Vita Chiesa
Card. Betori: “Tempo segnato da divisioni e da guerre”, per cristiani “particolare responsabilità, per il nostro Paese e per il mondo”
“Siamo così richiamati alla radice del nostro essere cristiani e cioè alla coscienza che la nostra salvezza è puro dono: noi siamo il frutto della misericordia divina e dobbiamo esserne testimoni. Anzitutto facendo della Chiesa la casa della misericordia”, ha detto l’arcivescovo di Firenze, il cardinale Giuseppe Betori, che poi ha aggiunto: “Mai come oggi sentiamo l’urgenza di trovare riconciliazione e pace per l’umanità. In un mondo sconvolto da guerre, genocidi, terrorismo, povertà…, ci interroghiamo sgomenti se il nostro futuro debba essere lo scontro di civiltà e l’indifferenza di fronte ai drammi del sottosviluppo e della fame. Essere Chiesa segno della riconciliazione di Dio, vuol dire testimoniare la forza di riconciliazione e di amore che scaturisce dal Vangelo di Gesù”.
“Solo se riconosciamo il bisogno della misericordia divina per sanare le nostre fragilità, possiamo poi diventare capaci di aprirci ai fratelli, di accoglierli e di usare loro misericordia. Lontano da noi i miti dell’autosufficienza e dell’individualismo – ha concluso il cardinale – per riscoprire la forza dell’umiltà e la grandezza della comunione. Solo questo sguardo ci permette di aprire gli occhi alle miserie del mondo, alle ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità”.
Di seguito il testo dell’omelia
«I cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito!» (1Re 8,27), proclama Salomone rivolgendosi a Dio nella preghiera con cui inaugura il tempio che ha appena eretto. Eppure, di quel luogo, Dio stesso dice: «Lì porrò il mio nome» (1Re 8,29). Dio non è lontano dal nostro mondo e dalla nostra storia. Egli è il “Dio con noi” e questa sua vicinanza alla condizione dell’uomo e al suo cammino la esprime anche nel segno di una presenza in un determinato spazio: dapprima nei luoghi santi disseminati lungo il cammino dei patriarchi del popolo di Israele, poi nella tenda che accompagna l’esodo del popolo dall’Egitto e quindi nel tempio santo di Gerusalemme, fino ai luoghi che la comunità cristiana, agli inizi nelle case e poi in edifici dedicati, consacra alla preghiera e alla celebrazione dei misteri sacri.
Segno di un Dio vicino e di una comunità che si edifica nella comunione della fede è anche questa basilica. Rendiamo grazie dunque al Signore per questo tempio, che i nostri antenati vollero a lode della Vergine Maria. Ringraziamo il Signore per l’impegno di tanti che lungo i secoli lo hanno preservato, ripristinato dopo eventi calamitosi, oggetto di attenzioni da parte della comunità carmelitana e delle istituzioni cittadine che ne curano continui restauri perché continui a essere per noi uno dei luoghi privilegiati della devozione mariana di questa città e sede di memorie artistiche con cui il genio degli antichi maestri ha reso lode a Dio. Non possiamo dimenticare che l’evento di cui facciamo oggi memoria, la dedicazione di questa chiesa seicento anni fa, fu il tema di una delle opere più suggestive della nascente pittura italiana, la Sagra, l’affresco di Masaccio, ahimè perduto, in cui di quell’evento si riproduceva l’immagine, evidenziandone i protagonisti in un esercizio di prospettiva che avrebbe fatto scuola; per noi soprattutto plastica raffigurazione di una fede che si faceva storia entrando nel tessuto di una società che nella fede riconosceva un fattore fondamentale della propria identità e cultura.
La preghiera di Salomone, che ho già richiamato, termina con questa invocazione al Signore: «Ascolta la supplica del tuo servo e del tuo popolo Israele, quando pregheranno in questo luogo. Ascoltali nel luogo della tua dimora, in cielo; ascolta e perdona!» (1Re 8,30). Riassumendo in una sola preghiera tutte le preghiere che si sarebbero innalzate a Dio da quel tempio, il re d’Israele indica nella richiesta del perdono l’essenziale di ciò che possiamo e dobbiamo attenderci dall’Alto. Non altrimenti fa Gesù nella preghiera insegnata ai suoi discepoli, che nella richiesta di perdono e nell’impegno per il perdono individua l’essenza di ciò che possiamo attenderci dal Padre nostro. «Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12).
La Chiesa è il luogo del perdono, della riconciliazione, della comunione con Dio e tra i fratelli. Lo è la chiesa costruita di pietre, nella figura stessa di mura che raccolgono nell’unità un’assemblea, aperta a ogni nuovo venuto e capace di esprimere anche visivamente la comunione. Lo è la Chiesa comunità dei credenti, che in questo spazio si genera mediante i sacramenti e a partire da essi viene inviata nel mondo per essere segno e germe di unità per tutto il genere umano. È un dato, questo, che ha una particolare attualità in questo tempo segnato da divisioni e da guerre, un dato che diventa per noi particolare responsabilità, per il nostro Paese e per il mondo.
