generici allarmismi non servono; ma tanto meno servono le banalizzazioni ansiolitiche e le giulive minimizzazioni.

Riuscirà Bologna anche nel Terzo Millennio – e a che prezzo e con quali efficaci accorgimenti – a conservare la propria identità, a svilupparsi secondo la sua vocazione umana e cristiana, a irradiare ancora nel mondo la sua civiltà? “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sotto le Due Torri?” (cf Lc 18,8): l’inquietante interrogativo, che Gesù ha lasciato senza risposta, ci aiuterà – così attualizzato – a proseguire nella riflessione con la necessaria serietà.

Le “sfide” che già ci sovrastano sono principalmente due: il crescente afflusso di genti che vengono a noi da paesi lontani e diversi; il diffondersi di una cultura non cristiana tra le popolazioni cristiane. Ne trattiamo distintamente nella forma più chiara e succinta possibile.

1. La questione dell’immigrazione

Una sorpresa

37. Dobbiamo riconoscere che il fenomeno di una massiccia immigrazione ci ha colti un po’ tutti di sorpresa. E’ stato colto di sorpresa lo Stato, che dà tuttora l’impressione di smarrimento e pare non abbia ancora recuperata la capacità di gestire razionalmente la situazione, riconducendola entro le regole irrinunciabili e gli ambiti propri di un’ordinata convivenza civile.

E sono state colte di sorpresa anche le comunità cristiane, ammirevoli in molti casi nel prodigarsi ad alleviare disagi e pene, ma sprovviste finora di una visione non astratta, non settoriale, abbastanza concorde. Le generiche esaltazioni della solidarietà e del primato della carità evangelica – che in sé e in linea di principio sono legittime e anzi doverose – si dimostrano piuttosto bene intenzionate che utili quando non si confrontano davvero con la complessità del problema e la ruvidezza della realtà effettuale.

L’annuncio del Vangelo

38. Deve essere ben chiaro che non è di per sé compito della Chiesa come tale risolvere ogni problema sociale che la storia di volta in volta ci presenta. Le nostre comunità e i nostri fedeli non devono perciò nutrire complessi di colpa a causa delle emergenze imperiose che essi con loro forze non riescono ad affrontare. Sarebbe un implicito, ma comunque grave e intollerabile “integralismo” il credere che le aggregazioni ecclesiali possano essere responsabilizzate di tutto. Compito nostro inderogabile è invece l’annuncio del Vangelo e l’osservanza del comando dell’amore.

39. Prima di tutto l’annuncio del Vangelo. Dovere statutario della Chiesa Cattolica, e in essa di ogni battezzato, è di far conoscere a tutti esplicitamente Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio morto per noi e risorto, oggi vivo e Signore dell’universo, unico Salvatore dell’umanità intera. Tale missione può essere efficacemente coadiuvata, ma non può essere in alcun modo surrogata da qualsivoglia attività assistenziale. Essa suppone la nostra attitudine al dialogo sincero, aperto, rispettoso con tutti, ma non può mai risolversi nel solo dialogo. Può essere favorita dalla nostra conoscenza oggettiva delle posizioni altrui, ma si avvera soltanto quando noi riusciamo a portare all’esplicita conoscenza di Cristo quei nostri fratellli, che sventuratamente ancora non ne sono beneficiati.

Non bisogna poi dimenticare che l’azione evangelizzatrice è di sua natura universale e non tollera deliberate esclusioni di destinatari: “Predicate il Vangelo ad ogni creatura” (cf Mc 16,15), ci ha detto il Risorto. E non è mai giustificata una rassegnata rinuncia a questo proposito, nemmeno quando, umanamente parlando, sembri poco prevedibile il conseguimento di qualche risultato positivo: chi crede nella forza sovrumana dello Spirito Santo, non desiste mai dall’ annunciare la strada della salvezza.

