Toscana

Carceri, assistenza religiosa aperta a tutte le confessioni

di Francesca ScarpelliniIl sistema carcerario dell’Unità d’Italia e della prima metà del secolo scorso era caratterizzato da una concezione strumentale della religione. Religione vista «come strumento per incutere timore nel detenuto, per svolgere un’azione deterrente e per spingerlo all’obbedienza». È un excursus storico quello proposto dal professor Carlo Cardia, docente di diritto ecclesiastico all’università romana «Roma 3», nella tavola rotonda tenutasi alla Sapienza di Pisa e dedicata all’assistenza spirituale nelle carceri.

La conferenza faceva parte di un ciclo di tre lezioni promosse dallo Sportello per i diritti umani di Pisa. Vi hanno partecipato monsignor Giorgio Caniato, ispettore delle cappellanie nelle carceri, don Roberto Filippini, cappellano della casa circondariale «Don Bosco» di Pisa e il professor Pierluigi Consorti, direttore dello Sportello per i diritti umani di Pisa. Il professor Cardia, che ha fatto parte della commissione di studio per la revisione del Concordato fra lo Stato e la Chiesa cattolica, e ora di quella per la riforma della legge sulle cappellanie, ha sottolineato come in passato il cappellano faceva parte di un consiglio di disciplina e per il detenuto vi fosse l’obbligo di seguire le funzioni e i riti religiosi. «Nel 1975 questo settore, come altri, è stato riformato – ha detto il professor Cardia – in questo settore, così come in altri in quegli anni. L’assistenza spirituale non è stata più vista come obbligo, ma come un diritto».

Oggi, a quarant’anni di distanza si avverte la necessità di rimetter mano alla legislazione, per determinare che cosa è «assistenza spirituale». Per monsignor Caniato, che ha un’esperienza di cappellano nelle carceri, perché ha passato con questo ruolo 41 anni a San Vittore a Milano, il termine «assistenza spirituale» non è corretto. «Più opportuno sarebbe parlare di assistenza religiosa, laddove la religione è il rapporto con Dio. L’uomo, ha diritto alla cultura e al lavoro, ma ha anche il diritto ad avere un rapporto con Dio. Così come il detenuto. Così gli articoli 1 e 4 del testo del 1975».

Ma su questa definizione le difficoltà rimangono. Anche perché , secondo il professor Cardia, spesso l’assistenza religiosa diventa morale e psicologica, anche se non è più trattamentale. C’è poi il nodo dei detenuti che professano altre religioni. «L’assistenza – ha sottolineato Cardia – deve essere aperte anche alle confessioni diverse dalla nostra, ma non vi deve essere identificazione con i soggetti destinatari».

Oggi, e questo è un altro problema, occorre anche circoscrivere i soggetti portatori di assistenza: «Per esempio in Belgio vi sono associazioni e organizzazioni ateistiche che hanno un preciso riconoscimento. Ma se un’associazione nega Dio, in quanto ateistica, come fa a fare assistenza religiosa?».

Sempre più problematico si farà nei prossimi anni il tema dei carcerati musulmani: persone infedeli che per l’Islam devono essere dimenticate. L’imam, che non è un ministro di culto, non va ad assisterli, né spiritualmente né umanamente, anche se le carceri sono aperte alle persone di altre religioni. Ma i musulmani non sono abbandonati a sé stessi. È l’esperienza sia di Caniato, che a San Vittore ha offerto la sua disponibilità e la sua assistenza a tutti, sia di don Roberto Filippini, che insieme ad una suora e ad un diacono svolge da cinque anni la sua opera di assistenza spirituale al carcere di Pisa. «Abbiamo organizzato – ha detto don Filippini – la nostra presenza quotidiana, coprendo molte ore non solo con i detenuti, ma anche con le guardie penitenziali». Per il sacerdote, «nella prospettiva conciliare l’assistenza religiosa può essere svolta anche da personale laico, così come del resto è accaduto in Corsica, perché quello che conta è accettare la persona che viene presentata dalla Chiesa».