Toscana
Carceri toscane, viaggio nel disagio
Pentole che sbattono su sbarre arrugginite, lenzuola bruciate, slogan contro i carceri. E’ stato un agosto caldo per le carceri. Anche in Toscana, una delle regioni con il più alto numero di istituti penitenziari (ben 18) e di detenuti. Svanito da un pezzo l’effetto indulto le celle sono di nuovo sovraffollate e manca il personale. A Ferragosto nel carcere di Arezzo è andata in scena una piccola «rivolta», figlia di un disagio che dura da tempo, come ci conferma il cappellano del carcere don Dino Liberatori. Il Provveditore regionale, Maria Pia Giuffrida, in un’intervista concessa al nostro settimanale, ci spiega cosa si sta facendo per migliorare la vita nelle carceri toscane. Ma ci sono anche espeienze positive, come quella di Gorgona, dove in un regime di «custodia attenuata» i detenuti hanno la possibilità di lavorare e di favorire anche un possibile reinserimento dopo il carcere. Nell’sola di Gorgona ha trascorso alcuni giorni nel mese di agosto il vescovo di Livorno, mons. Simone Giusti, che ha parlato a lungo con detenuti, guardie carcerarie e le loro famiglie. Tra i progetti del vescovo quello di nominare un cappellano fisso per il carcere di Gorgona.
AREZZO. Quel disagio dietro la rivolta d’agosto
di Lorenzo Canali
Pentole che sbattono su sbarre arrugginite; urla di persone che assieme alla libertà ora corrono il rischio di perdere anche la dignità. In un’Arezzo sopita dal caldo e svuotata dalle partenze estive è stato il frastuono di una protesta che passerà alla storia come la «rivolta di ferragosto» a destare gli aretini. Il carcere di San Benedetto scoppia, ancora una volta e le sue strutture giorno dopo giorno, anno dopo anno, necessitano sempre più di un ristrutturazione non più procrastinabile. Una situazione che ha spinto gli ospiti della struttura ad una sollevazione con tanto di lenzuola in fiamme sventolate dalle finestre ed urla a «disturbare» la serata di ferragosto di Arezzo.
«La protesta ora è rientrata spiega don Dino Liberatori, assistente spirituale del carcere aretino ma l’emergenza continua ad esserci, ogni giorno». Attualmente sono 114 i detenuti presenti nel carcere, a fronte di una capienza che normalmente dovrebbe arrivare a 65, massimo 91 detenuti. A tutto questo poi si aggiunge il fatto che la struttura risale al 1929 e, nonostante qualche intervento negli anni, al momento non appare più adeguata ad ospitare un carcere. «L’estate è il periodo peggiore per i detenuti spiega don Liberatori . Le celle sovraffollate sono invivibili. Non ci sono attività e chi si trova «dietro le sbarre» si sente abbandonato». A peggiorare ulteriormente le cose poi ci pensa la giustizia italiana. «Molti dei carcerati sottolinea l’assistente spirituale sono in attesa di giudizio. Un’attesa spesso infinita, con i tempi dei processi che si allungano in modo smisurato». Ma è il «dopo» ciò che fa più paura. «I detenuti chiedono spesso di avere occasioni di inserimento. Chiedono di poter imparare un nuovo lavoro. L’uscita dal carcere fa paura. In molti casi chi è stato arrestato ha perduto tutto, dalla casa, al lavoro. Solo i più fortunati hanno ancora una famiglia che si mantiene in contatto con loro».
Ma in questa situazione qual è il ruolo dell’assistente spirituale? «Il mio compito spiega don Liberatori è quello di stare accanto alle persone, parlare, dare speranza, celebrare l’Eucarestia. Quella che si trova in carcere, infatti, è una comunità a tutti gli effetti. Ci sono persone battezzate e non, ma per tutti ci deve essere una parola di conforto. Lo stare dentro una cella ti porta a scoprire lati di te stesso che non avresti mai pensato. Nei carcerati emerge spesso un’esigenza di umanità, di contatto con altre persone, di voglia di ripartire che colpisce». Una voglia di costruirsi un nuovo futuro dopo aver «pagato» le proprie colpe che gli istituti carcerari dovrebbero incoraggiare in ogni modo. «Il sistema carcerario italiano necessita di una riforma radicale. La situazione di San Benedetto ad Arezzo è solo un piccolo esempio di quanto accade in Toscana e nel resto del paese. L’indulto non è riuscito a risolvere i problemi. Occorre un trasformazione più profonda, che non può essere fatta in un solo giorno e che deve coinvolgere non solo le strutture ma anche la mentalità di chi le gestisce».