40. E’ molto importante infine che tutti i cattolici si rendano conto di questa loro indeclinabile responsabilità, che essi hanno nei confronti di tutti i nuovi arrivati (musulmani compresi). Per essere però buoni evangelizzatori essi devono crescere sempre più nella gioiosa intelligenza degli immensi tesori di verità, di sapienza, di consolante speranza che hanno la fortuna di possedere: è una effusione di luce divina, assolutamente inconfrontabile con i pur preziosi barlumi offerti dalle varie religioni e dall’Islam; e noi siamo chiamati a renderne partecipi appassionatamente e instancabilmente tutti i figli di Adamo.

41. Senza dubbio dovere nostro è anche l’esercizio della carità fraterna. Di fronte a un uomo in difficoltà – quale che sia la sua razza, la sua cultura, la sua religione, la legalità della sua presenza – i discepoli di Gesù hanno l’obbligo di amarlo operosamente e di aiutarlo a misura delle loro concrete possibilità. Di questa responsabilità noi siamo tenuti a rendere conto al Signore; ma solo a lui, e a nessun altro.

Approccio realistico

42. Nel variegato panorama dell’immigrazione, le comunità cristiane non possono non valutare attentamente i singoli e i diversi gruppi, in modo da assumere poi realisticamente gli atteggiamenti più pertinenti e opportuni.

Agli immigrati cattolici – quale che sia la loro lingua e il colore della loro pelle – bisogna far sentire nella maniera più efficace che all’interno della Chiesa non ci sono “stranieri”: essi a pieno titolo entrano a far parte della nostra famiglia di credenti e vanno accolti con schietto spirito di fraternità. Quando sono presenti in numero rilevante e in aggregazioni omogenee consistenti, andranno sinceramente incoraggiati a conservare la loro tipica tradizione cattolica, che sarà oggetto di affettuosa attenzione da parte di tutti. Ai cristiani delle antiche Chiese orientali, che non sono ancora nella piena comunione con la sede di Pietro, esprimeremo simpatia e rispetto. E, in conformità agli accordi generali e secondo l’opportunità, potremo favorirli anche dell’uso di qualche nostra chiesa per le celebrazioni.

Gli appartenenti alle religioni non cristiane vanno amati e, quanto è possibile, aiutati nelle loro necessità. Non va però in nessun modo disatteso quanto è detto nella Nota CEI del 1993: “Le comunità cristiane, per evitare inutili fraintendimenti e confusioni pericolose, non devono mettere a disposizione, per incontri religiosi di fedi non cristiane, chiese, cappelle e locali riservati al culto cattolico, come pure ambienti destinati alle attività parrocchiali” (Ero forestiero e mi avete visitato 34).

Considerazione generale

43. Possiamo aggiungere un’annotazione, che riguarda da vicino soprattutto il comportamento auspicabile dello Stato e di tutte le varie autorità civili.

I criteri per ammettere gli immigrati non possono essere solamente economici e previdenziali (che pure hanno il loro peso). Occorre che ci si preoccupi seriamente di salvare l’identità propria della nazione. L’Italia non è una landa deserta o semidisabitata, senza storia, senza tradizioni vive e vitali, senza una inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente, come se non ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo e di civiltà che non deve andare perduto. In vista di una pacifica e fruttuosa convivenza, se non di una possibile e auspicabile integrazione, le condizioni di partenza dei nuovi arrivati non sono ugualmente propizie. E le autorità civili non dovrebbero trascurare questo dato della questione. In ogni caso, occorre che chi intende risiedere stabilmente da noi sia facilitato e concretamente sollecitato a conoscere al meglio le tradizioni e l’identità della peculiare umanità della quale egli chiede di far parte.

44. Sotto questo profilo, il caso dei musulmani va trattato con una particolare attenzione. Essi hanno una forma di alimentazione diversa (e fin qui poco male), un diverso giorno festivo, un diritto di famiglia incompatibile col nostro, una concezione della donna lontanissima dalla nostra (fino ad ammettere e praticare la poligamia). Soprattutto hanno una visione rigorosamente integralista della vita pubblica, sicché la perfetta immedesimazione tra religione e politica fa parte della loro fede indubitabile e irrinunciabile, anche se di solito a proclamarla e farla valere aspettano prudentemente di essere diventati preponderanti. Mentre spetta a noi evangelizzare, qui è lo Stato – ogni moderno Stato occidentale – a dover far bene i suoi conti.

