Toscana

Carcere, “manca un percorso di reinserimento”

Le principali criticità secondo il garante dei detenuti della Toscana Giuseppe Fanfani

Carcere (foto archivio)

Un’organizzazione strutturata e professionale per il reinserimento in società delle persone e una miglior qualità della detenzione che, a eccezione delle piccole realtà, manca di dimensione umana. Sono queste le principali criticità che il garante dei detenuti della Toscana, Giuseppe Fanfani, individua all’interno delle carceri regionali.

Un sistema detentivo non dissimile da quello nazionale, ma con almeno una variante positiva. «In Toscana non esistono carceri con oltre mille persone – spiega – In un carcere piccolo è possibile avere un rapporto positivo con i detenuti, puoi conoscerli meglio, capire i loro problemi e quindi anche gestirli meglio. Nelle strutture più grandi sei solo un numero ed è un dramma spaventoso: Prato è la struttura più grande con oltre 500 persone, segue Sollicciano con poco meno e poi ci sono San Gimignano, Pisa e Livorno». Ma chiariamo bene un punto: nei carceri piccoli si sta un po’ meglio, ma nessuna delle strutture è tendenzialmente vocata a un processo di reinserimento.

«Siamo ancora lontani da questo discorso, ma ce ne sono alcuni che hanno delle positività ecco – prosegue Fanfani – La Gorgona è un carcere particolarissimo, insulare, dove le persone stanno libere da quando aprono le celle alla mattina fino alla sera e trascorrono il tempo facendo agricoltura, lavorano nelle vigne, imparano a curare giardini e orti e quando escono qualcuno se li può prendere a lavorare. Un carcere che ha potenzialità diverse è quello di Massa, dove quasi tutti i detenuti lavorano alla tessitoria dell’amministrazione penitenziaria italiana. È un aspetto estremamente positivo: fanno lenzuoli, coperte, cuscini, guadagnano qualcosa e riescono a dare una dimensione positiva alla loro permanenza dietro le sbarre. C’è un ambiente diverso, ecco, a Massa la gente non s’ammazza, per capirsi. Infine citerei per terzo quello di Volterra, che ha una dimensione culturale tramite l’associazione teatrale della Compagnia della Fortezza, fondata da Armando Punzo. Una realtà che permette di far capire ai detenuti che c’è possibilità di una realizzazione anche fuori dal carcere».

Il reinserimento in società di un detenuto rimane però ancora oggi uno scoglio. «Diciamo pure che è un miraggio, tutti ne parlano ma nessuno ha intenzione di affrontare il discorso seriamente – dichiara Fanfani – Un detenuto, anche se bravo a fare qualcosa, quando esce dal carcere non se lo vuole nessuno. Il reinserimento dei detenuti dovrebbe essere un lavoro, seguito da un manager che si occupa solo di questo. Una figura che allaccia rapporti con il territorio e le sue aziende. Non basta però la formazione, bisogna prima partire dal mercato del lavoro e dalle necessità delle attività di zona: così imprenditori e professionisti si avvicinano al carcere, insegnano ai detenuti un mestiere e poi, quando si crea un rapporto di fiducia, saranno loro stessi a proporre a queste persone di lavorare. Su questo sarebbe utile anche una modifica della legge Smuraglia, che prevede consistenti agevolazioni contributive per chi assume lavoratori carcerari».

Se i piccoli carceri vedono una dimensione più umana, questo aspetto viene decisamente meno nelle realtà più grosse dove sovraffollamento, condizioni sanitarie precarie e, purtroppo, anche i suicidi, sono temi all’ordine del giorno. «Dobbiamo fare chiarezza sul sovraffollamento: l’affollamento ordinario, ovvero quello consentito, è una definizione che porta con sé un’ipocrisia di fondo rappresentata dai 3 metri quadrati a detenuto. Lordi. Spazi previsti dalla legge e confermati dalla Cassazione. Ora immaginiamo con questo caldo di dividere una cella di 15 metri quadri con cinque persone, senza aria condizionata, cinque letti e un piccolo bagno e in questo ambiente ci devi anche mangiare, è difficile pensare di vivere così. Pensiamo a cosa possa significare una situazione di sovraffollamento, dunque al di fuori dell’ordinarietà, senza servizi accessori, pochissimi educatori e senza assistenza psichiatrica. Rischi di diventare un disgraziato, non mi meraviglia affatto il suicidio».

In questo quadro per fortuna almeno la sanità carceraria toscana funziona benino, gestita direttamente dalla Regione, sebbene risenta come tutto il comparto della mancanza di professionisti e risorse. «Ritengo che i problemi principali riguardino proprio la qualità della detenzione, la dimensione umana del carcere la mancanza di un’assistenza psicologica profonda per i detenuti, oltre che ovviamente il discorso di un percorso di reinserimento strutturato» ribadisce Fanfani. Rimane da chiedersi cos’è possibile fare per migliorare certe dinamiche, o almeno provarci. «Parlare di detenuti non porta voti e non dimentichiamoci che ci vorrebbero anche tanti soldi – conclude il garante – San Paolo diceva che per realizzare degli obiettivi servono la luce per vedere il percorso, il coraggio per seguirlo e la pazienza per sopportare le conseguenze di quello che si fa. Ecco, la nostra classe politica difficilmente ha tutte queste caratteristiche insieme».