L’INTERVISTA. Giuffrida: «Situazione al limite ma sto recuperando altri spazi»
di Claudio Turrini
Sto facendo di nuovo un giro in tutti gli istituti toscani per vedere e per far sentire una presenza. È un lavoro complesso che richiede, più che grandi dichiarazioni, un’operatività giorno per giorno sui problemi concreti». Maria Pia Giuffrida, Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziale per la Toscana dall’aprile 2007, e con una lunga esperienza alle spalle (dal ’94 al 2002, ad esempio, ha diretto il settore misure alternative del Ministero) sa che la situazione delle carceri toscane è difficile. Svanito da tempo l’effetto indulto, la capienza è di nuovo al limite di «tollerabilità». E in agosto si sono verificati vari episodi di protesta da parte dei detenuti, come la «battitura» delle inferriate. Ma nel suo stile, preferisce smorzare i toni. Quello che sta succedendo, ci dice, «non è avvenuto all’improvviso. Lo sapevamo già. C’è un trend crescente di ingressi. E la Toscana rispetto ad altre regioni è ancora in una situazione di gestibilità. Più che di un sovraffollamento regionale preferirei parlare di sovraffollamento di alcuni istituti, come Sollicciano, Pisa, Pistoia e Prato, che poi sono i più grandi». Per questo è al lavoro per cercare di «recuperare tutti gli spazi detentivi non utilizzati, con interventi strutturali, grazie alla manodopera dei detenuti stessi, in modo da ridistruibire la popolazione carceraria».
Alla richiesta degli assessori regionali Rossi e Salvadori di un «tavolo» permanente sul carcere ha già risposto positivamente. L’ultimo incontro è stato a metà agosto, ma si rivedranno presto, il 17 settembre. «Abbiamo deciso di attivare una riunione cadenzata presso il mio Provveditorato per considerare insieme tutte le problematiche», ci spiega. «Non sono equilibri facili. A me il difficile compito di gestire il quotidiano e di non abbandonare le prospettive».
Provveditore, da cosa nascono le proteste dei detenuti in questa estate?
«In agosto le problematiche di invivibilità in una struttura quale è un carcere si sono incrociate con la gestione dei diritti del personale alle ferie. Questo ha portato ad una contrazione inevitabile di alcuni aspetti della giornata quotidiana del detenuto. Soffriamo una grave carenza di organici…».
Quanto personale manca?
«Per la polizia penitenziaria la carenza è del 23%. Ma ancora più grave è il dato del comparto ministeri, con una carenza del 35,2%. Se ne parla di meno, ma comporta molti problemi. La parte amministrativa contabile è la spina dorsale del carcere. Senza fondi, è già ne abbiamo ben pochi, e senza una oculata ed equilibrata gestione, molte cose poi non vanno in porto. Ne soffre anche la parte rieducativa, nonostante l’immissione in servizio di 7-8 nuovi educatori. Tutto questo rallenta le attività trattamentali, che oltre a rispondere al dettato costituzionale riescono a rendere maggiormente gestibile la complessità penitenziaria».
Ci sono anche altre ragioni?
«La popolazione che abbiamo è composta al 49% da stranieri. E questo complica la gestibilità, perché c’è la convivenza di tante culture diverse. Inoltre il numero di definitivi è molto limitato, quasi il 50%. Abbiamo moltissimi appellanti, giudicabili, ricorrenti, che trascorrono in carcere un periodo breve o brevissimo e questo appesantisce la gestione di taluni uffici penitenziari (la matricola) e non dà possibilità di intervento trattamentale, per il poco tempo a disposizione».
Qual è la differenza tra Case circondariali e Case di reclusione?