Cattolicesimo “religione nazionale storica”

45. Da ultimo, sarà bene che nessuno ignori o dimentichi che il cattolicesimo – che non è più la “religione ufficiale dello Stato” – rimane nondimeno la “religione storica” della nazione italiana, oltre che la fonte precipua della sua identità e l’ispirazione determinante delle nostre più autentiche grandezze.

Perciò è del tutto incongruo assimilarlo alle altre forme religiose o culturali, alle quali dovrà sì essere assicurata piena libertà di esistere e di operare, senza però che questo comporti o provochi un livellamento innaturale o addirittura un annichilimento dei più alti valori della nostra civiltà. Va anche detto che è una singolare concezione della democrazia il far coincidere il rispetto delle minoranze con il non rispetto delle maggioranze, così che si arriva di fatto all’eliminazione di ciò che è acquisito e tradizionale in una comunità umana. Si attua una “intolleranza sostanziale”, per esempio, quando nelle scuole si aboliscono i segni e gli usi cattolici, cari alla stragrande maggioranza, per la presenza di alcuni alunni di altre religioni.

2. Il diffondersi di una cultura non cristiana

46. Più dell’immigrazione, ci interpella e ci sollecita a una risposta il diffondersi tra le popolazioni di antica fede cristiana, come la nostra, di una “cultura non cristiana”. Il fenomeno – è evidente – non riguarda solo Bologna: ha dimensioni continentali e addirittura planetarie.

La cultura estranea al cristianesimo

47. C’è prima di tutto una cultura che, pur non essendo nativamente e programmaticamente ostile alla visione cristiana, prescinde da essa ed è ad essa estranea. C’è, per esempio l’affermarsi di una razionalità scientifico-tecnologica, intesa a elaborare un pensiero funzionale e operativo, che implicitamente censura ogni approccio alla verità in se stessa.

C’è in campo economico-sociale l’emergenza di una “globalizzazione” la quale non può non preoccupare per le sue possibili conseguenze sul mondo del lavoro che di fronte agli anonimi potentati finanziari rischia di incorrere in un invincibile stato di alienazione. C’è lo sviluppo sempre più sofisticato dei mezzi di comunicazione: esso porta con sé il predominio di una cultura visiva e intuitiva che è prigioniera della percezione e dell’attualità, a scapito della riflessione personale, della memoria storica e della capacità di progettare il futuro.

C’è la ricerca di una “libertà senza verità”, che finisce col mortificare la dimensione etica della vita. In conseguenza di questa libertà incondizionata e vuota di valori, l’uomo è insidiato nella sua stessa dignità e perfino nella sua sopravvivenza: le fantasie genetiche, il crollo della natalità, il disprezzo della vita umana (soprattutto con la vergognosa legalizzazione dell’aborto), la glorificazione delle devianze sessuali, la corrosione dell’istituto della famiglia e il permissivismo dilagante ne sono i segni più manifesti.

48. Si comprende agevolmente che in questa multiforme tendenza culturale, che per larga parte appare incontrastabile, molti aspetti non sono accettabili; però non tutto è perverso e non tutto è irredimibile. Occorre dunque un’abitudine alla valutazione e al discernimento, che ci dica di volta in volta che cosa si possa accogliere, che cosa si debba apertamente contrastare e che cosa sia plausibile orientare cristianamente; valutazione e discernimento che dovranno obbedire non a criteri “politici” (come la determinazione a cercare accordi e consonanze a ogni costo), ma all’assoluta fedeltà nei confronti dell’immutabile verità rivelata e della nostra identità di credenti.