Siamo così richiamati alla radice del nostro essere cristiani e cioè alla coscienza che la nostra salvezza è puro dono: noi siamo il frutto della misericordia divina e dobbiamo esserne testimoni. Anzitutto facendo della Chiesa la casa della misericordia. Scriveva Papa Francesco nel 2015 nella bolla di indizione del Giubileo della Misericordia: «L’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia. […] La credibilità della Chiesa passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole. […] Il perdono è una forza che risuscita a vita nuova e infonde il coraggio per guardare al futuro con speranza» (Misericordiae vultus, 10).
Abbiamo bisogno di discepoli di Cristo che, partendo dalla coscienza della propria fragilità, fanno esperienza della misericordia divina per sé, per poter divenire annunciatori della misericordia nel mondo e testimoni della misericordia. Solo se riconosciamo il bisogno della misericordia divina per sanare le nostre fragilità, possiamo poi diventare capaci di aprirci ai fratelli, di accoglierli e di usare loro misericordia. Lontano da noi i miti dell’autosufficienza e dell’individualismo, per riscoprire la forza dell’umiltà e la grandezza della comunione. Solo questo sguardo ci permette di aprire gli occhi alle miserie del mondo, alle ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità. Dal dono ricevuto a offerto della misericordia nasce la capacità di tendere la mano ai fratelli, a far sentire loro il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità, spezzando la barriera dell’indifferenza che nasconde l’ipocrisia e l’egoismo.
San Pietro ci ha ricordato che Dio ci ha scelti come suo popolo per proclamare «le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1Pt 2,9). L’opera, degna del nostro stupore, che Dio ha compiuto è il dono della riconciliazione sua con il mondo e, quindi, la capacità data a chi lo accoglie di fare del mondo un luogo di riconciliazione. Mai come oggi sentiamo l’urgenza di trovare riconciliazione e pace per l’umanità. In un mondo sconvolto da guerre, genocidi, terrorismo, povertà…, ci interroghiamo sgomenti se il nostro futuro debba essere lo scontro di civiltà e l’indifferenza di fronte ai drammi del sottosviluppo e della fame. Essere Chiesa segno della riconciliazione di Dio, vuol dire testimoniare la forza di riconciliazione e di amore che scaturisce dal Vangelo di Gesù. L’edificio della Chiesa che noi siamo deve risplendere di questa speranza operosa e di questa carità illuminata dal dono della vita del nostro Signore.
E qui, per concludere, siamo ricondotti al fondamento, al perché della sacralità di questo luogo e della sacralità della stessa comunità cristiana. La prima lettera di Pietro ci ha indicato la strada per diventare «pietre vive» di una comunione irradiante, invitandoci a stringerci al Signore, «pietra viva, rifiutata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio» (1Pt 2,4). È Gesù Cristo la «pietra d’angolo» (1Pt 2,6.7), su cui edificare la forza della comunione per noi e per il mondo intero.
Celebrare la dedicazione di questa basilica significa anche ricordare che la chiesa-edificio è il «segno visibile dell’unico vero tempio che è il corpo personale di Cristo e il suo corpo mistico, cioè la Chiesa sposa e madre» (Rito della dedicazione di una chiesa, Premesse). Per questo, «al di là della sacralizzazione dello spazio materiale, […] siamo stimolati a cogliere nel Cristo uomo-Dio la vera sacralità che da lui si comunica a tutto il popolo santo e sacerdotale» (Ivi).
Il senso di questo rinvio alla persona di Cristo lo indica la pagina evangelica, dove incontriamo le parole di Gesù sul culto «in Spirito e verità», cioè un’adorazione del Padre resa possibile solo dall’azione dello Spirito in noi e dalla comunione che abbiamo con la rivelazione della verità nella persona del Figlio di Dio fatto uomo. Solo Gesù, verità del Padre e comunicatore dello Spirito, ci apre alla piena e autentica adorazione di Dio. È un’adorazione che non si risolve in un atto interiore o spiritualistico, ma ha il suo paradigma nel dono che Cristo fa di sé sulla croce e la sua esplicitazione nella pratica del comandamento della carità. È quanto significa e produce l’Eucaristia, anche questa Eucaristia che stiamo celebrando. Abbiamo bisogno di un ritorno sempre più coerente a Cristo e a lasciarci guidare da lui in un esercizio perfetto del dono di noi stessi a tutti.
È quanto ci invita a fare Maria, a cui è dedicata questa basilica, con la sua vita tutta orientata al Figlio e all’obbedienza alla parola del Padre. Sia lei a intercedere per noi, figli suoi, per volontà del suo Figlio Gesù.
Giuseppe card. Betori
Arcivescovo di Firenze