«Quella teorica è che gli istituti di reclusione dovrebbero ospitare solo i detenuti con sentenza definitiva. In realtà c’è la convivenza di circuiti diversi. Sollicciano è emblematico in questo senso. Sto cercando di ricondurre gli istituti quantomeno ad una prevalente connotazione circondariale o penale, così da distribuire più equamente anche le risorse sia umane che economiche. Certo, in un penale ci saranno sempre piccole sezioni circondariali e viceversa, perché poi c’è anche l’elemento territoriale. Ma se abbiamo una maggiore omogeneità di target all’interno di un istituto è più facile lavorare».
Quali sono le realtà carcerarie che funzionano meglio?
«I penali doc sono i più gestibili. Perché sulla media durata di permanenza anche il detenuto entra in relazione con gli operatori e viene gestito meglio. Abbiamo anche la possibilità di assegnargli un lavoro. Come a Gorgona, dove tutti lavorano».
Quella di Gorgona è un’esperienza molto particolare. Ce ne sono altre interessanti?
«Ciascuna realtà penitenziaria può essere considerata interessante. Certamente Gorgona è un’esperienza irripetibile. Essendo un’isola si presta ad un trattamento con maggiore libertà. Poi la presenza di tutta una serie di risorse lavorative ci rende possibile fare cose che in un istituto come Sollicciano o Pisa è difficile portare avanti».
Perché uno dei grandi problemi è quello del lavoro…
«Sì, perché di lavoro ce n’è poco. E con la riduzione di fondi che abbiamo avuto riusciamo a garantire a stento la pulizia, le cucine…. Porto Azzurro è un altro istituto che lavora bene. Vorremmo arrivare ad offrire al detenuto che si comporta bene di poter fruire di situazione detentive sempre più libere».
A questo proposito, si parla di istituti a «custodia attenuata». Cosa significa?
«Significa che c’è un profilo di sicurezza meno alto. Ma io preferisco chiamarli istituti ad elevato trattamento, ai quali vengono assegnati detenuti che hanno fatto una scelta trattamentale consapevole, selezionati con dei percorsi-filtro che permettono di valutarne l’idoneità. Abbiamo il Gozzini a Firenze, quello di Massa Marittima e anche Gorgona. Ma se parliamo di trattamento, allora anche a Massa sono molti quelli che lavorano. E a Volterra, a Siena e anche a Prato ci sono iniziative pregevoli».
Tra i 18 carceri toscani ce n’è uno molto particolare, quello «psichiatrico» di Montelupo. Si parla da tempo di chiuderlo.
«È la prospettiva che ci diamo e che si dà anche la Regione Toscana. Ed è una cosa positiva. Temo però che la tempistica sia meno rapida di quanto si desidera. Si va verso verso una regionalizzazione degli Opg, che per il momento sono solo 5 in Italia, ma il passaggio della sanità alle regioni è ancora giovane, siamo ancora in una fase di sperimentazione. L’auspicio è che ogni regione riassorba la propria utenza, con strutture più piccole, più gestibili, per favorire poi il reinserimento».
Siete preoccupati per l’effetto sul carcere del «pacchetto sicurezza»?
«Sicuramente, perché le nuove norme comporteranno un maggior ingresso in carcere. Per questo stiamo cercando di recuperare capienza. Non ci aspettano tempi migliori. Ci aspettano tempi che vanno gestiti, non con l’allarmismo, ma con molto equilibrio e la gestione del quotidiano».
Qual è l’apporto del volontariato carcerario?
«È fondamentale. Ci dà un grande aiuto. Abbiamo 66 volontari (ex articolo 78) che entrano nei carceri toscani. Ma la collaborazione su progetti a temine è molto più ampia e coinvolge 781 volontari. Sono fondamentali anche per aiutarci a seguire il reinserimento all’esterno, che purtroppo non è frequente».
L’ESPERIENZA. Per mons. Giusti «vacanze» a Gorgona con i detenuti
In greco significa «sirena»: forse per quel profilo che ricorda il volto di una donna emerso dalle acque. La Gorgona, isola a 37 km da Livorno, lunga tre chilometri e larga due, è abitata da non più di 200 persone, quasi tutte legate al carcere, la «colonia penale a indirizzo agro-zootecnico», una delle poche realtà dove si riesce a mettere in pratica quanto sancito dall’articolo 27 della Costituzione, che prevede il recupero dei carcerati. Un’ottantina sono i detenuti (ma in passato sono stati anche 160), una trentina i poliziotti (sempre sotto organico), oltre a pochissimi abitanti, tutti eredi dei primi colonizzatori, originari di Bagni di Lucca. A questi si aggiungono i familiari in visita ai carcerati, e d’estate le famiglie dei poliziotti, qualche turista giornaliero che arriva due o tre volte la settimana da Rosignano e lavoratori di passaggio.