L’attacco esplicito al fatto cristiano

49. Oggi è in atto una delle più gravi e ampie aggressioni al cristianesimo (e quindi alla realtà di Cristo) che la storia ricordi. Tutta l’eredità del Vangelo viene progressivamente ripudiata dalle legislazioni, irrisa dai “signori dell’opinione”, scalzata dalle coscienze specialmente giovanili.

Di tale ostilità, a volte violenta a volte subdola, non abbiamo ragione di stupirci né di aver troppa paura, dal momento che il Signore e i suoi apostoli ce l’hanno ripetutamente preannunziata: “Non meravigliatevi se il mondo vi odia” (1Gv 1,26). Ci si può meravigliare invece degli uomini di Chiesa che non sanno o non vogliono prenderne atto: in realtà, la sola cosa, di cui può temere chi è ben deciso a operare nella fede, è l’insipienza dei “figli della luce” i quali talvolta non si accontentano di “rallegrarsi con chi è allegro e di piangere con chi piange” (cf Rm 12,15), ma finiscono anche a smarrirsi con chi si smarrisce.

In conclusione

50. In un’intervista di una decina d’anni fa mi è stato chiesto con invidiabile candore: “Ritiene anche Lei che l’Europa sarà cristiana o non sarà?”. La risposta di allora può aiutarmi a chiarire il mio pensiero di oggi.

“Io penso – dicevo – che l’Europa o ridiventerà cristiana o diventerà musulmana. Ciò che mi pare senza avvenire è la ‘cultura del niente’, della libertà senza limiti e senza contenuti, dello scetticismo vantato come conquista intellettuale, che sembra essere l’atteggiamento dominante nei popoli europei, più o meno tutti ricchi di mezzi e poveri di verità. “Questa ‘cultura del niente’ (sorretta dall’edonismo e dalla insaziabilità libertaria) non sarà in grado di reggere all’assalto ideologico dell’Islam che non mancherà: solo la riscoperta dell ‘avvenimento cristiano’ come unica salvezza per l’uomo – e quindi solo una decisa risurrezione dell’antica anima dell’Europa – potrà offrire un esito diverso a questo inevitabile confronto”.

IV. I capisaldi della vita cattolica bolognese

51. La nostra città saprà “affrontare con serena fiducia le difficili sfide del nostro tempo” – ci ha detto Giovanni Paolo II – se riuscirà a conservare la sua “fisionomia caratteristica”; vale a dire, diciamo noi, la bellezza antica e sempre affascinante del suo “volto” e della sua “anima”.

E non si tratta di pura conservazione. Bologna è chiamata a crescere, a irrobustirsi, ad andare incontro al futuro con piglio franco e vivace, desumendo dal tesoro della sua secolare saggezza l’attitudine ad avvalorare ogni nuovo apporto senza lasciare che si alteri sostanzialmente la sua identità. In questa impresa sarà determinante la saldezza e l’energia dell’intera comunità cattolica diocesana.

Purificazione della fede

52. Ovviamente è da collocarsi al primo posto – come la condizione necessaria di ogni autentica vitalità ecclesiale – un chiaro risveglio della fede; una fede che non solo va ospitata consapevolmente nei cuori, ma anche va proclamata nella società senza alterazioni o mutilazioni. Deve essere una fede alimentata dal Libro di Dio, il quale non va solo onorato ed esaltato, ma anche accolto nei suoi insegnamenti senza censure ideologiche e senza inescusabili concordismi con la mentalità oggi dominante.

Deve essere una fede in grado di farci vedere gli uomini, gli accadimenti, le realtà terrene con gli occhi stessi del Signore Gesù, preservandoci dalla facile tentazione di guardare all’evento cristiano, alle immutabili certezze del Vangelo, al mistero della Chiesa e alla sua storia, con gli occhi dell’uomo “psichico” (cioè lasciato alle sole sue forze) il quale “non comprende le cose dello Spirito di Dio” (cf 1 Cor 2,14).

Deve infine essere una fede “che opera per mezzo della carità” (cf Gal 5,6) e così ci costituisca validi artefici della civiltà dell’amore.

I cinque capisaldi

53. La nostra città presenta un suo tipico “policentrismo religioso”, che non va disatteso. Sono diversi i luoghi “forti” della fede, dove i credenti possono attingere quei “supplementi” di energia soprannaturale di cui ritengono di aver bisogno.

Mi sembrerebbe utile – pur rendendomi conto di una certa opinabilità di questa scelta – indicare e proporre ai pastori d’anime e ai fedeli cinque capisaldi spirituali (per così dire): la cattedrale, la basilica di San Petronio, il santuario della Madonna di San Luca, il complesso di Santo Stefano, il Seminario di Villa Revedin.

La cattedrale

54. E’ la chiesa del vescovo, dove egli celebra solennemente i divini misteri, esercita il suo magistero autentico, guida sulle vie del Regno l’intera famiglia diocesana.

Essa è un appello concreto e visibile alla successione apostolica per mezzo della quale ci connettiamo storicamente e ontologicamente al Signore Gesù, siamo raggiunti dalla missione salvifica avviata dal Risorto (cf Mt 28,16-20), veniamo compaginati in un’unica Chiesa. Nella cattedrale – dove al servizio della vita sacramentale diocesana vengono benedetti gli oli e dove avvengono le ordinazioni diaconali, presbiterali ed episcopali – ravvisiamo la fonte della vita ecclesiale e percepiamo l’invito a non consentire che s’illanguidisca l’atteggiamento di sincera comunione e di amore verso la nostra Chiesa. La presenza nel presbiterio del corpo di san Zama, nostro primo vescovo, e delle reliquie dei nostri protomartiri Vitale e Agricola nella cripta, ci aiuta a capire la primaria rilevanza teologica di questo tempio, che oggi abbiamo la gioia di contemplare totalmente rinnovato.

Nell’itinerario della iniziazione cristiana e della professione di fede non manchi mai il pellegrinaggio a questa autorevole “scuola di ecclesialità”.

San Petronio

55. Edificando nel cuore della città in onore di san Petronio un tempio così grandioso e meritevole di ammirazione, i nostri padri ci hanno provveduto di uno spazio sacro particolarmente deputato ad accogliere la preghiera e la meditazione dei bolognesi che vengono a riconfermare la loro identità umana e cristiana.

Questa casa di Dio rappresenta da sempre l’espressione del sentimento religioso e insieme del sentimento civico della nostra gente. In nessun luogo come questo diventa spontaneo implorare dal Signore per Bologna prosperità, concordia, accrescimento e maturazione della sua inconfondibile “cultura”: una cultura che può ben chiamarsi “petroniana”; e si sostanzia in pari tempo di fedeltà ai tesori spirituali e morali della nostra storia e di adesione mai revocata al messaggio evangelico.

Entro questa basilica dalla fine del secolo XVIII sono raccolte e custodite le quattro croci che – per iniziativa dello stesso san Petronio, dice la tradizione – segnavano il perimetro della città e la mettevano sotto la protezione dei santi. La “antiqua Bononia rupta” esprimeva così il suo anelito a risorgere nel nome del Signore. Rimosse dalle sedi originarie dalla prepotenza degli invasori francesi, adesso arricchiscono questo tempio di un ulteriore simbolo della città (con tutta la sua lunga vicenda), che si offre al nostro santo Patrono e si pone sotto la sua protezione.

San Luca

56. Sono ormai otto secoli che dal suo monte la Madonna di San Luca veglia sulle nostre case e sono ormai otto secoli che al suo santuario si leva confidente lo sguardo dei bolognesi. Anche questa è una grazia singolare: se c’è un popolo che non può dimenticarsi della Madre di Dio ed è quasi costretto a rivolgerle la sua filiale attenzione, questo è il popolo petroniano. E così la nostra vita religiosa ha una garanzia in più di serbarsi nella sua pienezza e nella sua autenticità: l’amore per la Vergine Maria è infatti uno degli indizi più sicuri di un assenso a Cristo e al suo Vangelo non inquinato dall’errore né inaridito negli intellettualismi.