Non tutti i carcerati possono scontare la pena alla Gorgona. Lo spiega il direttore dell’istituto Carlo Alberto Mazzerbo. Si deve anzitutto fare una domanda. Si deve passare una successiva e severa selezione, per la natura di regime aperto dell’istituto e l’autodisciplina che dunque è richiesta. Non vengono accettati tossicodipendenti e alcolizzati, stupratori, chi si è macchiato di crimini verso i bambini o chi appartiene alla criminalità organizzata. Il fine pena non deve inoltre essere superiore ai dieci anni.
È in mezzo a questa particolare umanità che il vescovo di Livorno, mons. Simone Giusti, ha voluto trascorrere le sue «vacanze» estive. Cinque giorni, dal 7 all’11 agosto, passati ad incontrare i carcerati e le guardie, assieme ai loro familiari. Un’udienza continua. Una specie di «visita pastorale» per cercare di capire anche le esigenze dell’isola. Per circa un anno la cura spirituale era stata affidata ad una donna, Elisabetta, della comunità francescana Santo Spirito. Adesso che la comunità ha lasciato la Diocesi, c’è il progetto di trovare un cappellano fisso per il carcere. Scelta non facile, sia per la penuria di sacerdoti che per il ruolo estremamente delicato.
Mons. Giusti, che ha dormito in una vecchia casa della Diocesi, ha anche fatto il punto con i responsabili dell’istituto sul Protocollo d’intesa del 2008 tra Caritas diocesana e Amministrazione carceraria, che prevede una cooperativa per il reinserimento lavorativo soprattutto nel settore edilizio e per la distribuzione dei prodotti alimentari prodotti sull’isola. Perché qui si lavora davvero. Ci sono detenuti che ristrutturano edifici, elettricisti, meccanici, macellai. Coltivano ortaggi, olivi e viti. Allevano all’aperto animali domestici, dalle vacche alle api, ma anche le famose orate vendute poi nei supermercati Coop di tutta la costa Toscana. Gestiscono un macello anche’esso appena ristrutturato, un caseificio, un mulino per produrre il mangime degli animali, un frantoio per fare l’olio e una cantina per il vino. Per questo sono anche pagati. Ma soprattutto, aspettando il giorno in cui estingueranno la pena, acquisiscono una professionalità da spendere poi al loro rientro in società. Imparare un lavoro per i carcerati è in fondo l’unico modo per av ere un futuro una volta tornati in libertà. E la Diocesi di Livorno vuol dar loro una mano.
LA TESTIMONIANZA. Corridoi stracolmi di una umanità sconfitta e derelitta
Il Carcere è nuovamente vicino al punto di rottura, ogni volta che i riflettori si accendono sul penitenziario è per focalizzarne le brutture, le contorsioni, l’incapacità a piegare a una qualche utilità la pena, a coscientizzare ciascuno a fornire un contributo serio per creare le basi di una funzione sociale condivisa, soprattutto a ribadire il corretto significato alle parole, alle norme, ai dettati costituzionali.
Il carcere è allo stremo, nei corridoi del dolore, le celle raccolgono i silenzi delle assenze mal interpretate, i lamenti delle speranze usurate, dove al più è consentito di sopravvivere, ma non di imparare a rispettare la vita, perciò il prossimo: non c’è insegnamento a riesaminare il proprio vissuto, a mutare interiormente, a scegliere se non esigere una nuova condotta sociale, con la quale ritornare a essere persone con un valore e un futuro da condividere insieme agli altri.
Sul carcere non ci sono più barzellette e raggiri intellettuali che tengono, sono andati al macero slogan e pubblicità irridenti la realtà, quella che scompagina verità e indicibilità, non sempre riconducibili alla disonestà del detenuto, a cui giustamente è richiesto di fare il primo passo verso una profonda riconciliazione verso se stesso e gli altri.