L’icona che veneriamo rappresenta la Madre di Gesù nell’atteggiamento della “Odighitria” (come dicono i bizantini), cioè di colei che indica la giusta via. Nelle ore nebbiose o disorientate noi sappiamo dunque a chi rivolgerci: così ha sempre fatto la nostra gente, che perciò si sente legata alla Madonna di San Luca da una gratitudine immensa.

Questa affettuosa attinenza non è solo dei fedeli praticanti: è di tutti. Per questo Giovanni Paolo II ha potuto osservare: “Antica e profonda è la devozione dei bolognesi verso la loro celeste Patrona; essa fa parte della loro stessa identità civica e culturale”.

Santo Stefano

57. E’ una fortuna singolare del cristianesimo petroniano quella di possedere nel complesso stefaniano un forte richiamo agli avvenimenti che ci hanno redenti e rinnovati: alla passione, alla morte, alla risurrezione del Figlio di Dio fatto uomo.

Attraverso una costruzione ispirata ai luoghi segnati dalla vicenda salvifica, Santo Stefano è sempre stato visto – e deve essere ancor più valorizzato – come la Jerusalem bononiensis: qui è bello ed edificante convenire a meditare soprattutto sul “costo” che ha avuto il riscatto dell’uomo e la sua vocazione alla divina familiarità.

Tra queste mura par di udire la voce dei primi maestri della fede; dell’apostolo Paolo che ci dice: “Siete stati comprati a caro prezzo” (1 Cor 6,20) e dell’apostolo Pietro nell’atto di ammonirci: “Non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia” (1 Pt 1,18-19). La rappresentazione è adesso arricchita e, si può dire, completata dall’immagine di bronzo del Cristo addormentato nel sonno della morte. Magistralmente modellata con i tratti che sono suggeriti dall’impronta misteriosa della Sacra Sindone, possiede una potenza evocatrice di rara intensità.

Tutto il mirabile contesto ci invita quindi a ricentrare la nostra professione cristiana – come è doveroso – sul Signore Gesù e sul mistero di dolore e di gioia, di morte e di risurrezione, di avvilimento e di gloria della sua Pasqua.

Villa Revedin

58. La lungimiranza del cardinal Nasalli Rocca, che ha dotato la Diocesi di una prestigiosa sede di preparazione dei futuri presbiteri, ci ha offerto un ultimo caposaldo della nostra vita ecclesiale. “In spem Ecclesiae” sta scritto sul frontone del Seminario di Villa Revedin. E vuol dire: questo edificio nobile e solenne è stato edificato perché la Chiesa petroniana potesse continuare a sperare; qui la comunità cristiana possiede le premesse necessarie del suo avvenire; qui l’attesa del popolo credente, che vuol restare radicato nella fede dei padri, trova le ragioni precipue della sua fiducia.

Il Seminario è davvero la casa della nostra speranza: finché questa casa sarà fiorente della giovinezza di chi la colma e la anima della sua esuberanza e della sua animosa tensione verso l’ideale del sacerdozio, noi abbiamo la garanzia (contro ogni rinascente pessimismo) che il Signore non ci abbandona, anche di fronte alle sfide del Terzo Millennio.

59. Certo, la sollecitudine prima e la responsabilità inalienabile nei confronti dell’istituto di formazione al sacerdozio diocesano è del vescovo. Nondimeno ogni comunità parrocchiale, ogni aggregazione, ogni credente, deve sentirsi coinvolto in quest’opera e guardare a Villa Revedin con una simpatia che nasce dalla fede e con una generosità che è la prova dell’autenticità dell’amore per la Chiesa di Bologna e il vero bene del popolo petroniano.

V. Indicazioni operative

Ritorno alla normalità

60. Dopo la febbre santa e benedetta dell’Anno Giubilare, riprende il tempo tranquillo ed esigente della “normalità”; riprende, dopo la riflessione di questa Nota, con uno slancio nuovo e una nuova lucidità. Ricordiamo, a questo proposito, la sapiente e concreta annotazione di Giovanni Paolo II: “Questo anno e questo tempo speciale passeranno, in attesa di altri giubilei e di altre scadenze solenni”. Ma “la domenica, con la sua ordinaria ‘solennità’, resterà a scandire il tempo del pellegrinaggio della Chiesa, fino alla domenica senza tramonto” (Dies Domini 87).

La Visita Pastorale, che nei prossimi tre anni intende ravvivare e rinsaldare il rapporto del Pastore con tutte le comunità parrocchiali dell’Arcidiocesi, sarà un’opportunità in più per rianimarci nell’impegno della nuova evangelizzazione, che non deve mai venir meno.

61. A indirizzare e animare questa pastorale “normale” non sono necessari speciali programmi e ulteriori orientamenti. Mette conto invece, per i vari settori e le varie tematiche, ricorrere a quanto già è stato detto in questi anni.

Ecco le Note pastorali che sono state fin qui pubblicate:

1. Per la vita del mondo (Itinerario pastorale verso il Congresso eucaristico diocesano), 1985

2. I malati nella comunità ecclesiale, 1987

3. La pastorale dei ragazzi e dei giovani, 1988

4. I frutti di un Congresso Eucaristico, 1988

5. Casa canonica e comunità ecclesiale, 1989

6. Matrimonio e famiglia, 1990

7. “Guai a me…” (Per la nuova evangelizzazione), 1992

8. Christus hodie (In preparazione al Congresso Eucaristico Nazionale e al Grande Giubileo), 1995

9. “E lo condusse a Gesù” (Sulle vocazioni al presbiterato), 1997

10. Dal Congresso al Giubileo, 1998

11. Il sostegno economico dell’azione pastorale della Chiesa, 1999

12. La città di san Petronio nel Terzo Millennio, 2000

62. Come si vede, questi testi – tutti elaborati con l’apporto di molti contributi e molti suggerimenti – nello spazio di sedici anni hanno sussidiato i temi più rilevanti e attuali della vita ecclesiale, hanno offerto un’organica proposta pastorale e (specialmente nella Nota Christus hodie) hanno richiamato con chiarezza quelle primarie verità di fede che sono particolarmente insidiate nella cristianità dei nostri giorni.

Li riconfermo e li ripropongo, nella speranza che non siano dimenticati e resi inoperanti.

I pellegrinaggi a San Petronio

63. Il “ritorno alla normalità” non impedirà lo svilupparsi di una speciale iniziativa.

Invito ciascuna comunità parrocchiale a programmare – negli anni che vanno dal 2001 al 2003 – un pellegrinaggio a San Petronio, con le seguenti finalità:

– venerare il nostro santo Patrono che, dopo la solenne traslazione della sera del 3 ottobre, finalmente si sarà reso presente nella splendida dimora che i nostri padri gli avevano preparato fin da sei secoli fa;

– sollecitare la sua intercessione perché la nostra città e tutta la gente bolognese sappiano tener desta e anzi accrescere la coscienza della loro originalità “petroniana” di fronte alle “sfide del Terzo Millennio”;

– pregare per la saggezza, la concordia e la prosperità del popolo “petroniano”.

Ogni parrocchia predisporrà per tempo la data di questo suo pellegrinaggio, in accordo con la direzione della basilica.

Conclusione

64. La Madonna di San Luca, san Petronio, i nostri martiri e tutti i nostri santi avvalorino i nostri voti, confortino i nostri propositi, ci mantengano gioiosi e fervidi nella nostra identità cristiana, mentre varchiamo con fiducia la soglia del Terzo Millennio.

+ Giacomo card. Biffi

arcivescovo di Bologna

Bologna, 12 settembre 2000