I reati diminuiscono ma gli ingressi in carcere aumentano, le carceri sono stracolme di umanità sconfitta e derelitta, soprattutto straniera, e non c’è respingimento che ottenga risultati, così il penitenziario sprofonda in una terra di nessuno, dove l’omertà appare come un chiacchiericcio per mimetizzarne le ottusità, per non rimanere invischiati in quell’opera di demolizione delle speranze ridotte a bestemmie, a promontori della paura, a banali eventi critici, che però non danno preoccupazioni.
Carceri affollate e tagli di personale, carceri del dramma e dati forniti malamente, carceri della sofferenza ingabbiata, triturata, moltiplicata con scienza, perché il carcere deve emanare ribrezzo, terrore, paura, deve restare luogo di punizione sorda e muta, dove si muore senza alcuna dignità riconosciuta, perché ritenuta blasfema, senza un obiettivo, una prospettiva, un futuro percorribile, dentro una solitudine e un abbandono che non sono casuali né accidentali, prescrizioni non scritte in alcuna norma o legge, eppure vincolanti per tentare di sopravvivere alla violenza che mina e scava un solco indelebile nel cuore di ogni uomo detenuto.
Bisogno di sicurezza non vuole dire massimizzare gli strumenti di castigo a discapito di quelli di risocializzazione, né approvare il suicidio indotto dalle patologie e dall’indifferenza, non è neppure abitudine alla anormalità carceraria, privilegiando l’invivibilità alla possibilità di una vita migliore per chi paga il proprio debito alla collettività.
Carcere e legalità, carcere e educazione, carcere e futuro che non c’è, mantenendo una sorta di obbligatorietà a un tempo bloccato al reato-colpa, che non aiuta a fare passi in avanti, neppure nei riguardi di quei famosi diritti umani di cui tanto si fa vanto.
Non siamo più capaci di guardare al carcere con onestà intellettuale, neanche al cospetto della morte indifferente di tanti detenuti giovani e non, la ferità è lì, aperta, rischia l’infezione, perché la cecità delle coscienze non consente di ricercare concretamente altre vie, altre umane alternative.
*Vincenzo Andraous, 55 anni, è stato condannato all’ergastolo, ed è detenuto da 35 anni. Attualmente è nel carcere di Pavia e da 9 anni è in regime di semilibertà svolgendo attività di tutor e responsabile del Centro Servizi Interni della Comunità terapeutica «Casa del Giovane» di Pavia. È scrittore e poeta.
GLI ISTITUTI. Le case circondariali, dodici in tutto, sorgono ad Arezzo, Empoli, Firenze («Mario Gozzini» e Sollicciano), Grosseto, Livorno, Lucca, Massa Marittima, Pisa, Pistoia, Prato, Siena. Tre di queste, quelle di Empoli, la «Mario Gozzini» di Empoli e Massa Marittima, sono a custodia attenuata. Poi ci sono le cinque case di reclusione: Gorgona, Massa, Porto Azzurro, San Gimignano, Volterra. E c’è l’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino. In tutto 18 istituti.
META’ STRANIERI. Ogni cento detenuti, ci sono in Toscana 48 stranieri, una percentuale che è aumentata notevolmente negli ultimi tempi, passando nell’arco di appena un anno, (da luglio 2006 a luglio 2007) dal 39% al 48%. In Italia la media è un po’ più bassa: circa il 37%. Le donne sono complessivamente circa il 4%, in Italia come in Toscana.
FINITO L’EFFETTO INDULTO. Sono 1.700 i detenuti usciti di carcere nel 2006 per effetto dell’indulto. Molti altri ne hanno beneficiato trovandosi già in misura alternativa. Di questi, fino a luglio dell’anno scorso, erano rientrati negli istituti di pena toscani in 622: per metà stranieri. A livello nazionale i detenuti sono passati da 60.710 (luglio 2006) a 39.005 (dicembre 2006) per poi risalire progressivamente fino a 58.127 all’inizio del gennaio 2009 e superare quota 61 mila alla fine di marzo. Al 31 agosto 2009 sono 63.993, a fronte di una soglia di tollerabilità stabilita in 64.111.